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Io, Federico Perna: Morto nel carcere di Poggioreale
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E-book221 pagine1 ora

Io, Federico Perna: Morto nel carcere di Poggioreale

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Info su questo ebook

Che cos’è la vita? Un dono che va difeso? Un qualcosa da trattare a proprio piacimento? E chi ha il diritto di toglierla? Qual è il peccato più grande che si possa commettere, in vita? Quali sono i limiti che non si dovrebbero mai varcare per continuare ad avere il titolo di “essere umano”? Esiste un punto oltre il quale non ci si potrebbe mai spingere nella detenzione di una persona? Quando una determinata azione smette di essere… legale per diventare sopruso? Questa è la storia vera di Federico Perna. Un ragazzo come tutti noi, che ha avuto suo malgrado le risposte alle peggiori domande dell’uomo. Paolo Montaldo nasce a Cagliari nel 1974. Pubblica la sua prima opera “Di” nel 2011 a cui seguiranno altre otto pubblicazioni oltre a più di ventun premi in vari concorsi nazionali e internazionali.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2017
ISBN9788898738632
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    Anteprima del libro

    Io, Federico Perna - Paolo Montaldo

    Scafuro

    Prefazione

    Vi diranno che la pena di morte in Italia è stata abolita nel 1947 con l’avvento della Costituzione. Vi diranno che nel nostro Paese la Legge è davvero uguale per tutti, e ogni cittadino gode degli stessi diritti.

    Ma se si ha la sfortuna di finire in carcere si è meno uguali degli altri.

    E a volte capita che lo Stato, custode di chi si smarrisce e giustamente deve scontare la propria pena, non sia in grado di garantire i diritti di base che spettano a ogni essere umano.

    Federico Perna era un giovane che lo Stato aveva preso in custodia perché aveva smarrito la strada. La sua punizione consisteva nel privarlo della libertà, perché è questa la massima pena che stabilisce il nostro ordinamento.

    I suoi errori invece, Federico li ha pagati con la vita: un infarto diranno le fonti ufficiali.

    D’altro parleranno le immagini di un corpo straziato che fanno più male di un destro allo stomaco. Paolo Montaldo è riuscito a ricostruire gli ultimi giorni di detenzione di Federico Perna, dando vita a un racconto dai ritmi palpitanti, dove l’angoscia di vivere dietro le sbarre, i continui trasferimenti da un istituto di pena all’altro, emergono pagina dopo pagina.

    Per farlo, Montaldo è diventato Federico Perna.

    Ha fatto sue le speranze di un detenuto affidate alle lettere inviate alla propria madre, ha sofferto per la paura, che accomuna tanti rinchiusi in carcere, di non respirare mai più l’aria libera. Federico Perna, Stefano Cucchi, Carlo Saturno, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi: morti di Stato, li chiamano. Giovani deceduti o in carcere, o comunque sotto la tutela di chi dovrebbe garantire l’incolumità di un cittadino.

    Anche se ha sbagliato.

    Io, Federico Perna è un libro che fa male, ma proprio per questo va letto sino all’ultima pagina. Un libro capace di suscitare compassione ma anche indignazione, perché siamo pur sempre il Paese di Cesare Beccaria, l’illuminista che già nel 1764 scriveva contro la pena di morte e la tortura. Indignazione perché siamo il Paese di Beccaria e ancora nel nostro ordinamento non è stato introdotto il reato di tortura.

    Indignazione perché siamo il Paese di Beccaria, ma a volte più di Federico Perna, Stefano Cucchi, Carlo Saturno, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi.

    Ivan Murgana

    giornalista e scrittore

    Prologo

    La Costituzione della Repubblica Italiana è stata approvata dall’Assemblea Costituente il ventidue dicembre del millenovecentoquarantasette e promulgata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, cinque giorni dopo, il ventisette dicembre, giusto il tempo di festeggiare un Natale che avrebbe portato più speranze che regali, e lo stesso giorno venne pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana numero duecentonovantotto.

    In edizione straordinaria.

    Il documento entrò in vigore il primo gennaio del millenovecentoquarantotto, dopo soli quattro giorni.

    In tutta fretta verrebbe da dire.

    Con urgenza quasi.

    E in effetti c’era una certa fretta.

    E c’era anche una certa urgenza.

    C’era fretta di certezza.

    E c’era urgenza di diritti.

    Di diritti inviolabili.

    Inalienabili.

    Riconosciuti a tutti i cittadini.

    Garantiti a tutti i cittadini.

    A tutti uguali.

    Per tutti uguali.

    Senza alcuna odiosa discriminazione.

    Di alcun tipo.

    Senza che nessun cittadino possa o debba subire un trattamento diverso o deteriore rispetto a un altro.

    Per eccesso di garanzia?

    Per abomini del garantismo derivanti dal tremendo momento storico da cui l’Italia era appena uscita?

    Sicuramente per un superiore diritto naturale d’eguaglianza.

    Come minimo.

    E in tutto ciò, l’articolo ventisette della nostra suddetta Costituzione della Repubblica Italiana così disciplina:

    "La responsabilità penale è personale.

    L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

    Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

    Non è ammessa la pena di morte".

    Questo disciplina.

    Esattamente questo.

    Tutto chiaro?

    Belle parole, vero?

    Profonde.

    Importanti.

    Decisive.

    Definitive verrebbe quasi da dire.

    Cariche di significato anche.

    Ma… esattamente, che cosa vogliono dire?

    Intanto La responsabilità penale è personale indica che i reati con fattispecie penale sono appunto personali, ovvero che soltanto chi ha commesso un determinato fatto può essere chiamato a risponderne.

    Lui soltanto e nessun altro, come è giusto che sia del resto, verrebbe da chiosare.

    Semplicemente, chi si è reso responsabile di un determinato crimine, è giusto che ne paghi le conseguenze.

    Lui, e nessun altro.

    È per lo meno lapalissiano intuirne come ciò tenda a escludere perfino i parenti più stretti del reo che non hanno alcun obbligo verso la pena inflitta proprio perché non hanno avuto alcun compito nel reato, sebbene legati da un rapporto di parentela, anche stretta, con il condannato.

    L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, questa bellissima e fortissima frase indica invece che nessuno, a prescindere dalle accuse che gli vengano ascritte e dagli indizi che gravino a suo carico, può essere considerato colpevole fino a quando non sia stato processato e giudicato in tutti i gradi di giudizio previsti dal nostro ordinamento.

    E questo perché?

    Perché si riconosce, con una certa lungimiranza, la possibilità che perfino gli organi inquirenti e giudicanti possano commettere degli errori, essendo soltanto esseri umani e quindi viene offerta la possibilità di eseguire un nuovo dibattimento con un nuovo giudizio nel caso in cui il precedente o i precedenti si suppone siano stati viziati in qualche modo.

    E quindi fino all’ultimo grado di giudizio, ovvero fino al giudice ultimo previsto, chiunque ha il diritto d’essere considerato totalmente innocente.

    Completamente.

    Fino a prova contraria ovviamente.

    Fino a quando cioè, l’ultimo giudizio previsto, non ne stabilisca la colpevolezza.

    O la totale estraneità ai fatti.

    Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

    Frase… immensa questa.

    Dalla portata gigantesca.

    Infinita.

    Talmente infinita da essere quasi inafferrabile e inattuabile certe volte.

    Ma… portandola in un piano più vicino a noi, e quindi traslandola dalla sua valenza teorica da iperuranio del diritto a una più strettamente pratica e materiale, quotidiana quasi, specifica che chiunque abbia commesso un reato, di qualsivoglia natura si tratti, deve essere condannato alla privazione della libertà e quindi alla reclusione in carcere ma, e qui s’impantana un grandissimo ma, la sua pena, ciò che egli è condannato a scontare e pagare per il reato commesso è proprio questo, ovvero la privazione della libertà.

    Cioè, la massima forma di punizione prevista dal nostro ordinamento è proprio la privazione della libertà, considerata essa stessa quindi come il bene più grande.

    Nient’altro, secondo il nostro legislatore, per un essere umano può essere più grave, più dannoso o più drammatico della perdita della libertà.

    In ciò, il nostro ergastolo si specifica appunto come pena massima applicabile.

    La totale e definitiva privazione della libertà acquisita per nascita.

    La libertà.

    La privazione di essa.

    Ecco, questa è la massima pena afflittiva che può essere comminata in Italia attualmente.

    Niente di più.

    Niente di peggio.

    Niente di più grave o dannoso.

    Niente di più opprimente.

    Niente di più fastidioso.

    Niente di più mortificante.

    Niente.

    La perdita della libertà.

    Questa è la sanzione prevista.

    Questa e basta però.

    Eh sì, attenzione.

    Nessun’altra sanzione supplementare può essere applicata a parte la privazione della libertà.

    Cioè, il negare la libertà a qualcuno è già la pena che si sta scontando.

    È già l’afflizione che il colpevole deve pagare per ciò che ha commesso.

    Non altre non dette o sussurrate o non previste.

    Nossignore.

    Solo quella.

    Solo e soltanto quella.

    Nient’altro.

    Ma non basta.

    C’è di più, infatti.

    Il nostro legislatore, con una certa lungimiranza, predispose che oltre a ciò, oltre quindi alla privazione della libertà, la sanzione stessa non potesse essere contraria al senso di umanità.

    Senso di umanità?

    Di chi?

    Si suppone un senso comune.

    Si pensa che sempre per diritto naturale potremmo dire, ogni uomo sia dotato di appunto un senso di umanità che gli è proprio e in ciò vada ricercata appunto questa specificazione.

    Cioè il legislatore ha supposto che nessun uomo per quanto abbietto possa essere, infierisca su una persona che già stia scontando una sanzione.

    Una pena.

    La pena massima tra l’altro.

    La privazione del bene più grande.

    La privazione della libertà.

    Quindi, sanzione sì.

    Carcere sì.

    Privazione della libertà sì.

    Ma non oltre.

    Non si può, in Italia, procedere ulteriormente.

    Ci si deve, obbligatoriamente, per legge, fermare a questo punto.

    Quella è dunque una barriera invalicabile.

    Cioè la privazione della libertà è già considerata come il massimo della sofferenza e dell’afflizione possibile.

    Quindi, in forza di ciò, la detenzione nelle strutture penitenziarie deve essere tale da non degradare chi deve forzatamente risiedervi.

    Non solo.

    Non essendo le persone, gli esseri umani, dei vuoti a perdere, il legislatore ha intuito che chiunque commetta un reato, dal più grande al più piccolo, deve essere trattato in maniera tale da… diciamo guarire, se possibile, la condizione che l’ha portato a subire la privazione della libertà.

    E, come recita appunto il testo dell’articolo, a essere rieducato.

    E perché?

    Per una sorta di sussurrata filantropia?

    Perché nel momento in cui avrà di nuovo restituito il bene più grande, la libertà appunto, sia in grado d’inserirsi

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