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Provaci ancora, Doubler
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E-book444 pagine6 ore

Provaci ancora, Doubler

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Info su questo ebook

Non tutti i viaggi portano lontano da casa.

Al forno, in purè, bollite o fritte, Doubler conosce bene le sue patate. Ma lo stesso non si può dire per le persone. Perché, da quando sua moglie se ne è andata, si è completamente isolato a Mirth Farm, in cima a una collina. E questo gli va bene. La folla è adatta ad altre persone. Gli unici amici di cui ha bisogno sono le sue piante di patate e la sua governante, la signora Millwood, che va da lui tutti i giorni. Quando però la signora Millwood si ammala, l’equilibrio si spezza e Doubler precipita nel caos. Riuscirà la gentilezza degli estranei a farlo scendere dalla collina e aprirsi al mondo?
Questa deliziosa favola agreste è una celebrazione dell'amicizia, della gentilezza e del cibo, e il monito che non è mai troppo tardi per un nuovo inizio.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2019
ISBN9788858996973
Provaci ancora, Doubler
Autore

Seni Glaiser

SENI GLAISTER Ha lavorato come libraia per quasi tutta la sua carriera. Madre di quattro figli, usa il suo tempo libero (quando non lavora o legge) per allevare maiali, occuparsi del suo bestiame, scalare montagne, produrre vino e scrivere. Nel 2016 ha fondato WeFiFo, una piattaforma web legata al cibo, e al momento sta pianificando una lunga e fredda passeggiata fino al Polo Sud. Provaci ancora, Doubler è il suo secondo romanzo.

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    Anteprima del libro

    Provaci ancora, Doubler - Seni Glaiser

    campi.

    1

    Doubler era uno dei più importanti coltivatori di patate della contea. Anche se il suo diretto concorrente produceva (di gran lunga) più patate di lui, a Doubler non importava. La sua motivazione personale era la qualità, non la quantità, e il fatto che il suo rivale avesse più terra di lui, di per sé, aveva poco o niente a che fare con le loro rispettive capacità.

    A differenza dell’altro, Doubler era un esperto. Riusciva a comprendere le patate in un modo in cui raramente erano state comprese. Le capiva, o almeno così sperava, almeno quanto un grande del settore, John Clarke. Il signor Clarke, il famigerato coltivatore e selezionatore, era la sua fonte di ispirazione. Doubler si rivolgeva spesso a lui per un consiglio, formulando domande ad alta voce mentre camminava per la sua terra e trovando sempre le risposte, che gli venivano sussurrate all’orecchio mentre lavorava ai suoi appunti e scriveva le sue annotazioni sulla giornata. Anche se non si erano mai incontrati, e Clarke a dire il vero era morto diversi decenni prima, Doubler trovava grande conforto nei loro dialoghi.

    Di recente, gli esperimenti di Doubler avevano dato ottimi risultati e lui, certo di essere vicino all’assicurarsi il suo posto nella storia della coltivazione delle patate, portava ora con sé (a volte nel cuore e altre nello stomaco) una minuscola pepita di emozione, a forma di speranza. Non era un ottimista, per natura, e sapere che presto avrebbe potuto essere annoverato tra i più influenti coltivatori di patate di tutti i tempi lo elettrizzava, rendendolo impaziente e ansioso allo stesso tempo.

    Per Doubler, la sua eredità era tutto.

    Ma l’eredità di Doubler aveva attirato attenzioni negative. L’ultima minaccia gli era piombata sulla soglia di casa quella mattina. Era inserita in una busta di carta da pacchi, con l’indirizzo stampato su un’etichetta bianca, segno di una sinistra professionalità da parte del mittente. Il tutto assumeva una dimensione più infausta se si consideravano anche le altre due buste ricevute in precedenza. Erano state tutte inviate da Peele, il maggiore coltivatore della contea e, messe insieme, quelle tre buste che ora marcivano nell’oscurità del fondo di un cassetto, avevano oltrepassato i confini della mera corrispondenza per diventare una campagna sistematica. Doubler si soffermò su quel pensiero e su cosa avrebbe potuto comportare per il suo imminente successo, mentre ispezionava con apprensione la sua terra.

    Un vento sferzante aveva sollevato un’aria gelida da tutte le valli circostanti e l’aveva depositata su Mirth Farm, rendendo la casa di Doubler, in cima alla collina, il luogo più freddo del circondario. Doubler, però, non affrettò il passo: camminò lungo il perimetro del cortile, fermandosi a controllare l’angolazione della nuova telecamera di sicurezza e a far tintinnare i lucchetti su tutti i vivai. Anche in giorni più felici, quando sua moglie era ancora con lui, era sempre stato un uomo prudente con un’indole ansiosa, ma ora, dopo quella serie di minacce, aveva introdotto ulteriori livelli di guardia nelle sue ispezioni giornaliere, e la sua routine era giunta a comprendere una moltitudine di controlli aggiuntivi, che erano ben presto diventati un automatismo, quasi li avesse seguiti per tutta la vita, così come seguiva le stagioni.

    Nonostante l’agitazione, si sentiva rinvigorito dagli accorgimenti presi per proteggere Mirth Farm dal suo avversario, tanto che, dopo essersi tolto cappello e cappotto, rivolse immediatamente l’attenzione al pacco arrivato il giorno prima, nella speranza che il contenuto avrebbe ulteriormente rafforzato il suo sistema difensivo. Come si era aspettato, nel pacco c’era un binocolo nuovo di zecca, che esaminò con occhio critico. Rimosse la protezione e la rimise rapidamente al suo posto, ripetendo l’operazione un po’ di volte, piuttosto soddisfatto della perfezione del meccanismo. Si piazzò alla finestra, prendendosi un attimo per calmare il respiro prima di portarsi agli occhi il nuovo acquisto.

    Armeggiò lentamente con la messa a fuoco, regolandola a destra e a sinistra con piccoli, abili scatti, fino a quando il fringuello sulla mangiatoia appesa al ramo del melo più vicino non risaltò con straordinaria nitidezza. Doubler si interruppe un secondo, congratulandosi con se stesso per aver saputo riconoscere l’uccello.

    «Un fringuello!» esclamò sorpreso.

    Solo una settimana prima, sarebbe stato semplicemente un altro uccellino che passava l’inverno svolazzando attorno alle siepi, in attesa di poterle ripulire dei loro frutti. Ora, saperlo identificare con sicurezza gli regalò un piacere a cui non sapeva dare un nome, ma che lo spinse a indugiare sul fringuello ancora per qualche momento. Gli occhi vivaci del volatile apparvero nitidi nell’obiettivo. Doubler era molto colpito: quel binocolo era di gran lunga superiore all’ultimo che aveva avuto e di certo la sicurezza del suo lavoro ne avrebbe beneficiato. Pienamente soddisfatto, spostò l’attenzione verso destra e lo puntò su un oggetto molto più distante: il cancello di entrata di Mirth Farm, in fondo alla collina.

    Doubler rammentò la sensazione che dava stringere quel cancello tra le mani, quando toglieva il chiavistello e lo spalancava. C’era stato un tempo in cui l’aveva aperto e chiuso normalmente, senza un pensiero al mondo. L’aveva montato lui stesso e si era sempre aperto con facilità, senza protestare né opporre resistenza. Ma quell’andirivieni dalla casa era ormai solo un ricordo: Doubler era rigorosamente un uomo di Mirth Farm.

    Non era successo per gradi: non era sprofondato nella solitudine a poco a poco. Aveva di fatto deciso che non avrebbe mai più lasciato Mirth Farm nel momento in cui i suoi figli erano usciti di casa. Se non se ne andava, si era convinto, non c’era possibilità che non facesse più ritorno.

    Doubler si ridestò dai suoi pensieri quando un’auto imboccò il vialetto di ingresso. Era solo la signora Millwood, e lui la stava aspettando, ma sentì ugualmente i muscoli irrigidirsi e i capelli rizzarsi sulla nuca. Il peso non indifferente del binocolo che teneva in mano lo stava aiutando a tenere a bada l’ansia e Doubler provò un grande conforto nel poterlo sperimentare su quel veicolo in avvicinamento. Ne osservò ogni singolo movimento: la sua visitatrice che scendeva dalla piccola auto rossa, apriva il cancello di legno, lo oltrepassava in macchina, e scendeva di nuovo per richiudere il cancello dietro di lei.

    Non appena l’auto entrò nella sua proprietà, Doubler riuscì a leggere il numero di targa e lo appuntò sul bordo di un giornale; lo avrebbe poi copiato in un registro che contava di tenere specificamente a quello scopo. La macchina si stava avvicinando a velocità regolare, sparendo per diversi secondi per poi tornare in vista a ogni brusca curva del percorso. La salita verso Mirth Farm era lunga e lenta, e Doubler constatò che la qualità del veicolo aveva probabilmente molto poco a che fare con la velocità di percorrenza. Semmai, più performante era l’auto, più si sarebbe avvicinata adagio, visto che chi guida macchine veloci tende a innervosirsi per le buche, i dossi e i bordi taglienti delle felci che minacciavano gli pneumatici a ogni svolta. Doubler si ripropose di tenere traccia dei tempi per confutare la sua teoria. Non voleva lasciare niente al caso.

    2

    Nove minuti dopo, la signora Millwood entrò dalla porta della cucina. Il concerto di suoni che accompagnava il suo arrivo non variava mai e Doubler tese attentamente l’orecchio mentre lei appendeva le chiavi, si toglieva il cappotto, riponeva con cura la borsa e si cambiava le scarpe con quelle da usare in casa. La donna borbottò fra sé notando le bucce di patata che traboccavano dal bidoncino dell’umido sull’antico ceppo da macellaio. Il rimprovero aumentò di volume mentre la signora veniva in cerca di Doubler, che ora era in piedi sull’attenti.

    «Signor Doubler, ha di nuovo lasciato un disastro in cucina.»

    Doubler la studiò mentre passava rapida per la stanza, riordinando, sprimacciando, lisciando e raddrizzando. Se la signora Millwood fosse stata un uccello, sarebbe stata uno scricciolo, pensò lui divertito mentre la guardava affaccendarsi con tocco leggero.

    «È un po’ in disordine, lo so. Mi dispiace.»

    «È in disordine perché è lei che mette in disordine. Non c’è bisogno di scusarsi, anche se sarebbe meglio evitare di creare tutto questo caos, tanto per cominciare.» Stava già trascinando una sedia dall’altra parte della stanza e un attimo dopo c’era salita sopra per riporre la pila di libri che le era magicamente comparsa tra le braccia. Sembrava metterli via a caso, eppure ogni volta che Doubler controllava gli scaffali dopo che se ne era andata, trovava sempre che la disposizione seguiva un certo ordine. Prima che Doubler potesse analizzare i suoi metodi, la donna era già scesa dalla sedia e al posto dei libri teneva in mano uno straccio per la polvere.

    «Vedo che ha di nuovo trafficato con le sue patate» osservò con tono di disapprovazione.

    «Le mie patate. Sì. Io…» Doubler provò l’impulso di condividere le sue preoccupazioni con lei subito, senza aspettare l’ora di pranzo. Nella sua testa si affollavano così tante priorità, tutte in conflitto fra loro, che aveva bisogno del pragmatismo della signora Millwood per dar loro una sorta di struttura. Si alzò in piedi, come per prendere di petto la questione, ma il sangue gli affluì alla testa e i pensieri gli si confusero in un turbine di inquietudine. Incespicò sulle parole che minacciavano di rompere un decennio e mezzo di routine, se avesse anteposto la conversazione alle faccende domestiche. Quando ritrovò il filo del discorso (che se dipanato avrebbe messo a nudo la sua anima), lei se ne era già andata, lasciandosi dietro una scia di polvere. Mentre cercava di ricomporsi, Doubler sentì il rumore dell’aspirapolvere al piano di sopra e seppe di averla persa per almeno un paio d’ore.

    Gironzolò per la cucina, la delusione e la solitudine ben visibili nelle spalle curve. Le spesse lastre di pietra erano terribilmente fredde sotto i calzini, ma si intiepidivano a mano a mano che si avvicinava alla stufa Aga. Si fermò per riscaldarsi un attimo. Alla sua sinistra, sopra un ceppo di legno rigato e levigato da anni di utilizzo del vecchio proprietario, un macellaio morto da tempo, erano appoggiate tre larghe casseruole di stagno, del tipo che le cuoche vittoriane avrebbero potuto usare per preparare grandi quantità di chutney o marmellata. Ciascuna padella era coperta da uno spesso panno di cotone, che Doubler sollevò per esaminarne il contenuto. Con un grosso cucchiaio di legno smosse le patate in superficie, le studiò con occhio critico e prese il portablocco corrispondente alla casseruola. Per ogni portablocco c’era uno spesso strato di fogli protocollo riempiti dall’impeccabile calligrafia di Doubler. Date, misure, numeri e formule scritti a matita si susseguivano nelle pagine e, da soli, senza ulteriori interpretazioni, già rivelavano qualcosa di eccezionale circa il suo studio. Ma all’occhio allenato del coltivatore esperto, quelle pagine svelavano l’ambizione di tutta una vita: la ricerca era davvero pionieristica. Corroborato da appunti e appendici, il lavoro equivaleva alle speranze e ai sogni di un uomo deciso a lasciare il segno, ma consapevole che il tempo era contro di lui.

    Tastò con la forchetta diverse patate per ciascun gruppo. Dalla casseruola che l’aveva convinto di meno, ne tolse alcune e le bollì velocemente in acqua salata. Le mise da parte per il pranzo.

    Soddisfatto, si dedicò ad annotare le conclusioni della giornata. Si sedette al grande tavolo della cucina, il cui piano, in origine di legno di pino chiaro non verniciato, aveva assunto il colore e la consistenza di un legno massiccio a forza di essere segnato da brocche d’acqua e padelle bollenti e tirato a cera. Aprì la pagina davanti a lui e la confrontò con quelle precedenti. Le conclusioni erano coerenti nel tempo e lui era sempre certo che la sua ricerca fosse inoppugnabile, ma si sentiva più tranquillo ad aggiungere date, annotazioni e nuove prove via via che i giorni passavano, iniziava il disgelo e gli impercettibili aumenti di calore preparavano la terra a una nuova serie di conferme.

    Doubler lavorò di buona lena per un’ora, annotando, affinando, controllando e sottolineando (di nuovo) le sue conclusioni. Con la signora Millwood che ancora non dava cenno di volerlo interrompere, uscì per il secondo giro di ispezione delle sue terre, una routine che ripeteva senza perdere mai un colpo quattro volte al giorno. Indossò il maglione di lana pesante, apprezzandone il calore ruvido, e una cerata, prima di calarsi le alette del berretto sulle orecchie perché lo proteggessero dal vento quando non fosse stato più al riparo degli edifici.

    C’erano un silenzio e un senso di attesa nell’aria, che si percepivano unicamente a febbraio e che Doubler amava. I campi erano stati arati di fresco e la terra brillava di un intenso color cioccolato nel debole sole invernale, le pozze di acqua piovana luccicavano creando una striscia piacevole e ordinata, che si estendeva a perdita d’occhio. C’erano nuovi uccelli quel giorno, che sorvolavano i campi in grandi stormi, più grossi dei passeri ma irriconoscibili, nel loro piumaggio marrone, al suo occhio ancora inesperto. Si ripropose di portare con sé il binocolo la prossima volta. Anche se non era quello lo scopo principale a cui era destinato, Doubler sentì un improvviso desiderio di scoprire chi fossero i nuovi arrivati, felice di sapere che non c’erano fino alla settimana prima.

    Procedette lentamente, seguendo il perimetro del campo lungo la siepe tortuosa, spessa e impenetrabile nonostante l’assenza di nuovo fogliame. Si fece strada fino a uno dei due punti di osservazione, una collinetta dalla quale era possibile vedere tutta la parte settentrionale della sua terra. Da lì, poteva far spaziare lo sguardo da un campo all’altro, registrando tutto nella mente. C’era poco da rilevare in quel periodo dell’anno, ma da lì a meno di un mese, quando non ci sarebbe più stato il rischio delle gelate più pesanti, avrebbe controllato meticolosamente il terreno per cogliere il momento ottimale per seminare le sue patate. L’inverno offriva un lasso di tempo essenziale per la preparazione dei campi e la manutenzione dei macchinari, ma per il momento era sufficiente ispezionare, riconoscere e semplicemente rendere onore alla terra, contribuendo a gettare le basi delle condizioni favorevoli su cui avrebbe fatto affidamento nei mesi a venire.

    Dopo aver percorso tutto il perimetro del campo più vasto, si inerpicò lungo il pendio, facendo corrispondere ogni passo all’alzarsi e abbassarsi dei solchi, misurando mentalmente l’estensione del suo appezzamento per l’unica ragione che ne traeva grande conforto. Nel corso delle stagioni, la terra subiva dei picchi positivi e negativi in altezza e potenziale, con le colture che crescevano e morivano, la raccolta che andava bene o male a seconda di quella commistione alchemica di scienza, abilità e magia, determinata però dall’onnipotenza della natura stessa che aveva sempre l’ultima parola. Mentre molti erano i fattori che dettavano la crescita verso l’alto, l’estensione della terra non cambiava. Finché il suo passo non lo avesse tradito, il conto sarebbe stato sempre lo stesso di quando aveva comprato la fattoria, quasi quarant’anni prima.

    Svoltando l’angolo per tornare nel cortile, con di nuovo la fattoria davanti a sé, ricontrollò i lucchetti alle porte di ciascuno dei capannoni. Attorno alla fattoria si ergevano diverse rimesse e edifici, ma quei tre erano quelli che gli procuravano più soddisfazioni, e più preoccupazioni. Erano, dopotutto, le strutture che contenevano la sua eredità.

    Ciascun fabbricato era chiuso con pesanti catene legate a sbarre di ferro. Doubler alzò lo sguardo verso la telecamera per controllarne l’angolazione e fece un nervoso cenno di saluto a se stesso, che avrebbe riguardato più tardi sul monitor. Si era aspettato di trovare rassicurante la sua telecamera di sicurezza, ma non di trovarla anche di compagnia e provava uno strano piacere nell’osservare se stesso ogni sera nelle registrazioni.

    Non sarebbe tornato a ispezionare i due vivai fino a quella sera. Voleva che ciò che c’era all’interno rimanesse al buio il più possibile, così non apriva mai la porta di giorno. Riusciva, però, a percepire il fremito della vita che sbocciava e quasi sentiva il suono della nuova coltura che scalpitava per nascere dal raccolto dell’anno precedente. La crescita poteva anche essere infinitesimale in quel periodo dell’anno, ma se la si moltiplicava per le migliaia di tuberi allineati sui freddi scaffali di legno era possibile immaginare l’effetto di tutta quell’energia latente sull’ambiente circostante. O almeno a Doubler piaceva pensare così.

    Il terzo capannone, anche se inattivo in quel periodo dell’anno, era quello a lui più caro. Se avesse potuto avvolgerlo tutto in catene come un gigantesco pacco, lo avrebbe fatto. Doveva, invece, accontentarsi delle misure che aveva adottato.

    Guardò a destra e a sinistra, assicurandosi che nessuno potesse vederlo mentre digitava il codice di sicurezza sul quadro vicino alla porta del suo deposito più segreto. Scivolò all’interno e richiuse la porta dietro di sé. Inspirando a fondo, si prese un momento per godersi l’aroma unico che rimaneva nell’aria anche molto tempo dopo aver utilizzato l’attrezzatura. Un profumo di patate, certo, per un naso allenato, ma anche l’odore più penetrante del pulito che cercava di coprire le tracce di linfa e di miele. Ci sarebbero volute ancora diverse settimane prima che quel deposito si risvegliasse a nuova vita e lui adorava l’ambiente vuoto e carico di promesse durante l’inverno. Lo assaporò con altri lunghi respiri prima di accendere una lucina e ispezionare gli ampi alambicchi di rame con i loro splendidi tubi, coperchi e valvole. Il metallo luccicava anche a quella luce tenue.

    «Buongiorno» sussurrò, con evidente rispetto nella voce. A un profano, quel macchinario doveva sembrare piuttosto misterioso, tanto da suscitare quasi soggezione. Ma per lui, ogni pezzo che si collegava all’altro aveva un senso logico e perfetto.

    L’apparecchio era già lì quando Doubler aveva comprato la fattoria con sua moglie Marie. L’aveva scoperto durante le prime settimane, dopo che aveva iniziato a passare in rassegna i mucchi di attrezzature arrugginite lasciate dal precedente proprietario. (Era morto di colpo, quindici anni prima di quello che ci si sarebbe ragionevolmente aspettato, ma anche se avesse ricevuto un qualche avvertimento, Doubler dubitava che avrebbe mai messo mano a quel cumulo di roba magari comprata per sbaglio.)

    Quando aveva scoperto quella grossa pila di oggetti in metallo sotto bracci di trattori, imballatrici e sacchi di mangime in putrefazione, aveva riconosciuto subito quella tonalità verde come quella del rame ossidato e aveva capito che poteva valere qualcosa se avesse trovato il giusto rivenditore di metalli. Ma poi, cercando di distinguere ciò che poteva rivelarsi utile da ciò che non aveva nessun valore, aveva capito che si trattava di un vecchio alambicco per distillare la vodka e, per distrarsi dalle difficoltà della paternità e come diversivo da una moglie che lui deludeva di continuo, aveva provato a fare un’indagine completa dell’attrezzatura. All’inizio ci aveva trafficato un po’, aggiustando un pezzo qua e un pezzo là, chiedendosi senza troppa convinzione se sarebbe mai riuscito a restaurarlo per bene. Poi, spinto da un’ispirazione improvvisa arrivata da chissà dove, aveva considerato lo schema nel suo insieme, aveva diviso tutto in pezzi e disposto per terra tutti i componenti. Li aveva puliti e li aveva riparati uno per uno, sostituendo guarnizioni e valvole, per poi rimontare l’intera struttura, procedendo con cautela, pezzo per pezzo, con l’abilità di un meccanico e la pazienza di un costruttore d’organo.

    Ora lo conosceva per filo e per segno, conosceva i suoi sospiri e i suoi umori, e capiva come regolarlo alla perfezione; lo trattava con il rispetto che un apparecchio tanto antico meritava. Doubler sapeva bene che le tecniche moderne lo avevano nel frattempo surclassato, ma le idiosincratiche imperfezioni insite nella struttura di quel ferro vecchio venivano fuori in un prodotto artigianale caratteristico e invitante, di cui diverse bottiglie stavano ora riposando in cantina.

    Conclusa la sua ispezione, Doubler spense la luce e si chiuse la porta alle spalle, abbassando due volte la maniglia per assicurarsi che fosse ben chiusa. Mentre tornava nel cortile, guardò il sole, che ora stava accarezzando lo spigolo del muro della cucina, e si affrettò a rientrare, sicuro di aver passato in modo soddisfacente il tempo prima di pranzo e di potere, finalmente, parlare delle sue preoccupazioni con la signora Millwood.

    3

    Mentre la signora Millwood si dava da fare per preparare a entrambi una tazza di tè e apparecchiare per due il tavolo, ora pulito, Doubler si mise a cucinare. Prese due scalogni dalla dispensa, tastandoli tra il pollice e l’indice e trovandoli ancora duri, dopo tutti i mesi che erano passati.

    «Tanto superiori alle loro cugine, le cipolle» dichiarò alla signora Millwood, che lo stava osservando tagliare i bulbi a cubetti con uno sguardo diffidente che lui aveva avvertito. «Guardi! Una delizia!» I bulbi avevano ancora un colore bianco perlaceo mentre i pezzi cadevano sotto la lama. Doubler li versò in padella a soffriggere solo per qualche secondo con il burro, prima di aggiungere le patate, che poi schiacciò abilmente con la forchetta. «Non faccio un purè, badi bene, le schiaccio soltanto» rispose allegramente alla domanda inespressa.

    Grattò una spolverata di pepe nero con due movimenti secchi del polso e portò il piatto fumante in tavola.

    La signora Millwood stava aprendo il coperchio del suo Tupperware, da cui prese i sandwich che ogni giorno preparava per sé con sorprendente varietà.

    «Quello che ci vuole sopra, signor Doubler» disse, facendo un cenno verso il suo piatto, «è un bel pezzo di Cheddar fuso.»

    «Cheddar? Fuso? Ossignore, no, signora Millwood. Perché mai dovrei fare una cosa del genere?»

    «Per dargli un po’ di sapore. O magari di vitamine. Non si può vivere di sole patate.» Sapeva che era un’affermazione provocatoria, ma non l’aveva detto con l’intento di polemizzare, era solo spinta da una preoccupazione genuina e di lunga data per l’apporto nutrizionale dell’uomo.

    «Oh, signora Millwood. Non devo certo elencarle le proprietà benefiche della patata che cresce in Gran Bretagna, vero? Sa bene quanto me che la patata produce al giorno più proteine commestibili per ettaro del riso o del grano.»

    «Ma io non ho nessuna intenzione di mangiarmi un ettaro di patate, signor Doubler. Voglio solo qualcosa di gustoso per pranzo. Gustoso e salutare.»

    «Non mi parli di salute! Il valore biologico della proteina della patata è migliore di quello delle proteine del grano, del mais, dei piselli o dei fagioli. Le patate fanno bene quanto il latte, e nessuno potrebbe negare i benefici del latte, vero?»

    «Conosco molto bene le proprietà benefiche della patata che cresce qui da noi.» Ed era vero. Solo la sera prima aveva ragguagliato in proposito le signore del club della maglia, che erano rimaste stupite non solo dall’informazione, ma anche da quanto fossero approfondite le conoscenze della signora Millwood, e da quanto eloquente e appassionata fosse sull’argomento. «Ma un po’ di Cheddar fuso per dare sapore non ci starebbe male.»

    Doubler posò la forchetta e guardò con severità la sua commensale. «Signora Millwood. Il calore è la cosa peggiore in assoluto a cui sottoporre un formaggio Cheddar. Vengono rilasciati i grassi e si perde il sapore. Se ci si dà la pena di preparare un Cheddar dignitoso, allora c’è solo un modo di mangiarlo.» Al che andò in dispensa e ne prese un grosso pacchetto avvolto in carta oleata e tenuto insieme da uno spago.

    «Le faccio vedere.» Fece la sua dimostrazione con gesti molto teatrali, senza mai distogliere gli occhi dal suo pubblico. «Il Cheddar si serve sul legno. Non sulla ceramica o la porcellana. È una regola» continuò con decisione, posando il formaggio appena scartato al centro di un tagliere. «Gli oli e gli aromi del legno vengono assorbiti, conferendogli una qualità che non può essere replicata con nessun altro mezzo. In secondo luogo, il legno è poroso. Non crea una barriera impenetrabile, ma anzi gli permette di respirare.»

    La signora Millwood sembrò trattenere il fiato.

    «Permettere al formaggio di respirare è un’altra regola. Se no, suda e non va bene. Un Cheddar che suda non è mai buono» continuò Doubler.

    La signora Millwood scosse seria la testa.

    «Un’altra regola…» Contò sull’indice, rendendosi improvvisamente conto che c’erano in effetti molte regole in tema di Cheddar e che probabilmente avrebbe dovuto tenere un registro. «Un solo taglio, signora Millwood o, comunque, meno tagli possibili.» Usò il coltellino per fare un taglio netto in diagonale attraverso il punto più stretto, finché non poté staccare un pezzo con le dita. «Il Cheddar è il formaggio delle dita, è un’esperienza sensoriale. Lo respiri, lo tocchi, lo assaggi. La percezione è la parte che non si può perdere. Si prepara il cervello a quello che ci si deve aspettare. Non si vogliono avere sorprese. Il cervello sa già che deve essere pronto al sapore forte del buon Cheddar perché le dita lo hanno già assaggiato prima della bocca. Capisce?»

    La signora Millwood guardò con attenzione, con il sandwich che le penzolava fiacco dalla mano, e la fronte leggermente corrugata.

    «Allora, un taglio con il coltello e poi lo si rompe con le mani per un’esperienza completa. Lo si può servire con una mela… probabilmente una Cox’s orange pippin sarebbe la scelta migliore, ma non voglio essere pedante, signora Millwood. E del chutney. Ci vuole del chutney dolce o comunque qualcosa di agrodolce. Gliene consiglierò un paio, ma il chutney è una scelta molto personale, è una questione di gusti. Basta che non sia messo sottaceto. La salamoia compete con un buon Cheddar, non lo completa. Non bisogna che ci sia competizione in un piatto. Deve esserci armonia. Armonia e tono. Pensi a un brano musicale e lei è il direttore d’orchestra.»

    La signora Millwood guardò il suo sandwich e gli diede cautamente un morso.

    «E no, non scalderei il Cheddar nemmeno in una giornata di gelo. È uno spreco.»

    «Mi dispiace di aver parlato.» La signora Millwood prese un altro bel boccone con aria di sfida, rifiutandosi di vergognarsi del suo formaggio tagliato a fettine sottili con il coltello, su strati di prosciutto comprato al supermercato, senape, sottaceti, pepe e lattuga. «Meraviglioso» disse addentandone un pezzo ancora più grosso. «Ho pensato solo che avrebbe ravvivato un po’ il suo pranzo» aggiunse, buttando giù il boccone con un bel sorso di tè.

    «Be’, sì, non sono contrario a un po’ di formaggio sulle mie patate, ma non in questo contesto, e mai il Cheddar. Ci sono un sacco di formaggi che implorano di essere fusi. Metterei la maggior parte dei caprini in quella categoria» commentò agitando la mano quasi con sussiego. «Ma non cerco sapori in più. Sto lavorando, signora Millwood, e quello che voglio gustare sono le patate.»

    «Ed è soddisfatto di quelle di oggi?»

    «Oh! Sì, sì. Soddisfattissimo. Si stanno comportando proprio bene. Non c’è molto di nuovo da riferire, ed è una buona cosa. Solo altre conferme.» Doubler abbassò leggermente la voce, aggiungendo circospetto: «Quando i miei risultati verranno certificati dagli esperti – i nostri amici oltremare – avrò finito».

    La signora Millwood lo guardò attentamente. «Con la sua ricerca? Con le sue patate? Con che cosa avrà finito?» La sua voce tradiva preoccupazione. Lei c’era l’ultima volta in cui aveva creduto di aver finito, e ne era quasi morto.

    Doubler se ne accorse e si affrettò a rassicurarla che la sua motivazione, il suo gusto per la vita e la sua fame di continua ricerca erano tutt’altro che esauriti. «Non riesco a immaginare di smettere con le patate in sé e per sé. Ce le ho nel sangue. Con che cosa mi terrei occupato se non mi riempissero ogni momento della giornata? Ma gli studi dettagliati, con quelli sì, penserei di aver concluso. Non vedo spazio per altri miglioramenti o domande lasciate senza risposta. Una volta avuta la certificazione, avrò messo fine a un lunghissimo periodo di meticoloso lavoro. Se ho ragione, e la mia ricerca sarà formalmente riconosciuta, allora immagino che dovrò pensare a un altro progetto, o dedicare i miei ultimi anni ad assicurarmi che il mio lavoro sia adeguatamente registrato a beneficio delle generazioni future. Sarà il momento più significativo della mia vita, di questo sono sicuro. Naturalmente, sto ancora aspettando una risposta ufficiale dall’Istituto e può capire che non sto trovando l’attesa molto facile.» Tirò un pesante sospiro, facendo immediatamente traballare l’immagine di fiducia in se stesso che aveva cercato di trasmettere.

    La signora Millwood sapeva bene quanto Doubler che per lui non sarebbe stato facile attendere. Anche lei stava aspettando delle notizie con impazienza. Dopotutto, da quando le aveva confidato la sua scoperta, gli era stata di grande aiuto nel guidarlo attraverso quel contorto procedimento che, speravano entrambi, sarebbe culminato con la certificazione scientifica che lui desiderava tanto. Aveva compiuto approfondite ricerche per lui, su tutte le opzioni possibili e, senza mai tradire le confidenze che le aveva fatto, aveva chiesto un parere a chi si sapeva muovere nell’ambito del diritto, del copyright, dei brevetti e della valutazione scientifica, e sotto molti aspetti le indagini erano state meticolose e scrupolose come il lavoro stesso di Doubler.

    La situazione, come lei gli aveva spiegato durante un pranzo, era che nei decenni in cui lui si era occupato di coltivazione di patate, il mondo dell’agricoltura si era evoluto e lo aveva lasciato indietro. Si era scoperto che la scienza delle patate era finanziata principalmente dai grandi utilizzatori finali, il cui scopo era di guadagnare il più possibile da ogni significativo miglioramento del processo. Le grandi marche di patatine pronte da mettere in forno erano il cuore degli studi di ricerca e sviluppo e anche le catene di fast-food avevano considerevoli interessi in ballo. «Chi l’avrebbe pensato che delle patatine avessero tanto potere, signor Doubler!» aveva esclamato, prima di continuare a riferire le sue cupe scoperte.

    Nonostante la sua produzione fosse considerevole, Doubler non aveva mai stretto accordi con quei partner commerciali e quindi non aveva mai lavorato insieme a loro. Allo stesso modo, grazie alla fortuita circostanza della pulizia meticolosa del capannone e del ritrovamento dell’attrezzatura, Doubler si era ritrovato, con molta discrezione, nel campo della vodka, ma non su scala industriale. Così, nonostante il suo contributo fosse tenuto in grande considerazione, l’industria della vodka aveva le proprie norme specifiche da osservare e infinite disposizioni di legge in cui districarsi. Doubler non era abbastanza importante né per quelli che finanziavano la ricerca né per quelli che facevano pressioni per conto dei coltivatori di patate, e di certo era una goccia nel mare per l’industria degli alcolici. Semplicemente, non si muoveva nelle cerchie giuste.

    La signora Millwood aveva fatto ricerche meticolose e aveva presto appreso notizie allarmanti sulla natura ipocrita dell’ambiente d’impresa. Aveva passato diverso tempo a parlare con luminari nel campo legale, e tutti l’avevano messa in guardia dall’essere troppo affrettata nel divulgare le scoperte del suo anonimo amico, finché non avesse trovato un partner dalle grandi disponibilità finanziarie di cui potersi fidare. Si sarebbe dovuto muovere con cautela, l’avevano avvertita, perché qualsiasi operatore senza scrupoli che fosse in alto nella catena di produzione non ci avrebbe pensato due volte a rubargli la ricerca e presentarla come propria, o a sabotare le sue scoperte. Come una grande mente aveva detto: «Non appena avranno sentore di quello che sta combinando nella sua fattoria, i pezzi grossi se lo mangeranno in un boccone». Così, un giorno a pranzo, aveva presentato a Doubler una soluzione che avrebbe richiesto un po’ più di tempo, ma che avrebbe posto il suo lavoro davanti ai massimi esperti mondiali.

    Dopo molte ricerche, la soluzione della signora Millwood fu di chiedere un parere indipendente all’Istituto centrale di ricerca sulle patate dell’India del nord. Era il riscontro da questa stimata istituzione che stavano aspettando.

    «Be’, facciamo due conti…» La signora Millwood frugò nella borsa, prese un’agendina in pelle e sfogliò le pagine. «Abbiamo spedito il suo pacco poco dopo Natale, giusto? Ecco qui, il 27. Dunque, bisogna mettere in conto i ritardi nel periodo delle feste ma, anche così, fanno sei settimane.»

    Doubler s’incupì.

    «Ma sei settimane non sono così tante se ci si pensa. È una spedizione via terra, non via aerea, e non so come sia il servizio postale laggiù. Diamogli quattro settimane, va bene? E poi ci vorrà il tempo per analizzare il contenuto… due settimane? Non vogliamo che facciano le cose di fretta. Magari quattro? Quattro settimane per fare un lavoro davvero accurato. Che è poi quello che desideriamo, giusto? E infine altre quattro settimane perché arrivi la risposta. Penso, signor Doubler, che lei si stia agitando prima del tempo. Se non avrà notizie per l’inizio di aprile, potrà cominciare a chiedersi se ci sono dei problemi.»

    «Che tipo di problemi?» Il viso di Doubler era tormentato da mille, indistinte preoccupazioni.

    «La lettera non recapitata, o dimenticata tra la posta in arrivo. Un errore amministrativo da parte loro. E poi c’è l’aspetto tecnico. Non immaginano che il suo lavoro sia importante. Pensano che le sue conclusioni siano sbagliate. Non ritengono valga la pena rispondere.»

    Ciascuna di quelle possibilità lo atterriva ma, mettendole tutte insieme (perché sarebbe dovuta andare male una cosa soltanto, quando potevano andare male tutte?), a Doubler girò la testa.

    La signora Millwood gli sorrise, rassicurante. «Però lo sa che è perfettamente inutile preoccuparsi di queste questioni, no? Non possiamo angosciarci per qualcosa che è al di là del nostro controllo. Lei ha la sua fattoria. Le sue patate. Ha fatto una scoperta rivoluzionaria, signor Doubler. E loro lo riconosceranno.»

    Vedendo che le sue parole non sortivano l’effetto sperato, la signora Millwood sfoderò dal suo arsenale un’arma più potente. «Pensa che il signor Clarke si sarebbe perso d’animo davanti al primo ostacolo?»

    Doubler rifletté. Immaginò il suo grande eroe che lavorava a lume di candela, a scribacchiare le sue ricerche con un mozzicone di matita. Pensò alle molte generazioni di patate che quell’uomo doveva aver coltivato senza nessun chiaro obiettivo in mente, solo il bruciante desiderio di migliorare la coltura a beneficio di tutti. Pensò a che genere di conquista dovesse essere quel risultato per un uomo che non aveva ricevuto una vera e propria istruzione. Doubler si vergognò.

    «No, certo che no. Il signor Clarke ha superato tutti gli ostacoli.»

    La donna ridacchiò fra sé. «Lo ha fatto, non è vero? E invece lei è qui, a capo chino, senza averne ancora incontrato nessuno!»

    «Ha ragione, naturalmente, come sempre. E il povero signor Clarke non ha avuto il vantaggio di avere un modello, come ce l’ho io. Ma, signora Millwood, lei può capire perché mi preoccupo, vero? Questo è il lavoro di tutta la mia vita. Ho fatto sacrifici lungo il

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