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Ci manda San Gennaro
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E-book277 pagine10 ore

Ci manda San Gennaro

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Info su questo ebook

Napoli, 1947. Un solo uomo si fa avanti per riportare nel capoluogo partenopeo il tesoro di san Gennaro che è stato nascosto a Roma durante l’ultimo conflitto bellico. Vale più di quello della regina d’Inghilterra. L’uomo si chiama Giuseppe Navarra e ha fatto i quattrini, e tanti, con la borsa nera e i traffici illegali. Tutti lo conoscono come il re di Poggioreale. A fargli da scorta viene eletto Stefano Colonna di Paliano, un nobile vero, vicepresidente della Deputazione, l’antica istituzione che dal 1527 garantisce il rispetto del contratto tra Gennaro e il suo popolo. È l’uomo giusto al momento giusto. C’è un solo problema. Ha più di ottant’anni.

In missione per conto del santo, sulla Lancia che fu di Mussolini, con le casse del tesoro a bordo, il “re” e il “principe” affrontano un viaggio di ritorno che si rivelerà più lungo e contorto del previsto. Incroceranno gente stramba e disperata che abita all’ombra dei campanili nei paesi devastati dai bombardamenti, in un’Italia dove la legge è scomparsa, la fame la fa da padrona e la gente non vuole arrendersi.

Intanto a Napoli nessuno sa più niente di loro. Un ufficiale dei carabinieri, il capitano Fornero, inizia a sospettare che dietro la scomparsa dei due ci sia un piano criminale di Navarra per ammazzare Colonna e impadronirsi del tesoro. Scatenerà così una vera e propria caccia all’uomo. Dopo aver raccontato l’epopea della costruzione dell’Autostrada del Sole e le gesta dell’eroico Rodolfo Siviero durante la guerra, Francesco Pinto, senza nulla togliere all’esattezza della ricostruzione storica, passa a toni più leggeri e divertenti: perché Ci manda san Gennaro è una bellissima commedia partenopea piena di avventura, la storia di due indimenticabili protagonisti e della loro improbabile e meravigliosa amicizia.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788830530584
Ci manda San Gennaro
Autore

Francesco Pinto

È nato nel 1952 a Napoli. È stato a lungo direttore della sede Rai del capoluogo campano e oggi insegna all’Università Federico II. Ha pubblicato, con Mondadori, i romanzi La strada dritta (2011, da cui è stata tratta l’omonima miniserie Rai), Il lancio perfetto (2014) e L’età dell’oro (2016).

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    Anteprima del libro

    Ci manda San Gennaro - Francesco Pinto

    Prologo

    Dove si racconta di come il tesoro

    venne nascosto lontano da sguardi indiscreti

    «Quando ci muoviamo?»

    «Quando sarà il momento. Stai calmo.»

    «E chi ce lo deve dire? Sono ore che stiamo chiusi qui. Si è fatta notte e inizia a fare freddo.»

    «Quello seduto nell’abitacolo, a fianco dell’autista. Comanda lui.»

    Il retro del camion era al buio e a stento lasciava intravedere il profilo dei due uomini che stavano parlando a bassa voce. Erano accovacciati uno di fronte all’altro con tre grandi casse poggiate sul pianale a dividerli. In fondo le altre due persone che occupavano il cassone erano poco più di un’ombra.

    «Come ci sei finito in questa storia?»

    «Gli dovevo un favore che mi ha fatto durante la guerra. Quella è finita da un anno, ma il favore era bello grosso.»

    Un ghigno gli si disegnò sulla faccia.

    «E tu lo dovevi a me. Te lo ricordi?»

    L’altro cambiò discorso.

    «Fammi fumare.»

    L’uomo cacciò dalla tasca un pacchetto bianco di Alfa e gli offrì una sigaretta, poi lo passò ai due sul fondo che ne presero una ciascuno in silenzio. Erano poco più che adolescenti.

    «Ci possiamo fidare di loro?»

    «Li ha scelti lui. Vengono dal Vasto, sono napoletani come noi, stanno a Roma per studiare in seminario.»

    «Sono preti?» chiese meravigliato il suo interlocutore.

    «Quasi.»

    «Ce la faranno a sollevarle?» domandò dopo aver squadrato il loro fisico esile. «Le casse sembrano belle pesanti.»

    «Lui ha detto che se sanno quello che c’è all’interno tirano su anche il camion con noi dentro.»

    «Cosa contengono?»

    «Non sono fatti nostri. Ce l’hai la pistola, piuttosto?»

    L’altro cavò dalla tasca del giubbino in tela leggera una semiautomatica M34.

    «Ho messo il colpo in canna.»

    I due ragazzini alla vista dell’arma sussultarono.

    «Mettila via, maledizione! Quelli già sono spaventati. Li vuoi far morire di paura?»

    Un vecchio frate uscì da dietro una delle colonne della facciata della basilica di San Paolo fuori le Mura. Osservò guardingo il piazzale deserto prima di fare un cenno di via libera al camion. L’uomo nell’abitacolo aprì di scatto la portiera e scese. Era alto e magro, e indossava un lungo spolverino che lasciava scoperte solo le scarpe di cuoio scuro, il cappello di feltro nero che ne nascondeva i lineamenti mostrava appena il naso aquilino e il mento appuntito che affondava in una sciarpa scura di seta.

    Andò a passi svelti verso il retro dell’automezzo.

    «Avanti, svelti. Portatele dentro» ordinò scostando il telone.

    I quattro non se lo fecero ripetere. Afferrarono due casse e scesero a terra.

    «Della terza che ne facciamo?» domandò quello con il giubbetto di tela.

    «Rimango io di guardia.»

    «Ha bisogno di un’arma?» chiese l’uomo mostrando il calcio della pistola.

    «Non mi serve, ho la mia» rispose quello toccandosi al centro del petto.

    I quattro si avviarono a passo svelto in chiesa. Ad attenderli c’era un altro frate, che gli indicò la canonica.

    «Mettetele lì, dopo le sposteranno i miei confratelli. Andate a prendere l’altra, muovetevi.»

    I due uomini lasciarono i seminaristi ansimanti su una panca e si precipitarono fuori dove li attendeva impaziente il tipo con lo spolverino.

    «Ci avete messo un sacco di tempo» commentò quando lo raggiunsero.

    «La canonica è parecchio lontana» provò a giustificarsi uno dei due.

    Quello sembrò non ascoltarlo nemmeno: i suoi occhi frugavano il piazzale per controllare che fosse davvero deserto. Fece con la mano un cenno di fermarsi e i due si bloccarono davanti al telone con l’ultima cassa già a terra. Nel silenzio sentirono un fruscio lieve a destra della basilica immersa nel buio. L’uomo con il giubbetto di tela mise la mano in tasca.

    Un gatto chiazzato uscì di corsa dal punto dove veniva il rumore per rifugiarsi sotto al colonnato. Si sentì una bestemmia soffocata e l’uomo con lo spolverino li fulminò con lo sguardo.

    «Fate in fretta, non abbiamo tempo. È pericoloso qui fuori» ordinò brusco infilandosi una mano sotto il cappotto leggero all’altezza del petto.

    Solo quando anche la terza cassa raggiunse le prime due, il suo volto si distese.

    «Bene» mormorò, poi si rivolse ai due seminaristi e ai due borghesi e disse con tono sollevato: «Lo sapevo che potevo fidarmi di voi. Ora tornate sul camion. Vi raggiungo subito».

    I quattro filarono via.

    Rimasto solo con il frate che aveva dato il segnale di via libera, congiunse le mani e mormorò poche parole prima di sfilarsi lo spolverino.

    L’abito talare che indossava era stretto in vita da un’alta fascia paonazza, al centro del petto una croce d’oro massiccio e la catena dello stesso materiale che la reggeva facevano da contrasto acceso con il nero del tessuto.

    L’altro religioso si inginocchiò.

    «Eccellenza» disse baciandogli la mano. «Il Santo Padre ha preso la decisione giusta» dichiarò mentre si rialzava a un cenno del monsignor Montini.

    «Speriamo proprio di sì, frate Nicola» rispose con un sospiro l’alto prelato, «ora controlliamo se tutto è in ordine.»

    Esaminarono uno per uno i sigilli con le chiavi incrociate e il triregno del Vaticano che chiudevano le casse assicurandosi che non fossero stati manomessi.

    «Può lasciarmi per un momento da solo?» chiese il monsignore alla fine dell’ispezione.

    Il frate andò via dopo un nuovo baciamano.

    Montini giunse le mani e iniziò a pregare a bassa voce: «Domine Deus, firma fide credo et confiteor omnia et singula quae Sancta Ecclesia Catholica proponit…».

    Quando ebbe finito l’Actus fidei fece il gesto di benedizione verso le casse.

    «San Gennaro, proteggile» mormorò prima di lasciare la canonica.

    Capitolo I

    Di quando, all’udire il vociare della folla, sindaco e assessori convennero che forse forse il santo si sarebbe incazzato

    «Sono ancora lì?»

    «Sì, stanno nella basilica di San Paolo dall’anno scorso. I monaci le hanno nascoste bene e non hanno mai fatto trapelare che le casse fossero nella loro biblioteca.»

    Il sindaco di Napoli, Giuseppe Buonocore, guardò la porta chiusa dell’ufficio in cui si era rifugiato dopo la brusca interruzione del Consiglio comunale. Dall’esterno giungeva attutito il vociare di una folla minacciosa che, con la sua irruzione, aveva fatto saltare bruscamente l’ennesimo dibattito sul nuovo piano regolatore. La stanza, che a stento conteneva tutte le persone che avevano seguito il primo cittadino nella sua fuga precipitosa, era piccola, con una misera scrivania piena di vecchie macchie di caffè, la fotografia del capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, due sedie spaiate, un logoro tappetino e una serie di faldoni abbandonati a terra a prendere polvere. Tutto sembrava precario, compresa la sicurezza dei fuggitivi.

    «Insomma, che vogliono?» domandò accendendosi nervoso l’ennesima Lucky Strike di contrabbando della giornata.

    «Il loro rientro immediato a Napoli. Hanno detto che non vanno via da qui se non hanno l’assicurazione che la cosa venga fatta subito» dichiarò preoccupato l’assessore all’Edilizia che insieme all’intera giunta si era messo al riparo in quell’ufficetto.

    «E la vogliono da me?»

    «Certo» continuò l’altro, «lei non è solo il sindaco, ma anche il presidente della Deputazione. C’è un contratto che lo testimonia.»

    «E io dovrei rispondere di un contratto del…»

    «Millecinquecentoventisette» precisò l’assessore. «È l’anno della stipula tra il popolo personificato appunto dalla Deputazione e il santo. È perfettamente valido e i preti non c’entrano niente. San Gennaro si impegna a proteggere la città in cambio di una degna dimora e di una serie di doni che gli debbono essere elargiti nel corso degli anni per confermarlo. Il contratto è stato rispettato da tutti: dai sovrani fino all’ultima popolana. Ognuno ha dato quello che aveva di più prezioso. È tutto in quelle tre casse nascoste a San Paolo fuori le Mura.»

    «Il tesoro di san Gennaro» precisò una voce dal fondo.

    «E dove sta il problema?» chiese meravigliato Buonocore. «Facciamole rientrare immediatamente così tutta questa gente va a casa contenta e noi possiamo tornare ad affrontare la marea di problemi che abbiamo di fronte. Siamo già abbastanza nei guai per aggiungerci pure questo.»

    L’assessore si schiarì la voce imbarazzato: «Non è così semplice».

    «E perché?» chiese il sindaco lanciando un nuovo sguardo preoccupato verso la porta chiusa.

    «L’esercito e i carabinieri si rifiutano di aiutarci. Dicono che le strade sono una chiavica e piene di banditi, e il contenuto è troppo prezioso per garantire un trasporto sicuro. Il santo ha un tesoro che vale più di quello della regina di Inghilterra.»

    «Non possiamo organizzarci con una ditta privata, di quelle armate?»

    «E i soldi chi ce li dà?» lo interruppe l’assessore al Bilancio. «Ci vorrebbero almeno una decina di uomini, un mezzo corazzato e chissà quante macchine. Noi abbiamo un debito che sfiora i due miliardi di lire e non riusciamo nemmeno a pagare regolarmente gli impiegati, figurarsi una società.»

    «E allora che facciamo?» chiese Buonocore rivolgendosi a tutti.

    «Gli raccontiamo la verità» propose il segretario comunale facendosi avanti, «e cioè che il trasporto è troppo pericoloso e che, almeno per ora, è più prudente che il tesoro rimanga a Roma.»

    Il sindaco guardò di nuovo verso la porta sbarrata e gli sembrò che il brontolio fosse diventato ancora più minaccioso. Sembrava il rumore cupo del vulcano che appena tre anni prima aveva mostrato la sua ultima ferocia. Fissò poi il segretario.

    «Ragionier de Angelis, anche in questo caso, come mi ripete spesso, dovrebbe essere dunque la pura e semplice ragione a prevalere, il calcolo freddo della soluzione più logica.»

    L’altro fece un gesto di assenso soddisfatto col capo.

    «Allora glielo va a dire lei a quella gente?» propose mellifluo.

    «E perché dovrei farlo io? Sono solo un tecnico» rispose il segretario facendo immediatamente un rapido passo indietro. «Però» si sentì in dovere di aggiungere, «non vedo nessun’altra soluzione.»

    Rimasero tutti in silenzio, impacciati e impauriti ad ascoltare il mugugno che continuava a crescere, e a qualcuno venne in mente quello che era successo appena pochi mesi prima, in via Medina, quando una folla inferocita aveva provocato sette morti e più di settanta feriti.

    Dal fondo del gruppo si alzò timidamente una mano e un omino si fece largo in mezzo all’accozzaglia dei politici. Non c’entrava niente con loro: Arturo Capece, lo stenografo del Consiglio, era finito lì dentro spinto dal fuggi fuggi generale degli altri. Nel suo contratto oltre che a registrare quello che si diceva in assemblea, con i relativi omissis quando si passava agli insulti, non c’era scritto che dovesse pure parlare. La voce che uscì dalla sua bocca era flebile e impacciata come se sapesse di essere fuori luogo in quella riunione.

    «Mi scusi, signor sindaco, ma se lasciamo il tesoro a Roma e…»

    Si fermò imbarazzato come se non avesse il coraggio di dire quello che pensava.

    «E…?» lo sollecitò Buonocore.

    Capece continuò a rimanere muto.

    «Allora?» si intromise l’assessore al Bilancio.

    Ancora silenzio.

    «Parli o esca da questa stanza, non ci faccia perdere tempo» lo apostrofò irritato il segretario comunale che conosceva bene il carattere dimesso dell’omino e che si era divertito più volte a metterlo in difficoltà.

    Si aspettava che, anche in questa occasione, la reazione dello stenografo sarebbe stata quella di un mi scusi seguito da una rapida ritirata, magari con una mezza riverenza. Ma stavolta aveva sbagliato i calcoli.

    Capece si eresse in tutto il suo metro e cinquantasei e tirò fuori il coraggio.

    «E… se san Gennaro rompe il patto?» disse guardando tutti negli occhi. «Quello è potente, voi lo sapete, e noi per questo lo abbiamo tenuto buono fino a oggi non facendogli mai mancare niente, una preghiera, una gentilezza, un regalo più o meno importante. Ora quello sa che la roba sua non sta dove deve stare e già gli girano le scatole. Adesso deve avere pure la notizia che, malgrado il suo popolo stia qua fuori a reclamare il ritorno del tesoro, voi rispondete che non ci sono le condizioni per esaudire le sue più che legittime richieste? E no! Quello si incazza e di brutto. Proprio in questo momento che sta cercando di mettere qualche pezza a colori per i guai che abbiamo combinato noi umani, voi volete fargli questo affronto? Vi volete mettere contro di lui? Lo volete sfidare? E lui, per tutta risposta, rompe il patto e patatrac! Chissà quali altri flagelli si abbattono su questa città che già sta combinata come sta combinata. Ve la prendete voi, questa responsabilità? Se avete questa intenzione, per cortesia, me lo dite che io mi trasferisco da mio fratello a Torre del Greco che pure è sotto la protezione del santo, ma lì, almeno, lo rispettano.»

    Di fronte a quella verità inoppugnabile il terrore si diffuse sui volti del sindaco e della sua schiera di consiglieri.

    L’assessore all’Annona iniziò a farsi una quantità di segni della croce che potevano bastare fino a Natale, seguito da tutti gli altri, mentre il capogruppo dell’Uomo qualunque lanciava baci verso il cielo portandosi l’altra mano sul cuore.

    «E se quello si incazza…» mormorò l’assessore al Bilancio.

    «Crolla pure Palazzo Reale» bisbigliò quello all’Edilizia.

    «Peste e colera» disse a voce bassa quello alla Sanità.

    «Una nuova eruzione del Vesuvio» aggiunse quello dei Lavori pubblici.

    «San Gennaro, non ci abbandonare» pregò quello all’Istruzione.

    «Amen» concluse il segretario comunale che era il più spaventato di tutti.

    «Una soluzione va trovata» ammise Buonocore mentre si toccava distrattamente il cornetto di corallo che teneva agganciato alla catena dell’orologio che gli attraversava il gilet.

    La testa di un usciere fece capolino dalla porta socchiusa.

    «Signor sindaco, mi scusi. Fuori c’è il re, ha chiesto di essere ricevuto.»

    «Il re? Ma non è andato in esilio in Portogallo l’anno scorso? È tornato con un colpo di Stato?» domandò allarmato il primo cittadino.

    «No, non quello lì, quell’altro» si affrettò a precisare l’usciere.

    «Quale altro?» chiese il sindaco disorientato.

    «Si riferisce a Giuseppe Navarra: è un… signore del quartiere di Poggioreale che ha il vezzo di farsi chiamare il re di Poggioreale» si intromise l’assessore ai Lavori pubblici.

    «E lei lo conosce?»

    «Certo, è una persona di tutto rispetto che risolve le liti che spesso scoppiano tra gli abitanti e mantiene l’ordine nel quartiere.»

    Non gli parve necessario fare presente che la valanga di voti con la quale era stato eletto in Consiglio era tutta opera dell’uomo che attendeva di essere ricevuto. Gli sembrò invece importante aggiungere dell’altro alle credenziali di Navarra.

    «Spesso ha dato una mano anche economica a molte famiglie che si trovavano in difficoltà e che non sanno come andare avanti.»

    «Lo ha fatto con i soldi della borsa nera di cui è indiscusso padrone, i suoi uomini controllano tutto l’appalto per lo smaltimento del ferro in città» precisò malignamente quello all’Edilizia che invece quei voti non era riuscito ad accaparrarseli.

    «Insomma, un camorrista» concluse il sindaco.

    «Sì, ma buono» provò a giustificarlo un altro assessore.

    «E che vuole?» chiese il sindaco all’usciere.

    «Ha detto che lo risolve lui il problema del tesoro.»

    «Forse vorrà darci i soldi per il trasporto» azzardò il segretario comunale che provava a darsi un contegno ritornando l’uomo razionale che tutti conoscevano.

    «Fallo passare» ordinò Buonocore.

    L’uomo che entrò era sulla quarantina, con qualche chilo di troppo strizzato in un doppiopetto grigio di buon taglio che faceva contrasto con la cravatta dai colori accesi indossata sulla camicia bianca. Si levò il cappello di feltro in segno di rispetto mostrando un volto squadrato dove due labbra carnose la facevano da padrone sotto un naso importante che divideva due occhi scuri come la pece.

    Senza tanti giri di parole, pronunciò la sua sentenza: «Lo vado a prendere io, il tesoro di san Gennaro».

    Capitolo II

    Così accadde che al cospetto di Sua Eminenza

    e dei notabilissimi si palesò la blasonata scorta

    «Signor sindaco, mi scusi, ma ancora non ho capito. Secondo lei questo Giuseppe Navarra è un tipo affidabile?»

    La domanda del cardinale Ascalesi era arrivata dopo che Buonocore era stato a girarci intorno per un pezzo.

    Dopo aver attraversato gli ampi saloni dell’Arcivescovado, la stanza in cui si erano accomodati era modesta, quasi spoglia: un unico divano rococò al centro con due poltrone dello stesso stile di fronte e un tavolino basso con tre tazzine di caffè sopra che una suorina dai passi ovattati aveva servito al loro arrivo. Quelle invece piene erano le pareti, dove un mare di dipinti si affollavano uno accanto all’altro: volti compunti di sante e santi, principi della Chiesa, immagini di martiri trafitti da frecce o torturati, Madonne da sole o accompagnate al figlio di Dio tra le braccia, Gesù Cristi giovani o sofferenti, poveri con lo sguardo puntato al cielo, vergini con le mani giunte che guardavano nella medesima direzione, suore che sgranavano il rosario, eremiti che stringevano il crocifisso, storpi che si rialzavano toccati dalla Grazia, ciechi che acquistavano la vista, chierici e gentiluomini in processione, anime dannate che precipitavano tra le fiamme, spiriti beati che ascendevano verso la Grazia, diavoli ghignanti o in fuga alla vista dell’Altissimo, angeli, angeloni e puttini che svolazzavano un po’ ovunque.

    E tutti sembravano guardare il sindaco in attesa di una risposta.

    Buonocore si toccò a disagio il nodo della cravatta alla ricerca delle parole giuste. Ripensò a quello che aveva detto alla folla: «Non vi preoccupate, il tesoro del nostro amatissimo san Gennaro ritornerà al più presto a Napoli. Abbiamo già organizzato un piano infallibile e sicuro. Ve lo garantisco io. Ora tornate a casa tranquilli».

    Quelli erano andati via soddisfatti e lui si era trovato con il cerino acceso tra le mani, e si era affidato a Navarra.

    Ora però doveva avere il consenso anche delle gerarchie ecclesiastiche, perché lo avevano loro in custodia, il tesoro, e non era ancora ben chiaro se avessero davvero intenzione di restituirlo ai legittimi proprietari. Qualcuno gli aveva fatto notare che erano secoli che, alla Chiesa, questa storia del contratto non andava giù.

    E poi c’era la faccenda del camorrista.

    Guardò preoccupato il colonnello dei carabinieri seduto al suo fianco. Erano gli unici a essere presenti nell’intera nazione con i loro distaccamenti, tenenze e comandi che non si erano squagliati come i Savoia dopo l’8 settembre. In quei tempi disperati sapevano tutto di tutti. Mandavano regolarmente al loro quartier generale rapporti riservati sull’umore della metropoli partenopea. Un suo amico nell’Arma gliene aveva fatto leggere uno, in via, se così si vuol dire, amichevole. Tale era il contenuto: Il patrimonio abitativo è distrutto per almeno un quarto, depresso è lo spirito dei cittadini assillati per il persistente disagio alimentare, il napoletano vive in un continuo stato di sofferenza morale e materiale. Il sindaco si era rivolto a loro per capire chi diavolo fosse l’uomo che si era presentato nel suo ufficio.

    Quando all’ufficiale al quale era stato affidato

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