Il fiume della colpa
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Info su questo ebook
Daniela Paladini
Edizione integrale
Il fiume al centro del romanzo è il Locke che, fangoso e indolente, costeggia il bosco e alimenta il mulino abitato dal vecchio mugnaio Toller e dalla figlia Cristel. Il giovane possidente Gerard Roylake, tornato qui alla morte del padre, ritrova la piccola Cristel trasformata in una donna, intelligente e volitiva, e ne è affascinato. Ma un personaggio enigmatico è arrivato ad agitare le acque della loro monotona esistenza. L’Inquilino, il Sordo, il Bastardo, il Pentito… Quest’uomo bellissimo, del quale né Gerard né il lettore conosceranno la vera identità, piomba nella vita dei Toller e soprattutto in quella della bella Cristel, per la quale l’uomo nutre una vera ossessione… Romanzo breve e serrato in cui si riconoscono molti dei temi cari al padre del mistery, tenuti insieme dalla sensazione di tragedia imminente che coinvolge paesaggio, ambiente sociale e personaggi, in un’atmosfera disseminata di tracce inquietanti, Il fiume della colpa cattura l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima pagina.
Wilkie Collins
(1824-1889), figlio di un pittore paesaggista, studiò Legge senza mai praticare la professione, attingendo alle conoscenze del crimine così maturate per le sue opere. La fortuna arrivò dopo l’incontro con Dickens, che pubblicò gli scritti di Collins sulle sue riviste, inaugurando un rapporto di lavoro e di amicizia che durò dieci anni. Fu un autore molto prolifico, scrisse venticinque romanzi, più di cinquanta racconti e numerose opere teatrali. La Newton Compton ha pubblicato La donna in bianco, Senza nome, L’albergo stregato, La Pietra di Luna, Armadale, La legge e la signora, Le foglie cadute e la raccolta I grandi romanzi.
Wilkie Collins
William Wilkie Collins (1824–1889) was an English novelist, playwright, and author of short stories. He wrote 30 novels, more than 60 short stories, 14 plays, and more than 100 essays. His best-known works are The Woman in White and The Moonstone.
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Anteprima del libro
Il fiume della colpa - Wilkie Collins
Primo capitolo
Verso il fiume
Per motivi del tutto personali, evitai di accompagnare la mia matrigna a una cena del vicinato. Nello stato d’animo di quel momento, preferivo stare da solo, e per riempire le ore vuote fui ben lieto di dedicarmi alla cattura degli insetti.
Munito di un pennello e di una mistura di rum e melassa, mi avviai verso il bosco di Fordwitch per allestire la trappola – nota ai cacciatori di falene – che chiamiamo «inzuccherare gli alberi».
La serata estiva era calda e quieta, e quello era il momento in cui il tramonto sta per cedere all’oscurità. Dopo un’assenza di dieci anni trascorsi in Paesi stranieri, percepivo dei cambiamenti ai margini del bosco che mi mettevano in guardia dall’inoltrarmi con troppa sicurezza, dato che avrei potuto avere difficoltà nel ritrovare la strada. Restando così, tra gli alberi sul limitare del bosco, spennellai i tronchi con la mia subdola mistura che attira gli insetti notturni, e li stordisce quando si posano su quella fetida superficie. Una volta arrangiata l’esca, aspettai di osservare l’ebbrezza delle falene. Il tempo passava noioso e tetro, e quel misterioso gruppo di alberi si faceva via via più scuro del cielo che annottava. Delle innumerevoli foglie sopra di me, nessuna, nell’aria immobile, mi deliziava le orecchie col suo sonoro frusciare estivo.
Le prime creature volanti, difficili a vedersi sotto il cielo cupo, erano nemici che avevo imparato a riconoscere. Era già capitato di perdere parecchi begli esemplari d’insetti, quando i pipistrelli mi si erano avvicinati in cerca del loro pasto serale.
E ciò che era successo in passato, in altri boschi, si ripeteva adesso. La prima falena che avevo catturato era di quelle grosse, senza dubbio un esemplare che valeva la pena assicurarsi. Come allungai la mano per prenderla, tra me e l’albero apparve un’ombra volante, rapida e silenziosa. E in un baleno, quando le mie dita non erano che a un paio di centimetri da lui, l’insetto mi fu strappato via. Il pipistrello aveva iniziato la cena, ed erano stati l’uomo e la mistura a procurargliela.
Per tre delle cinque falene rimaste intrappolate, fui vittima di una scaltra ruberia. Quanto alle altre due – esemplari di scarso valore – fui abbastanza lesto da assicurarmele. In circostanze diverse, la mia pazienza da collezionista avrebbe sfidato l’abilità dei pipistrelli. Ma quella sera – una sera memorabile a riguardarla adesso – ero depresso e tendevo facilmente a scoraggiarmi. Gli studi prediletti sul mondo degli insetti sembravano aver perso valore nella mia considerazione. Nell’oscurità silente, disteso sotto un albero, rimuginavo su me stesso e sulla mia vita futura.
Sono Gerard Roylake, figlio, l’unico, del defunto Gerard Roylake di Trimley Deen.
Quando avevo ventidue anni, alla morte di mio padre entrai in possesso dei suoi vasti possedimenti terrieri. Solo poche ore dopo il mio arrivo dalla Germania, i domestici, senza volerlo, mi fecero innervosire. Avvicinandomi alla porta, infatti, li sentii che dicevano tra loro: «Ecco il giovane Signorotto». Mio padre veniva chiamato «il vecchio Signorotto». Rabbrividii nel ricordarmi di lui, non come sarebbe capitato ad altri figli nella mia posizione, cioè perché il fatto aveva ridestato in me il dolore per la sua morte. Non c’era alcun dolore da ridestare in me. È certo una confessione sconvolgente: il mio cuore restò impassibile al pensiero del padre che avevo perduto.
Le madri hanno il sacro diritto di pretendere da noi riconoscenza e amore. Ci hanno nutrito col loro sangue, hanno rischiato la vita per partorirci, hanno protetto e accompagnato la nostra infanzia indifesa con pazienza e amore divini. Quale diritto, altrettanto forte e tenero, potrebbe reclamare sulla sua prole l’altro genitore? Per quale ragione un bambino dovrebbe istintivamente preferire il padre a ogni altra persona che gli è familiare nella quotidianità? Lo ama – è naturale e giusto – poiché (se si tratta di un brav’uomo) nei suoi ricordi egli è il primo, il migliore, il più caro dei suoi amici.
Mio padre era un uomo malvagio. Era il peggior nemico di mia madre e non mi è mai stato amico.
Il poco che conosco del mondo mi insegna che non è molto comune tra le donne sposare l’oggetto del loro primo amore. Il senso del dovere aveva obbligato mia madre a separarsi dall’uomo che aveva conquistato il suo cuore nei giorni della sua innocente, prima giovinezza; e mio padre lo venne a sapere solo dopo il matrimonio. La sua sconsiderata gelosia offese in modo vile la più fedele delle mogli, la più indulgente delle donne. Io non possiedo la serenità per poterne scrivere. Per dieci, sciagurati anni lei sopportò il suo martirio; sopravvisse, caro angelo, tenera anima sofferente, per amor mio. E alla sua morte, mio padre riuscì ad appagare il disprezzo verso quel figlio che non aveva mai creduto suo. Col pretesto di preferire il metodo d’insegnamento straniero, mi spedì in una scuola in Francia. E una volta finito il corso di studi, fui trasferito in un’università tedesca. Non vidi mai più il luogo dov’ero nato, né ricevetti mai una lettera da casa, finché l’avvocato di famiglia mi scrisse da Trimley Deen, sollecitandomi a prendere possesso della mia casa e delle terre, come stabilito dall’eredità.
Non sarei nemmeno venuto a sapere che mio padre aveva preso di nuovo moglie se un amico (o un nemico) – non ho mai scoperto chi fosse – non mi avesse inviato un giornale che conteneva l’annuncio del matrimonio.
Quando io e la mia matrigna ci vedemmo per la prima volta, il nostro fu, ovviamente, un incontro tra due estranei. Fummo educatissimi l’uno con l’altra, e compimmo entrambi lodevoli sforzi per mostrarci a nostro agio. Lei, dal suo canto, si trovò di fronte un uomo giovane, il nuovo padrone di casa, che sembrava uno straniero più che un inglese, e che quando si congratulò (in occasione dell’apertura della nuova stagione) per le ottime condizioni in cui venivano mantenuti pernici e fagiani, tradì un’evidente mancanza d’interesse per l’argomento e non mostrò nessun disagio nel riconoscere che traeva il suo maggior diletto dalla lettura e dal collezionare insetti. Che delusione devo esser stato per la signora Roylake! E con quanta premura mi celò l’effetto che avevo prodotto su di lei!
Tornando alle mie impressioni, scoprii nella parente appena acquisita una donna minuta ed elegante, dagli occhi e dai capelli chiari; snella, luminosa e sorridente; vestita alla perfezione, intelligente sotto ogni aspetto, abile nel rendersi gradevole; e tuttavia, a discapito di queste innegabili attrattive, assolutamente indecifrabile. Nonostante tutte le esperienze in società che avevo fatto all’estero, non ero in grado di comprendere l’eccezionale importanza che la mia matrigna sembrava attribuire al rango e alla ricchezza come valori assoluti. Quando passava in rassegna i vicini da un capo all’altro della contea, vicini a me sconosciuti, dava per scontato che io dovessi essere interessato a loro sulla base di titoli e capitali. Mi considerava una sorta di idolo, e la sola ragione di ciò andava ricercata nel fatto che mi spettava in eredità una rendita di sedicimila sterline. E quando (scusandomi di non poterla accompagnare alla festa non essendo stato invitato) manifestai il dubbio del tutto ragionevole che probabilmente sarei stato un ospite indesiderato, la signora Roylake alzò le piccole mani per mostrare il suo indicibile stupore: «Mio caro Gerard, nella vostra posizione!». E con quell’esclamazione, sembrava pensare di aver sistemato la faccenda. Mi sottomisi in silenzio: la verità era che già iniziavo a disperare delle mie prospettive future. Con tutta la gentilezza e il garbo che la mia matrigna esibiva, come potevo sperare di stabilire una comprensione sincera tra noi? E se i miei vicini fossero stati tutti simili a lei nel modo di pensare, che speranze avrei avuto di trovare nuovi amici in Inghilterra per rimpiazzare quelli persi in Germania? Straniero tra i miei conterranei, con le abitudini e i piaceri quotidiani della giovinezza lasciati alle spalle, senza progetti o speranze che mi spingessero a guardare avanti, di certo non c’era da stupirsi che avessi il morale a terra, e che non riuscissi ad apprezzare con sufficiente gratitudine il fortunato evento della mia nascita.
Forse il viaggio di ritorno in Inghilterra mi aveva affaticato, o forse l’influenza dominante della notte silente e oscura si dimostrava irresistibile, fatto sta che le mie solinghe meditazioni sotto l’albero finirono in sonno.
Fui svegliato da una luce in pieno viso.
Era sorta la luna. Sul limitare del bosco, oltre il quale non mi ero spinto, la luce provvida e cristallina filtrava agevolmente tra gli alberi radi. Ora si intravedeva un sentiero più largo e curato dei viottoli che ricordavo di aver visto nella mia infanzia. La luna mi permetteva di distinguerlo chiaramente, e risvegliò la mia curiosità.
Seguendo il nuovo tracciato, scoprii che conduceva a una piccola radura che riconobbi all’istante. Il luogo era cambiato solo in un particolare: una fonte abbandonata era stata ripulita da rovi e pietre ed era stata fornita di una tazza, di un rozzo sedile, e di un’iscrizione latina su una lastra di marmo. Subito, quella fonte mi rimandò a un corso d’acqua più grande: un fiume poco più in là che scorreva tra gli alberi e l’aperta campagna desolata. Risalendo la radura, mi ritrovai in uno dei sentieri più stretti del bosco che, in passato, mi era stato familiare.
Se la memoria non mi tradiva, era la via che conduceva a un vecchio mulino sulla sponda del fiume.
L’immagine della grande ruota in movimento che, quando ero bambino, a un tempo mi affascinava e mi spaventava, riemerse dalla memoria per la prima volta dopo molti anni. Nello stato d’animo in cui mi trovavo, quella scena del passato mi allettò con lo stesso, irresistibile fascino di un vecchio amico. Chiesi allora a me stesso: «Devo proseguire e verificare se riesco a ritrovare il fiume e il mulino?». Questo dubbio del tutto insignificante mi metteva, tuttavia, di fronte a ostacoli immaginari così assurdi da sembrare quelli che s’incontrano nei sogni. Con mia grande sorpresa, esitai: tornai sui miei passi lungo il sentiero dal quale ero venuto, riconsiderai la mia decisione senza sapere perché, e mi diressi nella direzione opposta, volgendomi di nuovo verso il fiume. Adesso mi domando come sarebbe andata la mia vita se avessi seguito l’altra direzione.
Secondo capitolo
Il fiume ci presenta
Me ne stavo da solo sulla riva del fiume più brutto d’Inghilterra.
La luce lunare, spargendo il suo limpido chiarore sullo spazio aperto, non riusciva a donare alle acque stagnanti una bellezza che era loro estranea. L’invisibile corrente del corso ampio e limaccioso, lo faceva fluire fino al mare senza che una roccia o uno sciabordio ne infrangesse la superficie tetra. Sulla riva da cui osservavo il fiume, gli alberi crescevano così addossati l’uno all’altro da pregiudicare la loro stessa esistenza, quasi avvelenandosi a vicenda. Sulla riva opposta, l’espansione incontrollata di giunchi giganteschi nascondeva il terreno sottostante, tranne dove si sollevava in collinette mostrando una superficie sabbiosa e brulla, punteggiata qua e là da misere chiazze di vegetazione. Un fiume repellente in sé, repellente nei suoi dintorni, repellente persino nel nome. Lo chiamavano il Loke. Né la tradizione popolare né la ricerca antichista riuscirono a spiegare il significato del nome, o a risalire a quando fosse stato attribuito. «Lo chiamiamo il Loke: si dice che nessun pesce possa viverci e che, quando sfocia in mare, ne insozzi le acque salate». Tali erano le caratteristiche del fiume secondo l’opinione delle persone che lo conoscevano meglio. Tuttavia ero lieto di rivedere il Loke. Il brutto fiume, come la radura nel bosco, mi guardava con l’espressione di un vecchio amico.
Alla mia destra apparvero le antiche travi del mulino ad acqua.
A quell’ora di notte, la ruota era ferma, e l’intera struttura sembrava – com’è giusto che appaiano le cose che appartengono al ricordo, quando le rivediamo dopo molto tempo – più piccola di quanto mi aspettassi. A parte questo, non notai nessun cambiamento nel mulino. Ma la casetta di legno adiacente aveva subìto le ingiurie del tempo. Una porzione di quella costruzione cadente tuttavia teneva ancora, rivelando la sua miserevole vecchiaia: sorretta in parte da travi, che dal tetto di paglia scendevano fino a terra, e in parte dal muro di un nuovo cottage attiguo, che con i suoi mattoni creava un obbrobrioso contrasto con tutto ciò che restava della sua antica vicina. Il mugnaio che ricordavo era morto? E questi cambiamenti erano opera del suo successore? Pensai di chiedere e cercai di aprire la porta: era chiusa. Le finestre erano tutte buie tranne una, che scorsi al piano superiore, sul lato opposto del nuovo edificio. Lì, ardeva una luce fioca. Non era il caso di disturbare una persona che, fino a prova contraria, probabilmente stava per coricarsi. Mi girai di nuovo verso il Loke, con l’intenzione di prolungare la mia passeggiata di un miglio o poco più, fino a un villaggio che ricordavo sorgere sulla sponda del fiume.
Dopo aver fatto pochi passi, il silenzio che mi circondava fu interrotto da un suono ritmico di tonfi nell’acqua. Mi fermai per ascoltare e subito sentii un cigolio di remi negli scalmi. Dopo un po’, superata una sporgenza della riva, apparve una barca guidata da una donna che remava con forza controcorrente.
Come la barca mi si fece più vicina, il chiarore della luna modificò la mia prima impressione, e la donna si rivelò essere