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L'uomo che salvò la bellezza
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E-book265 pagine3 ore

L'uomo che salvò la bellezza

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Info su questo ebook

Anche l'Italia ha avuto il suo Monuments man. Questa è la sua storia.
Ha poco più di vent'anni Rodolfo Siviero, poeta e critico d'arte, quando viene avvicinato da un funzionario del Partito Fascista. La richiesta che gli arriva è del tutto inattesa. Dovrà andare a Erfurt, nel cuore della Germania nazista, per raccogliere informazioni sul nuovo alleato. Dovrà diventare una spia. In Germania troverà molte cose. Una nazione ottenebrata dai deliri di potenza di un dittatore. Una donna, Emma, bellissima e misteriosa, con cui intreccerà una grande e diffi cile storia d’amore. L’orrore del campo di prigionia di Buchenwald. E scoprirà che Goebbels e Hitler intendono saccheggiare le città d’arte italiane, col beneplacito di politici compiacenti, per creare un grande museo del Terzo Reich. Cinque anni dopo, durante la guerra, a Firenze, Siviero è il leader di una squadra che, tra travestimenti, scontri armati e rocambolesche fughe, impedirà ai nazisti di saccheggiare il patrimonio artistico italiano. Lì, nella sua città, incontrerà di nuovo Emma…
Ispirato a una storia vera, il romanzo di un eroe che salvò gran parte del patrimonio artistico di Firenze dalle mani dei nazisti.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2020
ISBN9788830509597
L'uomo che salvò la bellezza
Autore

Francesco Pinto

È nato nel 1952 a Napoli. È stato a lungo direttore della sede Rai del capoluogo campano e oggi insegna all’Università Federico II. Ha pubblicato, con Mondadori, i romanzi La strada dritta (2011, da cui è stata tratta l’omonima miniserie Rai), Il lancio perfetto (2014) e L’età dell’oro (2016).

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    L'uomo che salvò la bellezza - Francesco Pinto

    copia

    1

    Marzo 1938

    Nero.

    Dal finestrino non si vedeva nient’altro che l’oscurità profonda in cui si era tuffato il treno non appena era calato il sole. Solo la luce della motrice tagliava, come una lama, il buio della notte e un rumore infernale ne annunciava il passaggio con la precedenza su tutti gli altri convogli, compresi quelli militari, che sempre più affollavano la rete ferroviaria del paese come sangue nuovo nel corpo di un gigante che si stava risvegliando e armando.

    Il vagone di prima classe era quasi deserto e, nello scompartimento centrale, il fumo della sigaretta di un uomo si impastava con la luce azzurrina della lampadina di lettura facendo brillare a intermittenza la brace. In quella nebbia i tratti del suo viso si smarrivano indefiniti. Un fantasma perduto nel nulla. Sul vetro appannato iniziò lentamente a disegnare delle lettere: prima una E, poi una R seguita da una F, una U e un’altra R e infine una T. Erfurt. Era la città dove stava andando. Al centro della Turingia, nel cuore della Germania nazista.

    A fare la spia.

    Diede di nuovo un tiro alla sua Macedonia e guardò l’orologio con la stessa impazienza del giorno in cui era avvenuto l’incontro che lo aveva messo su quel treno.

    Non c’era rumore, quella mattina, solo un silenzio ovattato, appena disturbato dal suono dei passi cauti che si muovono nelle anticamere degli uomini potenti. L’uomo che doveva incontrare, potente lo era davvero: Galeazzo Ciano, genero del Duce e nuovo ministro degli Esteri. C’erano voluti mesi per coltivare la sua amicizia e ora era lì per chiedergli quello che gli spettava: un incarico culturale fuori dall’Italia, magari in Belgio o in Francia, dove avrebbe potuto sfruttare al meglio la sua perfetta conoscenza del francese. Tra tutte le pecore che avevano fatto domanda, lui era certamente l’unico lupo.

    Il ministro lo aveva fatto attendere a lungo mentre diversi impiegati, uomini d’affari e funzionari di partito entravano e uscivano dalla stanza dove si sarebbe deciso il suo destino. Durante tutto quel tempo, un uomo, seduto immobile di fronte a lui, aveva continuato a fissarlo senza fare nulla per nasconderlo. Non era riuscito a scrollarsi quegli occhi di dosso. Con uno dei suoi soliti colpi di testa si era alzato all’improvviso per chiedergli ragione di questo atteggiamento.

    «Ci conosciamo?» aveva domandato con tono aggressivo piantandosi di fronte a lui furente.

    «Sì» era stata la laconica risposta, «ora faccia il bravo e si accomodi accanto a me.» Con la mano aveva indicato la sedia vuota di fianco alla sua.

    Spiazzato da quella reazione, aveva chiesto, cauto: «Chi è lei? Quando ci siamo conosciuti?».

    Come risposta aveva ricevuto solo un vago cenno della mano. «Non hanno importanza né la prima e né la seconda cosa. Mi ha chiesto se la conosco. A questo posso rispondere.»

    Aveva poi iniziato a parlare con voce piatta come se leggesse un rapporto: «Rodolfo Siviero nato a Guardistallo il 24 dicembre 1911, figlio di Giovanni e di Caterina Bulgarini, studente brillante, ma con studi irregolari. Ha collaborato al Bargello e ha scritto una raccolta di poesie dal titolo La selva oscura che ha fatto fatica a pubblicare. Malgrado la giovane età, non elenco tutte le donne con le quali ha avuto una relazione. L’ultima, comunque, si chiama Hede, una giovane scultrice romena di ventidue anni. Lei, Rodolfo, disprezza Manacorda, il titolare della cattedra di letteratura tedesca all’Università di Firenze che, in una conversazione privata, ha chiamato disgraziatello. Frequenta il caffè delle Giubbe Rosse a Firenze dove vive attualmente. Oltre che di Ciano è amico di Pavolini. Adora d’Annunzio e, usando una sua espressione, ha più volte definito il capo del Reich un imbianchino».

    Rodolfo lo aveva guardato esterrefatto.

    L’altro non aveva mosso un muscolo e aveva aspettato qualche istante per fargli assorbire il fatto che gli avesse squadernato davanti tutta la sua vita e poi aveva continuato:

    «Ma soprattutto pensiamo che lei sia una persona intelligente e brillante.»

    «Grazie» aveva mormorato Siviero.

    «Noi crediamo possa essere molto utile al nostro paese.»

    «Noi, chi?»

    Ancora un gesto vago.

    «Oltre al francese lei parla perfettamente il tedesco.» Non era una domanda, semplicemente un altro paragrafo del dossier.

    «E questo che c’entra? Mi dica rapidamente cosa vuole. Il ministro può chiamarmi da un momento all’altro.»

    «Non succederà, non si preoccupi» aveva risposto tranquillo il suo interlocutore prima di cambiare improvvisamente discorso. «La vita è stravagante e piena di imprevisti. Facciamo cose che, se il giorno prima qualcuno ci avesse detto avremmo fatto, lo avremmo liquidato con una risata e con un impossibile. Ma la politica è ancora più imprevedibile» aveva affermato, con lo stesso tono piatto usato fino a quel momento. «Prendiamo la Germania: appena due anni fa eravamo a un passo dalla guerra e oggi siamo alleati.» Poi aveva fatto un cenno verso la porta del ministro. «La sostituzione di Suvich con Ciano sta tutta lì: un diplomatico legato ai francesi sostituito da un filonazista.»

    «E io cosa c’entro? Non ho nulla a che fare con la politica e con i giochi della diplomazia.»

    «Vede, Siviero, la Germania rimane un mistero. Hitler e Mussolini non si sono ancora…» cercava la parola giusta, «… capiti. Il Duce prese come un affronto personale l’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss di cui era amico. Si ricorda? Le nostre divisioni corazzate furono schierate sul confine del Brennero con l’ordine di intervenire e aprire il fuoco se i tedeschi avessero davvero invaso quel paese.» Aveva alzato la mano, lasciando un piccolissimo spazio tra il pollice e l’indice. «Siamo stati a tanto così dallo scontro armato. Poi gli accordi con i francesi, ai quali aveva lavorato Suvich, sono saltati, gli inglesi hanno permesso ai nazisti di ricostruire la flotta e noi ci siamo trovati dalla parte di Hitler.»

    «E io cosa posso fare?»

    «Vorremmo capire con chi davvero ci siamo alleati.»

    Si era acceso una sigaretta senza nemmeno fare il gesto di offrirla all’altro.

    «Certo, leggiamo la stampa, guardiamo i cinegiornali, riceviamo regolari rapporti dalla nostra ambasciata e parliamo con gli uomini d’affari tedeschi che vengono da noi e con i nostri che tornano da quel paese. Tutto sembra grandioso e perfetto, ma è proprio quando sembra tutto in ordine che gli uomini come me iniziano a sospettare. Avremmo bisogno di qualcuno che vada da loro per capire se i nostri dubbi sono fondati.»

    «Guardi che io sono un critico d’arte.»

    «Cosa fa quando deve valutare un quadro?» chiese il suo interlocutore con tono cortese.

    «Be’, per prima cosa provo a fare una valutazione complessiva dell’opera legata alla sua qualità visiva e alle mie impressioni.»

    «E poi?»

    «Inizio a studiarlo senza pregiudizio e cioè valutandolo non sulla base di quello che mi piace o non mi piace, ma cercando di capirlo. E così inizio a esaminare le singole parti: il soggetto centrale, le figure di contorno, lo sfondo, in un’analisi dove i dettagli sono fondamentali per capire il significato, spesso nascosto, dell’opera. Per esempio le nature morte del Seicento non sono semplicemente fiori e frutta, ma raccontano un mondo senza la presenza umana e la crisi di quel secolo.»

    «Molto interessante. E si ferma lì?»

    Rodolfo aveva fatto una smorfia di sufficienza. «Non sarei un buon critico. Vado avanti e analizzo il contesto in cui è stata prodotta quella singola opera e chi è l’autore. Nel Rinascimento i quadri iniziarono a essere firmati, ma quasi sempre manca l’anno. Sapere chi è stato il committente e la sua collocazione originaria ci aiuta molto per la datazione e la comprensione.»

    «Bene, così ha finito.»

    «Per niente. C’è la parte più delicata: l’esame del chiaroscuro, dello stile delle pennellate e di come è fissato il colore. Ogni pittore ha il suo modo inconfondibile e non serve la sua firma per l’attribuzione.»

    «Insomma, è in grado di dire anche se un quadro è vero o fasullo?»

    «Esatto.»

    Per la prima volta un muscolo si era mosso sulla faccia del suo interlocutore: un risolino appena accennato. «È stato scelto proprio per questo.» Si era frugato tra le tasche e aveva estratto un biglietto da visita su cui era semplicemente segnato un numero di telefono. «Abbiamo bisogno dei suoi occhi. Dovrebbe studiare per noi non una natura morta, ma una… viva.» Un ultimo sguardo alla porta chiusa e poi aveva aggiunto: «Ci pensi e, per cortesia, non dica nulla al ministro».

    Erfurt, stazione di Erfurt.

    L’annuncio dell’altoparlante lo strappò via dal ricordo di quel colloquio.

    Prese frettolosamente la valigia e mise piede sulla banchina osservando gli altri pochi passeggeri avviarsi rapidamente verso l’uscita. Persone del posto, pensò, che sapevano perfettamente dove andare e che cosa li attendeva: una moglie e dei figli, una fidanzata, un gruppo di amici in qualche birreria.

    Osservò il treno ripartire e perdersi di nuovo nell’oscurità dalla quale era emerso. Rimase da solo, sotto la luce fioca di un lampione, domandandosi perché avesse accettato di finire in quel nulla. Dopo quel primo contatto le cose si erano mosse in fretta, qualche nuovo incontro con il suo interlocutore senza nome e un colloquio con Pariani, un generale grosso e simpatico, che lo aveva riempito di complimenti e gli aveva ordinato di riferire solo a lui. Dopo meno di un mese gli era stata affidata la sua prima missione. E le cose avevano iniziate subito a non quadrare: nessun incarico di prestigio e soprattutto nessuna destinazione importante. Niente Monaco, niente Berlino e niente Amburgo: le città dove il nazismo brillava e dove tutto era permesso, se stavi dalla parte giusta. La voglia di tuffarsi in quel mondo nuovo ed energico era una delle ragioni per le quali aveva accettato di essere arruolato.

    E invece… una piccola somma e una piccola città ai margini della Foresta Nera.

    Si alzò il bavero del cappotto per proteggersi dal freddo e si avviò anche lui verso l’uscita, per poi muoversi in direzione dell’appartamento che gli era stato assegnato in Marktstrasse.

    La mattina dopo, Erfurt gli sembrò ancora più insignificante. Dette uno sguardo dalla finestra osservando lo scarso traffico e i pedoni che camminavano senza fretta o aspettavano tranquilli l’arrivo del tram. Sapeva perfettamente il significato di quella mancanza di impazienza e quello scorrere lento del tempo: era la provincia. La conosceva bene.

    Ma il posto dal quale veniva, anche se sembrava avere gli stessi ritmi di quella piccola città tedesca, era stracolmo di bellezza: la piazza della Signoria con il suo David giovane e sfrontato, la purezza di Santa Maria Novella, l’eleganza di Palazzo Pitti con i suoi meravigliosi giardini e la galleria degli Uffizi dove il genio italiano raccontava al mondo la sua magnificenza. Qui, invece, per quel poco che era riuscito a studiare prima di finire su quel treno, c’erano solo il Duomo dedicato alla Vergine Maria, una chiesona gotica di una certa importanza, e quella di San Severo, entrambe piazzate sulla Domplatz. E poi, il Ponte dei Bottegai sulla Gera, che faceva il verso al suo Ponte Vecchio.

    Mentre si annodava la cravatta si promise di stendere un programma per visitare quei monumenti e dare così una patina di credibilità alla sua copertura di giovane studioso dell’arte. Avrebbe incontrato qualche segaligno pastore luterano, un paio di anziani esperti del gotico locale e, probabilmente, sarebbe stato costretto ad ascoltare un noioso concerto di Bach, compositore che trovava insopportabile, eseguito da qualche musicista del posto che pestava con aria ispirata sui tasti di un organo. Dette uno sguardo distratto alla lettera di Lisa che prometteva chissà quali sfracelli se si fosse allontanato da Firenze e pensò con un sorriso che avrebbe avuto ben poche occasioni per tradirla.

    Per tutto il viaggio si era scervellato cercando di capire perché lo avessero spedito in quel puntino della carta geografica, ed era giunto alla conclusione che quello era un semplice banco di prova per poi inviarlo in posti ben più importanti. Meglio dunque superarlo bene e, soprattutto, in fretta.

    Si avviò verso Michaelisstrasse, la strada dove abitava il suo contatto. Erano pochi minuti a piedi, e Rodolfo si avviò con passo deciso ammirando le solide case colorate che si affacciavano sui marciapiedi – figlie della ricchezza della Lega anseatica di cui la città aveva fatto parte – e si diresse verso la casa di Alfredo Bernardino, al quale l’ambasciata italiana a Berlino aveva scritto una lettera riservata, recapitata con un corriere.

    L’uomo, un cinquantenne tutto vestito di scuro e con occhiali di osso che gli incorniciavano gli occhi chiari, lo accolse con il sorriso cordiale che si riserva sempre ai connazionali quando se ne vedono pochi nel posto dove si vive. Lo fece accomodare in un elegante e vasto salotto che, come tutta la casa, mostrava il benessere del suo proprietario. Al centro del salone, sotto un magnifico lampadario di vetro di Murano, c’era un lungo tavolo di mogano scuro, probabilmente inglese, con sopra due magnifici candelabri. Le sedie erano perfettamente allineate come per una parata, mentre sulla destra due ampie poltrone di cuoio antico erano divise da un elegante tavolino dove troneggiava una radio Telefunken 340. Sul lato opposto, due grandi divani rivestiti di seta antica erano disposti a elle. Le ampie vetrate della parete di fronte lasciavano intravedere un giardino ben curato.

    Bernardino prese posto su una delle due poltrone e invitò Siviero a sedersi su quella di fronte.

    «Allora, cosa posso fare per lei?» esordì.

    «Grazie per avermi ricevuto immediatamente.»

    L’altro fece un gesto con la mano per scacciare la frase e gli offrì un caffè che fu servito da una silenziosa cameriera non appena si accomodarono.

    «È una delle poche cose che mi mancano dell’Italia» commentò mentre riempiva la tazzina di zucchero, «ma non lo dica ad Agnita, la ragazza che lo ha portato. È al servizio della mia famiglia da più di due anni ed è convinta di prepararlo come si fa da noi.»

    Il caffè era pessimo e Rodolfo non riuscì a nascondere una smorfia.

    «Vede, ho ragione» commentò con una risata Alfredo, «e non si preoccupi di nasconderlo. Sono un commerciante di legname e osservare le reazioni dei clienti per capire cosa realmente pensino fa parte del mio lavoro. Si aiuti con lo zucchero come faccio io. Non è costretto a berlo tutto.»

    Rodolfo seguì immediatamente il suo consiglio e Alfredo attese che ne bevesse un sorso per cortesia.

    «Bene, il benvenuto non è stato dei migliori» disse con un sorriso, «ora, per farmi perdonare, sono a sua completa disposizione. Mi hanno scritto che è qui per studiare l’arte gotica della città. Avrà molto materiale sul quale lavorare e molti luoghi da visitare. Per facilitarle il compito ho preparato una lista di persone che potrebbero aiutarla a svolgere al meglio la sua ricerca e alcuni siti che deve assolutamente visitare.» Estrasse dalla tasca un foglio che porse a Siviero. C’erano pastori protestanti, studiosi locali, chiese, palazzi e concerti per organo.

    «Ho pensato che ascoltare la musica di Bach fosse il modo migliore per entrare nel clima culturale di Erfurt. Io lo adoro e credo sia il migliore compositore tedesco.»

    «Sono d’accordo con lei» replicò subito Rodolfo.

    Pensò freddamente: Vediamo se è vero che capisci perfettamente gli uomini che hai di fronte.

    «Bene, sono contento che condividiamo gli stessi gusti» rispose l’altro, fallendo la prova.

    Rodolfo cercò di capire qualcosa di più del posto dove era finito.

    «Cittadina tranquilla…»

    «Doveva vederla dieci anni fa, quando sono arrivato» rispose Alfredo con una risata. «La crisi l’aveva trasformata in uno dei peggiori posti dell’intera Germania, con le fabbriche che chiudevano una dopo l’altra, gli operai senza lavoro e i negozi vuoti. È stato un periodo davvero difficile: le squadre comuniste pattugliavano di giorno la città e, non appena scendeva la sera, le persone perbene si rifugiavano nelle loro case. Gli ubriachi violenti e i disoccupati incattiviti diventavano i padroni delle strade. Meno male che sono arrivati i nazisti.»

    Rodolfo si accorse che l’uomo aveva appuntato sul bavero della giacca il distintivo del NSDAP: una svastica nera su fondo bianco chiusa in un cerchio rosso. Stavolta Alfredo lo notò.

    «Questo me l’ha dato il borgomastro» disse il padrone di casa indicandolo con orgoglio. «Non posso iscrivermi al partito, anche se ho una moglie tedesca, ma l’ho chiesto espressamente per mostrare a tutti che sono dalla loro parte. Hanno salvato la Turingia e l’intera Germania.»

    Guardò l’orologio.

    «Ora mi scusi, ho un appuntamento in ufficio. Ci sarà modo di conoscerci meglio. Anzi, facciamo così: domani sera darò un piccolo ricevimento. Venga anche lei. Conoscerà qualche persona più interessante di quelle che le ho indicato nella lista. Cerchi di essere molto tedesco con gli uomini e molto latino con le donne. Non se ne pentirà.»

    Rodolfo si trovò per strada che era quasi ora di pranzo. Scelse a caso un piccolo ristorante e si lasciò convincere dal proprietario ad assaggiare la specialità del posto: la salciccia arrosto speziata. La trovò quasi peggiore del caffè di Agnita e riuscì a finirla aiutandosi con l’enorme boccale di birra che gli era stato piazzato davanti. Il pomeriggio si rintanò nel suo appartamento senza alcuna intenzione di iniziare il giro turistico delle grosse chiese tedesche.

    Impiegò quelle ore a scrivere una risposta alla disperata lettera di Lisa, prima, e poi a scriverne un’altra a Elisabetta, una ragazza che aveva conosciuto da poco. Non ebbe nessun imbarazzo a passare da una lettera di abbandono a una di corteggiamento. Le amava tutte, le donne: quelle che aveva avuto e quelle che ci sarebbero state nei giorni a venire. Erano come le opere d’arte: un’immensa bellezza che andava goduta per intero, bevuta fino all’ultima goccia.

    La mattina seguente fece quello che si fa in provincia quando il tempo a disposizione è molto e le faccende da sbrigare poche: si alzò tardi e trovò un bar nella Domplatz, da cui si mise a osservare la gente di Erfurt provando, per gioco, a immaginare le loro vite.

    Passò un uomo con un’andatura veloce che guardava continuamente l’orologio, tra le braccia un fascio di documenti: probabilmente un impiegato di basso grado che aveva perso del tempo nell’ufficio dove era stato mandato e che, vista la giovane età, era impaurito dalla lavata di testa che gli avrebbe fatto il suo capo. Due donne, una camminava impettita, l’altra

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