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My Love Story. L'autobiografia
My Love Story. L'autobiografia
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E-book309 pagine4 ore

My Love Story. L'autobiografia

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Info su questo ebook

“Ma sapete che cosa rispondo quando mi chiedono: «Che cosa fai quando è tutto contro di te?». Io dico: «Vai avanti. Vai avanti senza fermarti. Non importa se ti arriva uno schiaffo in faccia, tu porgi l’altra guancia. E il dolore che senti? Non puoi fermarti a pensare a quello che ti hanno fatto, adesso o in passato. Devi solo andare avanti».”
Tina Turner, incontrastata regina del rock e leggenda vivente, racconta la sua illustre carriera e la sua complicata vita personale in questo memoir sincero e appassionante.
Dall’infanzia trascorsa a Nutbush, in Tennessee, alla fama raggiunta con Ike Turner, fino allo straordinario successo negli anni Ottanta e oltre, Tina ripercorre con grande onestà la propria storia, le difficoltà, i trionfi. Condivide con i lettori aneddoti degli anni trascorsi a lavorare al fianco dei più grandi nomi della musica, come Mick Jagger, Keith Richards, David Bowie, Beyoncé, e narra anche dell’incontro inaspettato nel 1986 con il grande amore della sua vita, con il quale si è sposata ventisette anni dopo. Perché, come lei stessa afferma, “qualche volta la felicità più grande arriva proprio nel momento in cui siamo in grado di apprezzarla”.
Dopo aver affrontato negli ultimi anni problemi di salute e tragedie familiari, la Turner riflette sulla propria storia straordinaria, e mentre approda a nuove certezze sul significato della vita, trova dentro di sé la forza che le permette di superare anche i momenti più bui.
My Love Story è la testimonianza indimenticabile di una donna che ha avuto il coraggio di superare tutti gli ostacoli che ha incontrato sulla propria strada. Ricco di coraggio, energia, cuore e anima, segni distintivi di Tina, questo libro è toccante e coinvolgente proprio come ognuno dei suoi indimenticabili grandi successi.
LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2018
ISBN9788858994542
My Love Story. L'autobiografia
Autore

Tina Turner

È lo pseudonimo di Anne Mae Bullock, cantante e attrice la cui sfolgorante carriera dura da oltre sessant’anni. Tina si aff accia al mondo della musica con il primo marito, Ike Turner, e insieme danno vita all’Ike and Tina Turner Revue. Il successo arriva con una serie di grandi hit, tra cui River Deep-Mountain High e, nel 1971, Proud Mary. Tina divorzia da Ike nel 1978 e ricostruisce la propria carriera con un’altra serie di successi, tra cui l’album Private Dancer, del 1984. Performer tra le più famose di tutti i tempi, ha venduto duecento milioni di dischi, vinto numerosi premi tra cui dodici Grammy, e per i suoi concerti sono stati venduti più biglietti che per qualsiasi altro artista nella storia della musica. Vive a Zurigo, in Svizzera, con il marito Erwin Bach. Ha scritto My Love Story insieme a DEBORAH DAVIS, autrice di molti saggi di argomento storico e attualità, e a DOMINIK WICHMANN, giornalista pluripremiato che per oltre quindici anni è stato caporedattore di due importanti riviste tedesche – Stern e Süddeutche Zeitung Magazin – autore di numerosi saggi e racconti.

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    Anteprima del libro

    My Love Story. L'autobiografia - Tina Turner

    Prologo

    DETTO FRA NOI

    Da bambina ero un terremoto. Nella terra di nessuno intorno a Nutbush, nel Tennessee, il remoto paesino dove sono nata, mi divertivo a saltare i fossi di slancio senza mai chiedermi, neanche per un secondo, che cosa sarebbe successo se fossi caduta nell’acqua stagnante. Mi azzuffavo con gli animali, cavalli, muli e perfino serpenti. Oggi mi fanno paura, ma quando ero piccola no: allora non avevo paura di niente. Un giorno, giocando nei boschi, trovai un serpentello verde e pensai: Da dove sarà venuto? Ero sicura che fosse un cucciolo che si era allontanato dalla madre. Lo raccolsi con un bastone e andai a cercare la tana. Come previsto, quando la trovai, dentro vidi un grosso serpente minaccioso, pronto ad attaccare per proteggere i piccoli. Immediatamente il mio istinto prese il sopravvento: non era paura, era autoconservazione. Balzai in piedi e corsi più veloce che potevo. Mi si sciolsero le trecce, il fiocco del vestito si slegò, ma continuai a correre finché non fui al sicuro. Il punto è questo: sapevo quando era il momento di scappare davanti a un serpente.

    Nel corso della mia vita ci sono stati moltissimi momenti in cui avreste potuto chiedermi: Come hai fatto a cavartela in quella situazione terribile? Ho fatto cose pericolose, e ne ho subite, ma all’ultimo minuto c’era sempre qualcosa che mi diceva che era ora di scappare, come potevo sopravvivere. Qualsiasi cosa mi sia successa, l’ho sempre superata. Ho deciso che doveva significare qualcosa, che forse, tutto sommato, dovevo vivere. Forse sono qui per una ragione. E forse la ragione è condividere la mia storia con voi.

    Ora potreste pensare: Tina, ma noi conosciamo già la tua storia. Sappiamo tutto di te e Ike, dell’inferno che ti ha fatto passare. Sappiamo che sei uscita da quella relazione spaventosa e che sei sopravvissuta. Ma c’è un dettaglio che potrebbe sorprendervi: a questo punto della mia vita, il periodo di tempo che ho trascorso senza Ike è molto più lungo di quello che ho trascorso con lui. Quarantadue anni, per la precisione. È un’intera nuova vita, piena di avventure, traguardi raggiunti e amore che ha superato ogni immaginazione. Però c’è stato anche un lato oscuro. Negli ultimi anni ho dovuto affrontare sfide drammatiche, questioni di vita o di morte che non mi sarei mai aspettata. Mai. Ora vi racconterò la mia storia.

    1

    THE BEST

    Give me a lifetime of promises and a world of dreams

    Speak the language of love like you know what it means

    «Tina, vuoi sposarti con me?» Questa fu la prima proposta di matrimonio che ricevetti da Erwin Bach, l’uomo di cui mi ero innamorata a prima vista e che mi aveva fatto girare la testa già dalla prima occhiata. La domanda era stata posta in modo un po’ strano – Erwin è tedesco, l’inglese non è la sua lingua madre – ma l’avevo apprezzata comunque. Probabilmente lui rimase un po’ stupito quando gli dissi: «Non ho una risposta». Sapevo soltanto che non era un sì e neanche un no. Era il 1989 e la nostra relazione durava da tre anni. Io stavo per compierne cinquanta ed Erwin, che ne aveva trentatré, pensava che avessi bisogno di un impegno da parte sua; era un gesto generoso, ma per me il nostro rapporto andava benissimo così com’era. E poi non sapevo che opinione avere del matrimonio: può cambiare le cose e, in base alla mia esperienza, non sempre in modo positivo.

    Ventitré anni dopo – e per fortuna che non ci eravamo promessi nulla! – Erwin me lo chiese di nuovo. E il tempismo fu perfetto. Eravamo in crociera nel Mediterraneo, sullo yacht del nostro amico Sergio, il Lady Marina, con una decina di amici carissimi. Ripensandoci, avrei dovuto capire che c’era qualcosa, qualcosa di importante, che bolliva in pentola. Il panorama intorno a noi era magnifico, ma per Erwin non era abbastanza romantico. Più tardi ho scoperto che aveva chiesto consiglio a Sergio, e che lui gli aveva proposto l’isola greca di Skorpios. «È il posto migliore che conosco per un momento di romanticismo assoluto» gli aveva assicurato.

    Quella sera, quando lo yacht cambiò rotta, dirigendosi a tutta velocità verso una nuova destinazione, chiesi: «Dove stiamo andando, tesoro?». Erwin fu vago e finse di non saperlo. Avrei dovuto capire che stava tramando qualcosa, perché lui sa sempre tutto. La mattina dopo mi svegliai davanti alla splendida Skorpios, l’ex rifugio di Onassis, con la sagoma del famoso capanno di Jackie dalle porte blu che si stagliava sulla spiaggia.

    Passammo una pigra giornata in barca – io cercavo sempre una zona d’ombra per proteggermi la pelle, mentre tutti gli altri si crogiolavano al sole – poi ci separammo e ci cambiammo per la cena. Quando ci riunimmo con gli amici, tutti gli uomini erano vestiti di bianco. Che bello, pensai, stanno benissimo con i jeans e le magliette bianche. Anche le donne erano molto curate e sfoggiavano i loro abiti più raffinati. Io avevo un vestito nero di lino, fresco ed elegante. Ci divertimmo un mondo – buona compagnia, brezza leggera, chiaro di luna. Poi, dopo cena, l’atmosfera mutò: all’improvviso si percepiva un senso di attesa, una corrente di eccitazione nell’aria. Che cosa sta succedendo? mi domandai.

    Vidi che tutti fissavano Erwin, il quale si avvicinò a me e si inginocchiò. Nella mano tesa aveva una scatolina – un gesto senza tempo. «Te l’ho già chiesto in passato. Ora lo faccio di nuovo. Tina, vuoi sposarmi?» Stavolta l’aveva detto in perfetto inglese. Gli uomini si asciugarono gli occhi – non riuscivo a credere che stessero davvero piangendo! – e le donne ci acclamarono quando risposi convinta: «Sì!». In quel momento stavo dicendo sì a Erwin e sì all’amore, un impegno che per me non era per niente facile. Insomma, avevo settantatré anni e stavo per diventare una sposa, per la prima volta. Esatto, per la prima volta. Mi chiamo Tina Turner, e sono stata sposata con Ike Turner, ma non sono mai stata una sposa vera e propria.

    Voglio raccontarvi com’è stato il mio matrimonio con Ike, se lo si può chiamare così. Non ero il tipo di ragazza che sogna di crescere e di sposarsi in pompa magna; certo, immaginavo che un giorno mi sarei sposata, ma laggiù a Nutbush non si organizzavano matrimoni eleganti, o comunque non quei matrimoni in cui la sposa si veste di bianco e si ricopre di veli e di pizzi. Non ho nessun ricordo di cerimonie del genere, anche perché i miei genitori, le zie e gli zii erano già tutti sposati quando sono venuta al mondo, oppure non si erano mai sposati.

    Quando Ike mi fece la proposta non ci fu proprio nulla di romantico. Stava cercando di tirarsi fuori da una situazione scomoda con una delle sue ex mogli, che aveva saputo di un nostro successo discografico e voleva estorcergli dei soldi. Ike era stato sposato talmente tante volte che avevo perso il conto – e tutte quelle mogli si aggiungevano alle innumerevoli fidanzate che si alternavano a velocità supersonica. Ike andava a letto, o comunque ci provava, con qualsiasi donna della nostra cerchia, che fosse sposata, single o qualsiasi cosa nel mezzo. Non ricordo perché sposarmi fosse la soluzione a quello specifico problema finanziario, ma per lui era la strategia migliore. All’improvviso mi aveva chiesto: «Ti va di sposarmi?». Esattamente in questo modo: brusco, laconico, senza fronzoli. Ike era fatto così.

    Io in realtà non volevo, e ripensandoci mi rendo conto di quanto davvero non lo volessi. A quel tempo avevo già conosciuto il lato peggiore di Ike, l’avevo vissuto sulla mia pelle. Ma le nostre vite erano molto complicate: avevamo quattro figli da crescere (Ronnie, il nostro bambino, Craig, nato da una mia precedente relazione, e poi Ike Junior e Michael, figli di Ike avuti con l’ultima moglie Lorraine) e lavoravamo insieme, quindi non avevo molta scelta.

    Pensai che, se proprio dovevamo sposarci, tanto valeva entrare nella parte. Indossai il mio vestito migliore e un cappello alla moda, marrone con la tesa larga. Perché un cappello? Così, mi sembrava la cosa giusta da fare. Non volevo sembrare sexy, come quando ero sul palco o in un locale, e pensavo che un cappello mi avrebbe dato un’aria più seria, adatta a una cerimonia. Non c’era nessuno a cui rivolgermi per chiedere consigli sulle convenzioni sociali (o sul galateo), perciò dovevo fare affidamento sul mio istinto. A causa di Ike non avevo amiche e quindi ovunque andassimo cercavo di osservare attentamente le altre persone – negli aeroporti, nelle città nuove, soprattutto quando ci esibivamo in Europa – guardavo e imparavo. E poi leggevo riviste di moda come Vogue, Harper’s Bazaar e Women’s Wear Daily, sforzandomi sempre di migliorarmi. È così che ho imparato a vestirmi, a truccarmi e a sviluppare uno stile personale.

    Il giorno del matrimonio che non era un vero matrimonio, finii di prepararmi e salii sul sedile posteriore dell’auto insieme a Ike. Duke, l’autista del nostro furgone, si mise al volante, pronto a portarci oltre la frontiera del Messico. Duke e sua moglie Birdie, che si occupava dei bambini quando eravamo in tour, facevano parte della mia famiglia allargata e quindi ero contenta che fosse con noi quel giorno.

    Ike aveva sempre un secondo fine. Doveva aver scoperto che Tijuana era il posto migliore per una cerimonia rapida, ed era sicuro che lì avrebbe trovato qualcuno che avrebbe fatto tutto senza certificati o esami del sangue. Probabilmente non era neanche legale. Ma era inutile discutere le sue motivazioni. Si sarebbe soltanto arrabbiato, e avrei rischiato di essere picchiata. Di certo non volevo ritrovarmi con un occhio nero il giorno del mio matrimonio.

    In quel periodo Tijuana era squallida e malfamata. Appena superato il confine seguimmo una strada polverosa – Dio, quanto era polverosa! – e scovammo la versione messicana di un giudice di pace. In un ufficetto sporco, un uomo mi mise davanti delle carte da firmare, e la cosa finì lì. Anche se non avevo una grande esperienza di matrimoni, sapevo che avrebbe dovuto essere un’occasione felice e commovente. Ma quel matrimonio non fu niente del genere. Nessuno disse: Ora puoi baciare la sposa. Niente brindisi, congratulazioni, auguri di vivere felici e contenti.

    Quel momento era stato abbastanza terribile, ma il resto fu anche peggio. Già che eravamo nella viziosa Tijuana, Ike voleva divertirsi. Divertirsi a modo suo, ovviamente. Indovinate dove andammo? In un bordello. Nella mia prima notte di nozze! Non ho mai, mai raccontato a nessuno questa storia, mi vergognavo troppo.

    Chi crederebbe a una cosa del genere, a un uomo capace di portare la donna che ha appena sposato a uno spettacolo dal vivo a luci rosse, subito dopo la cerimonia? Me ne stavo seduta lì, in quel buco lurido, a guardare Ike con la coda dell’occhio chiedendomi: Ma gli piace davvero? Com’è possibile? Era tutto così orribile. Lo spogliarellista maschio era brutto e sembrava impotente, e la ragazza… diciamo solo che lo spettacolo era più ginecologico che erotico. Io ero disperata, avevo le lacrime agli occhi, ma non c’era via d’uscita. Ce ne saremmo andati solo quando lo avesse voluto Ike, e lui si stava divertendo un sacco.

    Fu un’esperienza così inquietante che la rimossi, cancellandola completamente dai miei ricordi. Quando rientrammo a Los Angeles avevo ormai creato un immaginario completamente diverso, quello di una fuga romantica. Il giorno successivo mi vantai con tutti: «Indovina un po’? Oh, Ike mi ha portato a Tijuana. Ci siamo sposati ieri!». Volevo convincermi di essere felice, e per un breve periodo lo fui davvero, perché l’idea di essere sposata aveva un significato autentico per me. Per Ike era solo un’altra transazione d’affari: non era cambiato niente.

    Quindi, se quel matrimonio era stato un incubo, il giorno in cui sarei diventata la moglie di Erwin Bach doveva essere un sogno. Anzi, una favola, con tanto di principessa, principe e castello! Il nostro castello: Château Algonquin, non lontano da Zurigo, in Svizzera, dove vivevamo da quindici anni. Stavolta decisi di organizzare ogni dettaglio da sola: nessun wedding planner avrebbe potuto capire davvero quello che avevo in mente. Forse era una follia prendermi quella responsabilità, ma ero determinata a realizzare i miei sogni a modo mio.

    Io sono una donna d’azione. Per prima cosa chiamai il mio amico Jeff Leatham, il famoso floral designer che lavorava per me da anni, e gli chiesi di trasformare il parco del castello in uno scenario da favola.

    L’elemento fondamentale, il vestito da sposa, era già appeso nell’armadio. Avevo deciso che non volevo vestirmi di bianco, perché quella giornata non era soltanto incentrata su di me. Le spose in bianco calamitano l’attenzione di tutti, e nessuno nota lo sposo. Io però non volevo mettere Erwin in secondo piano: il nostro matrimonio era l’unione di due persone. Da decenni vestivo Armani e durante una sfilata a Pechino avevo notato un abito favoloso, un irresistibile connubio di taffettà verde, tulle di seta nera e cristalli Swarovski. Quando l’avevo provato mi ero sentita proprio come Cenerentola al momento del riscatto. Mi piaceva così tanto che dovevo averlo. Anche se non lo indosserò mai, mi ero detta.

    Nel profondo del cuore però sapevo che era destinato a diventare il mio abito da sposa. Come la maggior parte delle donne, non ho un corpo perfetto – il collo e il busto non sono slanciati, ho un seno procace e, diciamo, braccia mature – ma quando i maghi di Armani finirono le modifiche il vestito fu perfetto. Aggiunsi un paio di leggings neri e un piccolo sbuffo di velo nero – un ripensamento dell’ultimo minuto – ed Erwin dichiarò che era (ed ero) un’opera d’arte.

    Poi mi chiesi se una sposa avesse sempre bisogno di damigelle d’onore. Anche in quel caso decisi di non seguire la tradizione. Avevo molte care amiche, ma non volevo essere circondata da donne il giorno del mio matrimonio. In un certo senso il solo pensiero mi riportava al passato, a tutte le donne che Ike si teneva intorno, alle fidanzate e alle avventure di una notte. Poi mi venne un’idea. I figli dei nostri amici erano vivaci e meravigliosi come i fiori di Jeff Leatham, quindi perché non renderli partecipi della festa? Invitai quattro adorabili bambine e uno splendido bambino al nostro gran giorno e organizzai un incontro con loro da Giorgio Armani. Volevo che i miei meravigliosi boccioli avessero abiti eleganti come il mio, ma di un altro colore. Armani disegnò un vestito da principessina in una splendida sfumatura di lilla.

    Erwin chiese a suo fratello, Jürgen Bach, di fargli da testimone, mentre io mi rivolsi a uno dei punti fermi della mia vita, Rhonda Graam. Quando avevo conosciuto Rhonda, nel 1964, era una giovane fan di Ike e Tina, una ragazzina californiana innamorata della musica. Mi era stata accanto, in tanti ruoli diversi – amica, confidente, assistente, road manager – per quasi cinquant’anni e ci eravamo sostenute a vicenda in situazioni di ogni genere. Rhonda era il mio legame con il passato, mentre i bambini rappresentavano il futuro. Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, pensai.

    Io ed Erwin preparammo accuratamente la lista degli invitati, includendo i parenti e gli amici più cari. Da uomo pratico, mi fece notare che in presenza di celebrità come Oprah e il cantante Bryan Adams, mio vecchio amico, avremmo dovuto organizzare delle misure di sicurezza, perché il matrimonio avrebbe attirato molta attenzione. Quindi quel giorno avrei dovuto sacrificare l’adorato panorama del lago di Zurigo: saremmo stati costretti a montare un grande schermo rosso per nascondere la vista della nostra proprietà dall’acqua. Se noi vedevamo il lago, dal lago avrebbero visto noi, e volevamo difendere la nostra privacy.

    Jeff Leatham fece miracoli. Dall’Olanda arrivarono più di centomila rose in sfumature di rosso, rosa, arancio, giallo e bianco, trasportate in camion refrigerati. Non avevo mai visto dei fiori così splendidi in tutta la mia vita. Nell’aria aleggiava un profumo meraviglioso. Ci vollero giorni per creare la scenografia. Il personale di Jeff era dappertutto, perfino sugli alberi. Una confusione incredibile. Non era possibile abitare lì con tutti quei lavori in corso, quindi io ed Erwin ci trasferimmo in una suite al Dolder Grand Hotel di Zurigo. Io tornavo a casa ogni giorno per controllare i lavori. Alla fine ero così stanca che al solo pensiero del matrimonio mi veniva voglia di saltare in macchina e fuggire in Italia per una luna di miele anticipata.

    Probabilmente tutti gli sposi litigano un po’ prima del matrimonio. Io ed Erwin discutemmo per il tempo. «Schatzi» mi diceva lui, usando la parola tedesca che vuol dire tesoro, «e se piovesse? Ci serve un piano B.» Io invece mi rifiutavo di essere pratica. «No, niente piano B. Il giardino è troppo bello. Non ho intenzione di coprirlo con una tenda.» Avevamo consultato l’Almanacco del Contadino e scelto la giornata che sembrava più adatta per le congiunzioni delle stelle, della Luna e dell’universo. Ma a Erwin non bastava. Durante l’allestimento andai in giardino e notai che qualcuno aveva portato di soppiatto dei pali per tende, da tenere di riserva in caso di pioggia. «Portateli via» insistetti. «Non voglio una tenda. Non pioverà!»

    Altro problema: me ne stavo seduta ad ammirare i fiori e l’allestimento dei venti tavoli di vetro, sostenuti da colonne antiche e apparecchiati con stoviglie di porcellana e la mia collezione di cristalleria, quando il personale portò degli ombrelloni e cominciò a montarli. Servivano a bloccare la visuale ai droni, mi spiegarono. Droni? Al mio matrimonio? Decisamente un problema tipico del Ventunesimo secolo! Mi alzai in piedi e dichiarai: «Io non parteciperò a questo matrimonio. Ora me ne vado». Mi allontanai, e non ritornai finché quegli orrendi ombrelloni non furono smontati. Non avrei permesso a nessuno di rovinare le mie decorazioni. Neanche ai droni.

    Come avevo previsto, il 21 luglio 2013 non piovve. Ma il clima dimostrò un gran senso dell’ironia e ci fece un bello scherzo, perché quella giornata si rivelò una delle più calde dell’anno, con un’afa da record. Preparammo ventagli di carta per ogni invitato, nel caso il caldo fosse diventato troppo opprimente. Ho sempre pensato che avere un autentico ventaglio sia molto meglio che agitare un menu, o qualsiasi cosa ci si trovi sottomano.

    Io ed Erwin avevamo in programma di prepararci in albergo ma, all’ultimo minuto, decidemmo di fare i bagagli e vestirci a casa. Sono felice che sia andata così, perché fu molto più bello stare insieme agli invitati, soprattutto ai bambini. Aiutai tutti i piccoli a dare il tocco finale all’acconciatura e ai vestiti – ero davvero organizzatissima – e regalai a ciascuno di loro un piccolo braccialetto di Cartier creato apposta per commemorare l’evento. Poi gli invitati si trasferirono nella dépendance per gli ospiti ad aspettare l’inizio della processione nuziale. La carrozza che avrebbe accompagnato il principino e le principessine nel breve percorso fino al punto d’inizio del corteo nuziale era una Rolls-Royce bianca piuttosto insolita: il muso era quello classico, ma il retro era stato trasformato in un cassone da pick-up dove i bambini potevano sedersi. Avevamo ricoperto l’auto con ghirlande di fiori.

    A un certo punto mi resi conto che non avrei potuto vedere nulla fino all’inizio della cerimonia. Allora dissi a Erwin: «Sai una cosa, tesoro? Mi dispiace di non poter assistere alla prima parte del matrimonio. Potrò vederlo solo dopo, in fotografia». Ci pensammo un po’ su e trovammo una soluzione che mi avrebbe permesso di non perdermi nulla. Io sono buddhista da più di quarant’anni e ho una splendida sala di preghiera al secondo piano, dove vado ogni giorno per recitare i mantra e pregare al mio butsudan, che ha una grande vetrata affacciata sull’ingresso del castello. Era il posto perfetto: andai proprio lì, mi sedetti in silenzio e mi misi a osservare. La gente pensa che io sia sempre in movimento: mi immagina mentre ballo sul palco, corro giù dalle scale, addirittura mi appendo alla Torre Eiffel. Ma la vita mi ha insegnato che alcuni dei momenti più significativi e memorabili accadono quando sono a riposo, seduta, e mi dedico alla contemplazione e alla meditazione. Guardare dalla finestra i miei ospiti che arrivavano mi diede l’opportunità di capire quanto erano importanti per me e quanto ero felice di averli con noi nella nostra giornata speciale.

    Passando alle frivolezze, poi, dalla sala di preghiera riuscii ad apprezzare in pieno la loro eleganza! Sull’invito avevamo suggerito un dress code: bianco per le donne e smoking per gli uomini. Mi rendo conto che è molto insolito chiedere alle signore di vestirsi di bianco a un matrimonio, ma avevo i miei motivi: l’arredatrice che è in me non voleva un’accozzaglia di colori in mezzo alle decorazioni scelte con tanta cura. E poi sapevo che gli invitati sarebbero stati elegantissimi in bianco e nero, i colori più classici… e infatti fu così! Il bianco risaltava meravigliosamente contro il verde e i colori dei fiori, la scena era fiabesca. Più tardi molte signore mi dissero frasi come: «Tina, ho fatto molta fatica a trovare un vestito adatto, ma avevi ragione tu».

    Mi godetti la reazione degli ospiti mentre entravano nel magico scenario che avevamo preparato per loro: la facciata era ricoperta da enormi serpentoni di fiori e il giardino era un incanto divenuto realtà. Volevo un effetto da paradiso terrestre, con cascate di fiori e vegetazione lussureggiante dappertutto, e

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