Scrivo solo dopo il rum: Tragicomica esistenza di un pennivendolo beone
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Info su questo ebook
Poco attratto dalle luci della gloria, Jacopo trascorre le giornate tentando di scansare il lavoro e la notte gira a bordo della sua Croma scassata in cerca di donne e contatti umani, trascinandosi da un bar all’altro “protetto” dall’amico poliziotto Salvatore Costante, vicequestore “panzone” e da Federica “salviamoilmondo” Guglielmi, il suo grillo parlante. Finché la sua vita viene sconvolta da un delitto nella sua redazione, e il primo a esserne imputato è proprio lui.
Attorno al cronista si muovono i protagonisti di un mondo parallelo, come Dimitri, barbone che dorme nell’auto del giornalista e recita versi, o Gennarino ’o trans, che batte i marciapiedi di via Marina. E poi c'è il padre di Jacopo: un mite pensionato diventato spacciatore di marijuana per aiutare la moglie malata.
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Anteprima del libro
Scrivo solo dopo il rum - Antonio Di Costanzo
Dieci
La selezione di narrativa italiana di Homo Scrivens.
Homo Scrivens
Direttore di collana: Aldo Putignano
Editing: Aldo Putignano e Serena Venditto
Revisione bozze: Donatella De Tora
Copertina: Ugo Ciaccio
Autore: Antonio Di Costanzo
Titolo: Scrivo solo dopo il rum
Tragicomica esistenza di un pennivendolo beone
ISBN 9788832783056
I edizione Homo Scrivens, maggio 2017
I edizione ebook, novembre 2022
©2022 Homo Scrivens s.r.l.
via Santa Maria della Libera, 42
80127 Napoli
www.homoscrivens.it
Riproduzione vietata ai sensi di legge
(art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)
Antonio Di Costanzo
Scrivo solo dopo il rum
Tragicomica esistenza di un pennivendolo beone
logofrontespizioPROLOGO
CONSAPEVOLEZZE
Guardate Jacopo.
La sua è consapevolezza, non depressione.
Ci ha messo un po’, ma finalmente ha capito: a mandare avanti questo mondo sono la noia e la paura. L’uomo crea, lavora e ama per occupare il tempo. Poi combatte, odia e uccide per difendere quello che ha ottenuto e che ha paura di perdere. È la sua condanna per vincere la noia.
CAPITOLO 1
ODIO MALATO
Un’altra giornata qui dentro
rimuginava in silenzio. Il passo era affaticato. Dal peso del corpo, dagli anni, dalla rabbia. I movimenti di routine erano lenti, portati avanti con sforzo. Anche tirare fuori il badge dal portafogli, inserirlo nel sensore e spingere la porta in avanti dopo il bip gli procurava affanno.
Che schifo. Incompetenti falliti
pensava passando davanti alla segretaria che non lo degnò neanche di un accenno di saluto, mentre in petto il cuore gli batteva sempre più accelerato.
«Inchiodato tra questi imbecilli» sussurrò come fosse imbambolato per qualche minuto nell’ampio salone che ospitava i redattori della cronaca de Le Notizie, storie di quartieri e vicoli.
E quello stronzo come al solito non si è ancora presentato
gli occhi gli si illuminavano di odio. Maledetti, non voglio affogare con voi. È tutta la vita che lotto per diventare qualcuno. Per non essere un mediocre, un inutile verme che striscia
.
Per il caporedattore centrale Cristiano Lorusso chiudersi nella sua stanza era come entrare in un rifugio. Lì dentro aveva costruito un mondo parallelo a quello reale. In quell’universo era una prima firma del giornalismo, un raffinato commentatore di fatti di società e politica. In quel mondo immaginario, che ormai faticava a distinguere da quello reale, aveva pubblicato anche un libro di successo. Un saggio da milioni di copie.
Al sicuro nella sua tana, passava in rassegna i suoi strabilianti successi. Aveva sfondato ed era stato assunto come direttore di uno dei più importanti quotidiani d’Europa.
Di tempo libero ormai ne ho poco
rifletteva: le televisioni facevano a gara per contenderselo come ospite. Ma era il prezzo da pagare alla fama, sorrise soddisfatto come se assaporasse quei giorni di gloria.
Fuori da quella stanza, invece, nel mondo di carne e ossa, Cristiano Lorusso era solo un caporedattore de Le Notizie, un giornalaccio specializzato in truculenta cronaca nera. Un capo detestato che da anni non firmava un articolo decente. Un uomo che disprezzava il suo prossimo a tal punto da odiarlo.
«Mentecatti maledetti, nessuno di voi è degno di leccarmi i piedi» bofonchiò.
E poi lì, tra quei falliti, lavorava anche lui. Quell’infame. Quell’essere senza Dio e famiglia. Quell’ubriacone lavativo
.
«No, questa storia deve finire» ripeteva ad alta voce.
Sembrava un invasato. Prese con furia la cornetta del telefono quasi volesse spaccarla in testa a un nemico immaginario. Digitò il numero. Chiamò il suo protettore. Chiamò la sua anima nera. Voleva vendetta. Voleva affermare il suo potere, per quanto piccolo e meschino fosse.
«Sono io».
«Ti ascolto».
«Deve sparire. Non lo voglio più vedere davanti ai miei occhi. Quell’ubriacone non deve più entrare in redazione».
«Di chi cacchio stai parlando?»
«Di Fernandez».
CAPITOLO 2
ILLUSTRI MAESTRI DI MORALE E LEGALITÀ
La vecchia Croma grigio metallizzato era bloccata nel traffico. La strada si chiamava asse mediano, un infernale incubo di asfalto e abusi edilizi. Nella scatolina di ferraglia in marcia si agitava Jacopo Fernandez. Lo attendevano a Giugliano. Doveva moderare un dibattito sulla legalità in una scuola elementare e media.
Il pennivendolo beone, che amava solo tapparsi in casa per guardare le partite di calcio in TV, era diventato all’improvviso un paladino della giustizia, un fottuto giornalista eroe e per giunta socialmente impegnato.
No, per carità. Non era una sua scelta. Non era un pentimento per i peccati commessi né il desiderio di contribuire a migliorare il mondo.
Il giorno prima, il capocronista Angelo De Girolamo l’aveva chiamato: «Uè Jaki, domani a Giugliano tocca a te. Ormai sei il nostro inviato di punta e non puoi tirarti indietro. Quell’avvocatessa, come si chiama? Mi sembra Federica Guglielmi, ha insistito che andassi tu, è lei che ha organizzato tutto».
E così Fernandez si era ritrovato alle quattro del pomeriggio di un afoso lunedì di un maggio caldissimo in mezzo alla strada.
In fondo, pensò, è sempre meglio che andare in giro per vicoli malfamati rischiando di essere pestato a sangue o introdursi nelle case di sconosciuti per rubare foto di morti ammazzati dai comò mentre esprimeva solidarietà alle famiglie. Questa, da quando si era trasferito a Napoli, era la vita di Jacopo Fernandez, cronista e aspirante scrittore di successo. Al suo attivo un paio di romanzi indecenti
come li aveva definiti un critico, e una raccolta di racconti sconci pubblicati da una casa editrice semiclandestina che avevano venduto qualche centinaio di copie in tutto.
Viveva nella zona dei Quartieri Spagnoli in un vecchio bilocale al quarto piano di un palazzaccio senza ascensore. Si era rifugiato qui dopo aver abbandonato traumaticamente la cittadina del centro Italia dove era nato e aveva trascorso anni inconcludenti tra sbronze, fallimenti umani e lavorativi, tentando di imporsi come romanziere. Un fallimento condito da un matrimonio durato il tempo del ricevimento. Evento spartiacque della sua vita. Aveva trovato, anzi gli avevano trovato, un posto sicuro in banca, aveva firmato persino un mutuo per una casa e c’era una rispettabilissima donna che aveva giurato di voler trascorrere il resto della sua vita con lui. Una donna ambitissima in città. Gli aveva giurato amore eterno ma ora, quella stessa donna, pregava di vederlo morto.
Tutto perché Jacopo aveva contaminato quel ricevimento organizzato con tanta cura invitando di nascosto i suoi inqualificabili amici: Un’accozzaglia di ubriaconi nullafacenti
(il copyright era del suocero), che si erano trascinati dietro anche papponi, puttane e noti truffatori, sempre con il beneplacito di Jacopo, trasformando quel giorno fiabesco in una sarabanda felliniana.
Anche il fatto che si fosse giocato a poker le fedi, perdendole, non fu molto apprezzato dalla temporanea signora Fernandez. Né depose bene per lui l’aver offerto la madre della moglie a un noto usuraio zingaro a cui doveva del denaro. Fu la fine di un idillio costruito da altri sulle spalle del futuro cronista. Una favola sognata da altri con Jacopo attore non protagonista nel ruolo di papà e devoto marito per il resto della sua vita che, come punti massimi di ebbrezza, prevedeva domeniche a pranzo dai suoceri dopo la messa, passeggiate sul lungomare, qualche volta cinema al sabato e sesso, religiosamente praticato, un paio di volte al mese.
Dopo la richiesta di divorzio e di annullamento delle nozze alla Sacra Rota, presentata dall’avvocato dell’indemoniata consorte, si presentò, grazie a uno zio di cui non aveva mai sentito parlare, l’opportunità di un lavoro a Le Notizie, un piccolo giornale napoletano specializzato in cronaca nera. Jacopo, praticamente sfrattato da casa, fu costretto a prenderla al volo. Fece armi e bagagli e si trasferì a Napoli. «Vedrai che troverai la tua strada» gli disse il padre che quel figlio proprio non riusciva a capirlo e con cui neanche riusciva a parlare.
E così da quattro anni il cronista Fernandez si trascinava per Napoli scribacchiando. Viveva in una città che non amava, che non tollerava, ma da cui ormai non riusciva più a staccarsi. Frequentava poche persone. La sua vita era scandita giorno dopo giorno da sbronze e dal tempo che gli occorreva per rimettersi in piedi. Al lavoro difficilmente si presentava prima di mezzogiorno e quando usciva dalla redazione girava ramingo per i locali atteggiandosi a scrittore maledetto in maldestri e spesso inutili tentativi di rimorchiare le fanciulle che si trovava davanti.
Prima di rifugiarsi nella sua casa gli piaceva girare in auto guardando puttane e trans che battevano i marciapiedi. Solo quando si mischiava a quell’umanità sofferente si sentiva vivo. Ma nonostante il suo desiderio di allontanarsi dal resto del mondo che si sbranava per conquistare un posto al sole, Jacopo quasi inconsapevolmente era riuscito a centrare un paio di scoop: il primo riguardava una ragazza rumena scomparsa, vicenda dietro alla quale si celava un caso di ricatti e tangenti che vedeva coinvolti politici e rappresentanti delle istituzioni. Il secondo, invece, era una storiaccia di soldi contraffatti che aveva portato all’omicidio di un immigrato cingalese. In entrambi i casi Fernandez aveva rischiato di rimetterci la pelle. Il che equivale a un medaglia. E così era diventato suo malgrado un fottutissimo giornalista eroe
, di quelli che vengono invitati a convegni, a parlare nelle scuole: un simbolo di libertà di pensiero e coraggio. E per Jacopo questa era la peggiore delle condanne, senza aggiungere l’invidia e la rabbia che questo suo successo non voluto scatenava tra i colleghi. Ma quello che Fernandez non sapeva era che i suoi scoop gli avevano messo contro anche potenti, manovratori occulti a cui aveva causato fastidi.
Superò il cartello stradale con la scritta Giugliano, mentre scalava le marce nervosamente, ed era perfettamente consapevole che non gliene fotteva nulla di parlare a un esercito di bambocci, così come sapeva che agli alunni non fregava una minchia di ascoltare le sue fregnacce.
«E tutto per colpa di Federica vogliounmondomigliore
Guglielmi, il mio stramaledetto grillo parlante che vuole trasformarmi in un paladino dei suoi amici derelitti» obiettò indemoniato mentre il cambio dell’auto protestava disperato.
La Guglielmi per lui era un incubo. L’aveva conosciuta quando era ancora una praticante avvocato fresca di laurea e già si atteggiava a eroina senza macchia e paura. Era il suo opposto. Lui fuggiva dalla vita e sognava di essere ignorato, lei saliva sulle barricate per sventolare la sua bandiera.
Federica era quotidianamente impegnata a rendere migliore il mondo. Non c’era causa o battaglia per i diritti civili, ambientali o di ogni genere che non la vedeva schierata in prima linea. Tutto bene, insomma, Jacopo non giudicava, se non per il fatto che la Guglielmi aveva la cattiva abitudine di coinvolgerlo nelle sue crociate e metterlo spesso nei guai, quasi che volesse destarlo dal torpore vitale in cui si era rifugiato. Forse l’avvocatessa pensava che, se avesse salvato quell’inutile essere che passava la vita sbronzandosi davanti alla TV durante le partite di calcio, sarebbe riuscita davvero a fare qualcosa di grandioso anche per il resto del mondo.
Alla Croma priva di aria condizionata ci vollero 45 minuti per arrivare nel cuore di Giugliano, poco ridente e affollata cittadina di provincia sbranata dal cemento. Contava la bellezza di 120 mila abitanti e poche attrattive per distrarsi dalla quotidiane sofferenze o dal rincoglionimento domestico. Niente teatri dove addormentarsi davanti a un pompatissimo iperpremiato spettacolo moderno o un cinema dove buttare sette euro gonfiandosi la pancia con puzzolenti popcorn e schifose bibite gassate. In compenso, ogni strada era orridamente dipinta da strisce blu per la sosta a pagamento.
Un’ora costava due euro. Ogni altra ora o frazione, un altro euro. Speranze di sfangarla nessuna, visto che la piazza era presidiata da un quartetto di tizi deambulanti con la scritta ausiliari del traffico
sulla casacca blu.
«Buonasera, sono un giornalista: Fernandez, sono qui per il convegno».
«La scuola apre alle 18».
«Ma mi hanno detto alle 17».
«Sono il custode, la scuola apre alle 18, ho la circolare. Prego, esca dall’androne, cortesemente».
Fanculo al mio capocronista Angelo. Fanculo a Federica ‘salviamolebalene’ Guglielmi
.
Represse la tentazione di chiamare l’egregio paladino della legge fermandosi in un bar per una birra gelata che gli si bloccò nello stomaco. Cercò di riprendersi con un Campari soda, contravvenendo alla regola che si era imposto vietandosi bevande multicolor. Ma fu peggio. Adesso era certo di cagarsi addosso durante l’incontro.
Maledetti tutti voi. Perché non mi lasciate in pace?
Quando Jacopo si ripresentò dal custode, l’unica cosa che voleva chiedergli era di indicargli il cesso.
«Dica?»
«Sono il giornalista. Fernandez. Sono venuto prima. Per il convegno».
«Sì, ho capito. Ma inizia alle 19:30 e prima delle 19 non ho