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Il mondo colorato di Rosie
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E-book297 pagine4 ore

Il mondo colorato di Rosie

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Info su questo ebook

L’amore tra Rex e Rosie è stato passionale, travolgente e meraviglioso, ma le enormi differenze tra di loro hanno portato a incomprensioni profonde e alla separazione. Perché così come si attraggono, caratteri opposti possono anche essere causa di forte attrito, e nessuno lo avverte più di Willow, la loro figlia di dieci anni.
Rex è serio, rigido, tutt’altro che sentimentale, e appende sulla porta della camera da letto di Willow lunghe liste di regole e compiti da svolgere.
Rosie, al contrario, è frizzante e incantevole e dà appuntamento alla figlia nel bel mezzo della notte nella loro casa sull’albero per una festa a base di caramelle.
Dopo il divorzio dei genitori, Willow si ritrova quindi a navigare in due mondi diversissimi tra loro ed è ovviamente incantata dalla madre, dolce, spassosa e divertente. Ma quando i comportamenti di Rosie diventano sempre più strani e i suoi improvvisi sbalzi di umore sempre più difficili da comprendere, il lato oscuro della sua personalità viene alla luce rivelando una profonda sofferenza e costringendo Willow a guardarla con occhi diversi.
Rex si è tolto da tempo gli occhiali colorati che gli facevano vedere il mondo con gli occhi di Rosie, ma Willow riuscirà a fare lo stesso?

Bizzarro, tenero e profondamente commovente, Il mondo colorato di Rosie è un romanzo sui diversi modi in cui si manifesta l’amore. E sulla tenerezza con cui genitori e figli si sacrificano gli uni per gli altri.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2018
ISBN9788858982983
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    Anteprima del libro

    Il mondo colorato di Rosie - Brianna Wolfson

    giorno

    Prologo

    Willow Thorpe conosceva l’attrito. Il calore che si generava quando una cosa sfregava contro un’altra. Quando un mondo sfregava contro l’altro.

    Willow lo sentiva ogni volta che saliva sul sedile posteriore dell’auto della madre, allacciava la cintura di sicurezza, afferrava la mano del fratello e si preparava a tornare a casa del padre. Ogni volta che fissava lo sguardo fuori del finestrino di quell’auto e seguiva le curve ben note della strada che portava da lui. Ogni volta che il padre apriva la massiccia porta d’ingresso e brontolava: «Sempre in ritardo, Rosie». Ogni volta che la madre rispondeva disinvolta con un sorrisetto e un: «Ci vediamo, Rex».

    Ogni volta che Willow alzava gli occhi per guardare suo padre e si sentiva in imbarazzo per come le proprie ginocchia si toccavano. Che passava da pareti coperte di opere d’arte ad altre completamente bianche. Dai pastelli a cera color Mango Tango alle matite numero 2.

    Willow intuiva che i bambini degli altri genitori divorziati fantasticavano su come sarebbe stato se il padre e la madre si fossero innamorati di nuovo. Se la madre avesse raddrizzato la cravatta al padre la mattina prima del lavoro. Se il padre avesse chiuso la cerniera del vestito alla madre la sera prima di cena. Se si fossero dati un bacio improvviso sulle labbra quando pensavano che i bambini non li vedessero. Se in ogni cornice della casa ci fosse stata l’immagine di una famiglia completa: madre, padre, fratello e sorella abbracciati l’uno all’altro.

    Ma Willow non pensava a niente del genere.

    Pensava a suo padre forte e serio in un mondo, e a sua madre calda e luccicante nell’altro. E alle tre volte a settimana in cui un mondo strideva contro l’altro.

    Ma quello stridere di mondi, tutto quell’attrito e quel calore valeva la pena di sopportarlo, se ogni volta Willow poteva tornare nel mondo della madre.

    Perché in quel mondo, l’amore di sua madre era magico ed era intenso. Willow sentiva che quel tipo d’amore poteva cristallizzarsi dentro di lei e rafforzarla. Che poteva appagarla nel senso più autentico e reale. Che poteva mantenerla al sicuro e felice per sempre.

    Ma Willow si sbagliava.

    Presto nella sua vita ci sarebbero state confusione e tristezza e dolore e perdita. E il folle amore di sua madre per la figlia non poteva proteggere Willow da nessuna di queste cose. In effetti, poteva addirittura esserne la causa.

    1

    Dodici anni prima

    A ventiquattro anni, Rosie Collins era convinta che l’amore fosse insieme preciso e travolgente. Era convinta che il vero amore arrivasse a sfiorarti il lobo dell’orecchio tanto quanto arrivava al cuore. Era convinta che ci fosse una maniera speciale, dalla sfumatura unica, in cui un essere umano poteva amare un altro essere umano. E pensava a quelle invisibili, sfumate forze dell’amore ogni volta che vedeva due innamorati insieme al parco o in metropolitana o su una panchina. Immaginava i vezzeggiativi con cui si chiamavano prima di andare a letto. Il punto in cui lui preferiva posare la mano. La maglietta di lui che lei preferiva mettere per dormire. La cosa sciocca detta da lei che lo faceva sempre ridere. Il brutto quadro comprato da lui per il loro appartamento, che lei adorava vedere sulla parete del soggiorno.

    Rosie accettò il posto di commessa al negozio di fiori Blooms, all’angolo tra la Ventiduesima Strada e l’Ottava Avenue, appena si fu trasferita a Manhattan, in parte per i soldi, in parte perché le piaceva l’idea di una persona di nome Rosie che lavorasse da un fioraio. Ma più che altro accettò il posto per poter aver accesso a quelle forze dell’amore. Come in tutti i suoi lavori occasionali, avrebbe dovuto svolgere compiti banali: questa volta si trattava di disporre i fiori, gestire la cassa e trascrivere i messaggi sui biglietti. Ma Rosie pensava di poter tenere quel posto più a lungo delle solite sei settimane, perché da Blooms il proprio lavoro assumeva un significato superiore.

    Vedeva se stessa favorire l’amore. Fantasticava sulle migliaia di storie d’amore di cui sarebbe stata testimone per un breve attimo, quando i clienti, uno dopo l’altro, le avrebbero telefonato rendendola partecipe di un pezzettino di sé. Le avrebbero raccontato qual era il fiore preferito della ragazza con cui uscivano. La poesia preferita della fidanzata. Il loro desiderio di far apparire il bouquet perfetto sulla scrivania della moglie il giorno del suo compleanno, o di scegliere la composizione perfetta per dire buon anniversario. Oppure di mandare qualcosa così, senza un perché.

    Era così entusiasta che, la domenica prima di iniziare il lavoro, passò tutta la giornata a esercitarsi nella calligrafia. Rosie voleva garantire che ogni lettera fosse tanto originale e decorativa da riflettere la bellezza e l’originalità dell’amore che c’era dietro il biglietto. Quella notte dormì pochissimo per la trepidazione di potersi avvicinare all’autentica, nuda, sfrontata voce dell’amore. Era una voce che adorava, sebbene ancora non facesse parte della sua vita.

    Ma durante la prima settimana da Blooms, il cuore di Rosie si spezzò nel sentire che, giorno dopo giorno, gli uomini telefonavano per chiedere l’invio di una dozzina di rose rosse alla loro ragazza o moglie o innamorata con un biglietto che diceva semplicemente: Con amore, Jim o Da Tom o soltanto Harry.

    Come, non c’erano persone che amavano le ortensie, i crisantemi o i gigli? Non si mandavano mai fiori a persone che preferivano il rosa o il bianco o più di un colore? Gli innamorati non sapevano queste cose della loro dolce metà? Non desideravano riempire il bigliettino di accompagnamento con le parole più delicate, più vere e perfette?

    Quando si mandano fiori alla moglie, non si vuole forse che questo significhi: È così che mi sento ancora oggi quando ti guardo negli occhi? Quando si ama qualcuno, non si desidera dirglielo nel modo più chiaro, preciso, perfetto? Come mai tutti questi uomini amavano nella stessa maniera da dozzina-di-rose-rosse, Con-amore-John o Colin-e-basta?

    A Rosie si spezzava il cuore nel pensare che l’amore potesse essere tanto banale.

    Ma Rosie non era neppure il tipo da starsene lì molto a lungo con il cuore spezzato. Soprattutto quando questo minacciava la sua visione del mondo. Se gli uomini di Manhattan non erano in grado di esprimere l’amore come si deve, li avrebbe aiutati lei. Avrebbe pervaso i loro gesti di sfumature e precisione, che fossero autentiche o no.

    Così Rosie si prese l’incarico di garantire che dal fioraio Blooms non uscisse alcun biglietto con una firma così generica e noiosa da spezzare il cuore. Sostituiva tutte le richieste di messaggi banali con altri che giudicava più adatti per un gesto d’amore. Ieri sera eri bellissima. Con amore, Alex; Stavo proprio pensando a com’eri carina quando avevi quel pezzetto di cibo incastrato fra i denti. Con amore, Ryan; Quando ci sei io sto meglio. Con amore, Charlie; Spero di rivederti tantissime volte. Con amore, Ian. E faceva un gran sorriso mentre legava ogni biglietto a uno stelo e lo spediva fuori della porta.

    Queste erano le storie d’amore di cui Rosie voleva far parte. Anche se non erano reali, Rosie era comunque convinta che in qualche modo fossero vere.

    Per alcune settimane nessuno fece caso ai suoi incoraggiamenti all’amore. Nessuno finché Rex Thorpe non telefonò per richiedere che consegnassero una dozzina di rose rosse alla sua ragazza al 934 di Columbus Avenue.

    «E cosa desidera scrivere sul biglietto?» domandò Rosie con aria annoiata.

    Le era già capitato di parlare al telefono con questo tipo d’uomo che aveva la fidanzata nell’Upper West Side. Arrogante. Probabilmente aveva un lavoro molto ben pagato. Probabilmente era bello, ma anche un vero cretino. Probabilmente aveva una ragazza carina a cui raramente diceva: «Ti amo».

    «Il biglietto? Quale biglietto?» rispose brusco Rex.

    «Il biglietto che accompagnerà la dozzina di rose rosse.»

    Un momento di pausa.

    «Signore?» aggiunse lei alzando gli occhi al cielo e trasmettendo la sua insofferenza attraverso il telefono.

    Silenzio. E poi il telefono le rimandò il fastidioso rumore di un chewing-gum masticato. «Ad Anabel. Con amore, Rex. Penso vada bene.»

    Clic.

    Rosie trovava che Rex e tutta quella conversazione fossero un insulto totale ed esasperante a lei e al verbo amare. Ancora una volta.

    E così Rosie compilò il biglietto nel modo che riteneva appropriato: con la sua poesia preferita di E.E. Cummings.

    Amore è più oscuro ancora

    che dimenticare, più

    chiaro ancora che ricordare,

    più raro d’onda umida,

    più frequente che deludere,

    è il più pazzo e lunare

    e non sarà minore

    di tutto il mare che solo

    è più profondo del mare,

    amore è sempre meno

    di vincere, mai meno

    di vivere, appena più

    grande del minimo principio,

    sempre un po’ meno

    di perdonare,

    è il più savio e solare

    e non può spegnersi più

    di tutto il cielo che solo

    è più alto del cielo.

    E poi lo firmò per conto di lui: Ti amo, Rex.

    Quella era la prima volta che Rosie usava nei biglietti le parole di qualcun altro oltre alle proprie. Non era mai ricorsa a nessuna delle sue poesie preferite. Ma quella volta, per controbilanciare la suprema cretineria di Rex Thorpe, le sembrava proprio giusto.

    Non era chiaro neppure a Rosie se il suo fosse un piccolo tentativo di salvare la ragazza di Rex oppure un implicito tentativo di dire qualcosa a Rex su come dovrebbe essere l’amore. In ogni caso, ora il suo contributo era scritto nero su bianco e sarebbe comparso sulla soglia di Anabel nel giro di trentasei ore.

    E Rosie era contenta.

    Quando Rex arrivò alla soglia della fidanzata per ricevere il giusto ringraziamento per i fiori che aveva mandato, Anabel gli gettò le braccia al collo con prontezza ed energia. All’insaputa di Rosie, Anabel era studentessa di letteratura e grande ammiratrice di E.E. Cummings.

    «Il biglietto era stupendo» disse Anabel al suo ragazzo. «Me lo ricorderò sempre. Ti amo anch’io.»

    Rex sapeva che Anabel era sicura che si sarebbero sposati, e a lui non era ancora venuto in mente alcun motivo per smentirla.

    Ricevette il suo abbraccio immeritato senza rispondere una parola. Ma quando vide il biglietto di quel bouquet, si infuriò. Perché il linguaggio dei fiori non gli interessava, e ancor meno gli interessava che qualcuno facesse una cosa per conto suo senza il suo esplicito permesso.

    A trentun anni, Rex Thorpe era serio e meticoloso a proposito delle cose che entravano a far parte della sua vita. I suoi pantaloni e le camicie stirate Brooks Brothers. I mobili Eames del suo appartamento. I ristoranti dell’Upper West Side che frequentava e i titoli accademici delle persone con cui interagiva. Il whisky che beveva e la forma del bicchiere che lo conteneva. La marca d’inchiostro nero della sua penna a sfera. La visione che aveva di sé come rispettato uomo di successo. Un uomo di una certa integrità.

    Rex concentrava la sua attenzione su tutte queste cose con tale precisione e intensità che non gli sembrava mai logico o necessario dedicare particolari energie ad Anabel DeGette. Non gli importava abbastanza di lei per fare stranezze, sebbene fosse sia bella sia simpatica. Quanto a Rex, era pienamente consapevole che se una donna bella e simpatica non fosse stata parte integrante di quella che considerava una vita di successo, probabilmente delle donne non si sarebbe preoccupato affatto. Ma dato che lo era, Rex sapeva che ogni tanto doveva manifestare un po’ di sentimento o d’affetto, pur ignorando al tempo stesso la ragazza e passando tutto il tempo al lavoro. E una dozzina di rose rosse con un biglietto che diceva Con amore, Rex era il modo che aveva scelto.

    «Ma che cazzo ha fatto?» fu la domanda retorica che Rex urlò a Rosie il giorno dopo, prima ancora di aver messo entrambi i piedi dentro il negozio. «Per il biglietto le avevo dato istruzioni chiarissime, e quelle istruzioni non comprendevano assolutamente una cazzo di poesia di E.E. Cummings. Chi è lei per interferire e manipolare le mie parole?»

    Era pronto a continuare la sua sfuriata, ma si fermò di botto al vedere Rosie, nel suo vestito fantasia lungo fino al ginocchio. I suoi capelli castani che sfuggivano spettinati da una treccia morbida. La frangetta che quasi copriva la curva delle sopracciglia folte. I guanti da giardinaggio che erano comicamente larghi per le mani indubbiamente minuscole collegate a quei polsi minuscoli. La sua ossatura minuta. Il naso leggermente all’insù. Le lentiggini. Gli angoli degli occhi appena piegati verso il basso. Quel modo sfrontato di ondeggiare i fianchi canticchiando Leather and Lace di Stevie Nicks e Don Henley. Quel modo di emanare luce.

    E, soprattutto, di ignorare con disinvoltura la sua ira.

    Rex fu così colpito da tutto questo che rimase senza fiato.

    Rimase dov’era, a bocca aperta, deluso che Rosie non avesse ancora alzato gli occhi. Ma gli sembrò di incrociare il suo sguardo. Solo per un attimo. Voleva incrociare il suo sguardo. Voleva fissarlo e vedere qualcosa di nuovo.

    Senza neanche alzare gli occhi dalle forbici con cui stava tagliando le spine alle rose, Rosie aveva capito che era stato Rex a fare irruzione in negozio. Lanciò una rapida occhiata da sotto la frangetta. Bello e cretino, appunto.

    Mentre Rex le parlava cercò di tenere lo sguardo rivolto alle rose, ma quando le parole finirono perse la battaglia. Incrociò gli occhi di Rex Thorpe solo per un istante, ed eccolo lì. Con le sue sopracciglia ribelli. Le spalle forti. La pelle liscia. Le pieghe delle guance. I capelli neri.

    La sua presenza.

    Rosie non poteva sopportare di restare in negozio con quella forza che rischiava di soverchiarla. Quella simultanea repulsione e attrazione. Perciò scosse le mani finché i guanti di tela non caddero sul bancone. Poi Rosie prese la sua grossa borsa piena di quaderni scarabocchiati e merendine dolci e superò di corsa Rex senza dire una parola. Si concentrò a tal punto sull’uscire di lì da non accorgersi neppure del pastello azzurro e delle monetine che cascavano dalla borsa mentre se la tirava dietro.

    Camminando verso la porta, Rosie avvertì un altro brivido. Benché non condividesse i principi di Rex, ammirava la sua integrità. Non tutte le persone – non tutti gli uomini – parlavano con quella franchezza. Non tutti erano disposti a comunicare che cosa li feriva o li urtava. Cosa suscitava in loro piacere o entusiasmo. C’era qualcosa di sexy nella sicurezza di Rex. La sua mascolinità. Le sue convinzioni. Ma pur con tutti questi pensieri sull’uomo piantato fermamente in mezzo al negozio, Rosie uscì a passo di danza e decise di prendersi il pomeriggio libero.

    Saltò sulla bici e, senza una preoccupazione al mondo, andò dritta al suo ramo preferito del salice di Central Park. Con la melodia di Leather and Lace che le risuonava in mente. E nel naso una traccia del profumo silvestre di Rex.

    2

    In verità, Willow Thorpe odiava i mercoledì. Secondo le regole del divorzio, i mercoledì erano sempre giorni del papà. E i giorni del papà erano pieni di compiti ed esercizi di pianoforte e tabelle dei turni e buone maniere.

    Ma non ci volle molto perché sua madre trovasse una maniera di fare del mercoledì la notte preferita di Willow. Un’altra avventura, un’altra occasione di tanto amore.

    Willow tirò la sua adorata maglietta di Keith Haring da sopra la testa finché non le cadde sulle spalle. Le venne da sorridere quando se la vide indosso, guardandosi nello specchio mentre si lavava i denti. Amava quella T-shirt larghissima con le linee spesse e sinuose, i colori vivaci. L’amava perché emanava allegria tutto intorno, con quelle figure così semplici e felici che ballavano insieme.

    Si sciacquò il dentifricio dagli angoli della bocca, quindi si infilò sotto le coperte. E poi aspettò. Chiuse gli occhi forte come se stesse dormendo. Ma non ci era neanche vicino. Aspettò un altro po’. E quando la sua sveglia di mezzanotte suonò, sembrò simultaneamente che tutto il tempo del mondo e neanche un po’ di tempo fosse passato.

    Con un pizzicorino appena sotto la pelle, Willow infilò i piedi nelle pantofole, prese la torcia dal comodino, mise il cuscino sotto le lenzuola nel caso che il papà venisse a dare un’occhiata e con precauzione, in punta di piedi, scese tutta la scala di servizio. Afferrò il corrimano per maggiore equilibrio, ma fece gli scalini con grande naturalezza. Era un peccato che Willow fosse più aggraziata che mai proprio su quella scala buia nel cuore della notte, quando nessuno l’avrebbe mai vista.

    Willow puntò lentamente e con attenzione i piedi nella spessa moquette che ricopriva ogni gradino. Attraversò la cucina, sgusciò fuori della porta sul retro e si diresse in fondo al giardino. Questo momento, in cui stava ferma sul margine del prato all’inglese senza nient’altro che gli altissimi alberi davanti a lei, fece tremare il cuore di Willow. Era sola, Willow, sola nel buio. Non c’era che il frinire sincopato delle cicale e il leggero crepitio del bosco. E la frizzante acidità dell’aria notturna d’ottobre che le riempiva i polmoni.

    Willow sentiva l’eccitazione pulsare lungo i nervi. Era al margine del mondo di suo padre e sul precipizio di quello di sua madre. Questa era l’entrata per la felicità.

    Si lanciò giù dal prato folto, nel profondo degli alberi. Solo trentasette passi e mezzo, si disse mentre camminava spedita su foglie cadute e fragili ramoscelli fino alla casa sull’albero. Quel numero l’avevano calcolato una volta lei e la mamma. Rosie era stata persino attenta a tenere conto del passo di Willow al posto del suo.

    E quando Willow raggiunse la base della scala che conduceva in alto, fece il segnale: tre lampi della torcia. Poi aspettò con gli occhi spalancati e il cuore in tumulto. Ma prima che passasse un altro minuto, Rosie rispose al segnale e sbucò con la testa dal pavimento della casa sull’albero.

    Nel vedere la madre, a Willow veniva sempre tantissima voglia di correre su per la scala, ma sapeva che le sue ginocchia malferme non potevano sfidare i traballanti pioli di legno. Era appena in grado di tenersi dritta sul pavimento liscio del corridoio della scuola, non certo su una vecchia scala. Dunque procedeva con calma, appoggiando le dita su ogni piolo e poi stringendo più forte che poteva mentre faceva salire i piedi pian piano, un piolo per volta.

    E quando Willow arrivava finalmente in cima, sua madre la tirava su con le braccia e la baciava con tanta forza e decisione sulla guancia. Insieme, Willow e sua madre cantavano e ballavano e parlavano e disegnavano alla luce delle torce. Dipingevano, giocavano alla battaglia dei pollici, a Twister e al gioco della monetina. Facevano a turni a dire scioglilingua. Si volevano tanto, tanto bene.

    E quando le pareti della casa sull’albero erano coperte di disegni nuovi, quando la loro bocca era coperta di zucchero colorato Pixy Stix e la pancia piena di gazzosa alla vaniglia, e quando l’aria della casetta era satura delle canzoni di Elton John grazie ai minuscoli altoparlanti di Rosie, Willow posava la testolina nel grembo della madre e sospirava.

    La voce sommessa e rauca di Willow attraversò il silenzio. «Mamma, perché tu e il papà avete divorziato?»

    «Be’, tu preferisci svegliarti con il sole o con la sveglia?» replicò Rosie.

    «Col sole» rispose Willow. E senza perder tempo.

    «Anch’io, tesoro» disse calma Rosie mentre baciava Willow al centro della fronte liscia. E poi Willow sospirò ancora in grembo a sua madre.

    Quando l’orologio di Rosie fece bip all’una del mattino, Willow e Rosie misero via cartacce e giocattoli, spensero le torce e ballonzolarono giù per la scala. Rosie con facilità e Willow con il massimo della concentrazione.

    Poi Willow raggiunse la porta sul retro della casa di suo padre e aspettò di vedere sua madre allontanarsi sul vialetto. Guardava i capelli di Rosie ondeggiare senza peso mentre le braccia magre faticavano a contenere il mucchio di bibite e caramelle e matite colorate precariamente appoggiato al petto. Willow guardava la madre in tutta la sua eleganza, la sua effervescenza, finché non veniva assorbita per gradi dall’oscurità.

    Inevitabilmente, prima di scomparire, Rosie si faceva sfuggire una matita o un pastello o un pennarello lasciandolo cadere e rotolare per terra senza neanche accennare a raccoglierlo. Non si fermava neppure ad ascoltare il piccolo rumore dell’oggetto che le scivolava dalle braccia e toccava l’asfalto. Rosie a quel punto saliva in macchina, dove le luci smorzate svelavano ancora una volta la sua silhouette. E allora abbassava i finestrini, si premeva entrambe le mani sulle labbra e stendeva le braccia verso di lei. Stava mandando un bacio al di là del buio vellutato, fin dentro l’anima di Willow.

    Poi sua madre ripartiva.

    Anche quella volta Willow tornò con la torcia sul vialetto per recuperare il pastello perduto e portarlo di sopra con sé. Fece rotolare tra le mani il cilindro di cera rosa scuro ed esaminò l’etichetta – Jazzberry Jam – poi lo mise nella tasca del pigiama.

    Il mercoledì notte, mentre per la seconda volta si preparava a scivolare nel sonno, Willow rivedeva l’immagine delle labbra rosse della madre che s’incurvavano in un sorriso e risentiva quelle lunghe dita curate che giocherellavano con i suoi ricci. Bastava questo, e riusciva ad addormentarsi felice.

    Non era mai importante quanto stanca si sentisse Willow a scuola il giovedì, dopo la gita alla casa sull’albero. I mercoledì notte con la mamma erano di sicuro la notte preferita di Willow fra tutte le notti della settimana.

    Il mattino dopo, quando

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