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Cortés - La conquista del Messico: Sotto il segno di Montezuma
Cortés - La conquista del Messico: Sotto il segno di Montezuma
Cortés - La conquista del Messico: Sotto il segno di Montezuma
E-book395 pagine6 ore

Cortés - La conquista del Messico: Sotto il segno di Montezuma

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Info su questo ebook

Il romanzo, diviso in tre volumi, descrive l’impresa di Hernán Cortés. Riesce a farsi nominare capo di una spedizione di un pugno di uomini, giovani in cerca di fortuna nelle terre del Nuovo Mondo con l’agricoltura e il commercio; anche se la sua impresa dovrà portare gloria al cattolico impero di Carlo V, il generale sa che la guerra da condurre dovrà essere spietata. Cortés è ambizioso, crudele quando ritiene necessario, cinico, ma anche umano. La vicenda viene raccontata non solo dal punto di vista dei conquistatori, ma anche dall’altra parte della barricata, dalla prospettiva di Montezuma, l’imperatore-Dio che si oppone alla penetrazione dell’esercito spagnolo nel suo impero, e che finirà con l’esserne schiacciato.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289054
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    Anteprima del libro

    Cortés - La conquista del Messico - Luigi Lunari

    libri@gmlibri.it

    Parte prima

    Dopo la strage

    I

    Verso la tierra caliente

    Gli spagnoli scendevano verso la tierra caliente. In lunga fila, preceduti e seguiti dai loro alleati totonachi di Cempoalla – in testa i guerrieri, in coda i tamanes, o portatori – percorrevano la stretta pista tracciata tra i campi e le foreste della piana di Cholula, verso il freddo valico dove mai una ruota – strumento sconosciuto al Nuovo Mondo – aveva lasciato la propria impronta.

    La stagione delle piogge non era ancora finita. Ma come sempre al mattino, il cielo era limpido e trasparente e il sole – da poco sorto dietro le montagne – non era ancora tanto caldo da rendere faticosa la marcia.

    Hernán Cortés cavalcava in coda ai suoi soldati, affiancato ora da Marina ora da qualcuno dei capitani. Si lasciava alle spalle – ormai lontana e invisibile – la città di Cholula, distrutta e incenerita, ove si era consumato il tremendo massacro che ne aveva trasformato le strade in fiumi di sangue. Poche immagini gli turbavano ancora la coscienza e gli ingombravano i ricordi: l’immagine della donna che faceva scudo col proprio corpo a un bambino, e lo spagnolo dal ghigno osceno che, dopo aver invano tentato di trafiggere il piccolo (quasi fosse un gioco l’eludere le manovre della donna), trafiggeva madre e figlio insieme con un colpo solo di lancia; l’immagine di altri suoi soldati che dal sommo di una casa gettavano il corpo di un vecchio sulle picche dei compagni che lo attendevano in strada; l’immagine della donna che non riesce a sfilare l’anello, e il soldato che le trancia il dito con il pugnale; l’immagine di un neonato preso per le gambe e scagliato a sfracellarsi contro un muro... Immagini che Cortés allontanò da sé alzando le spalle e con un gesto nervoso della mano, quasi si trattasse di liberarsi di un insetto molesto. Questa, del resto, era la guerra: inutile porsi dei traguardi ambiziosi di conquista, per mostrarsi poi schizzinosi sui dettagli! Impossibile, e dunque inutile, eccitare i soldati con la prospettiva del bottino, chiedere loro di scatenare la furia necessaria alla vittoria, per poi imbrigliarne la violenza appena questa avesse passato il segno! Il grande traguardo cui egli mirava, in nome di Dio e del re di Castiglia, avrebbe cancellato, una volta raggiunto, le inevitabili ombre sul cammino percorso. Cortés pensò all’immenso mondo nuovo che si sarebbe aggiunto ai domini del suo re, pensò allo stuolo di popoli tra i quali sarebbe stato predicato il Vangelo, alle miriadi di anime accostate alla vera fede e salvate dalla dannazione eterna.

    Cortés risalì per un poco la lunga fila dei soldati che procedevano a piedi e indugiò a guardarli. Volti, braccia, petti che la storia avrebbe ingoiato riassumendo in un tratto di penna tutti gli eroismi e i delitti di cui erano stati o sarebbero stati autori. Cento storie individuali destinate a essere cancellate assieme ai loro protagonisti, dalla terra e dalla memoria. Soltanto la grande impresa sarebbe rimasta, nel pantheon dorato della Storia. Solo lui sarebbe stato ricordato dai posteri: lui, il figlio del modesto notabile Martin Cortés di Medellin; l’uomo che per sei anni si era confuso tra gli avidi adelantados di Cuba, sfruttando gli indios e le terre assegnategli quale sua parte della conquista, che solo pochi mesi prima aveva rischiato di finire impiccato sulla piazza del mercato di Santo Domingo o di San Jago... chiamato da Dio a fare per il cristianesimo più di quanto avessero fatto tutti gli apostoli messi insieme. E a sorreggere questa divina missione – come un braccio secolare – l’umana conquista di un impero più grande di quelli dei Cesari o d’Alessandro il Macedone. E non con un esercito ordinato e bene armato, simile a quelli che i re del vecchio mondo schieravano nelle campagne d’Italia o delle Fiandre, ma con un pugno di disperati, uniti solo dalla brama dell’oro e sempre esposti alla tentazione di abbandonare la lotta e far ritorno agli ozi di Cuba. Un pugno di disperati tragicamente impari ai compiti, ma non più di quanto lo fosse Davide contro Golia, a riprova ancora una volta del favore divino che lo accompagnava.

    Di nuovo Cortés alzò le spalle, come a scacciare il fastidioso ricordo del massacro. Ben più importante – nel grande disegno di cui si sentiva autore e protagonista – la lezione che tutti avrebbero tratto da quel gesto spietato: esso provava la forza e la determinazione degli spagnoli creando attorno a loro e al Dio che li guidava un’aura di assoluta invincibilità. I nemici ne sarebbero stati atterriti, primi fra tutti i messicani di Montezuma; gli alleati si sarebbero sentiti garantiti e protetti; gli incerti ne avrebbero tratto l’incoraggiamento a schierarsi al suo fianco ribellandosi al giogo degli aztechi.

    Certo, qualche piccolo problema c’era stato. Con i suoi alleati totonachi, per esempio, che non volevano saperne di liberare i prigionieri catturati per essere sacrificati ai loro dei. Cortés aveva dovuto intervenire con estrema decisione, ancora una volta denunciando l’orrore inammissibile dei sacrifici umani e dichiarando che mai lo avrebbe tollerato. I totonachi avevano aperto le gabbie e liberato i prigionieri, che però erano poi incorsi in uno spiacevole incidente: mentre stavano cercando di mettersi in salvo verso le colline, si erano imbattuti in un gruppo di spagnoli che li avevano presi per un’ultima residua sacca di resistenza, e li avevano passati tutti a fil di spada. Un qui pro quo che aveva provocato le vivaci rimostranze dei capitani totonachi, che avevano sostenuto che quel sangue, versato così, tanto per il gusto di uccidere, invece che offerto agli dei, era solo un inutile spreco. Altro motivo di fastidio era stato fornito da fra’ Juan de Toledo, che aveva preso per mano Cortés e, con una violenza e una prepotenza insospettabili in quel corpo e sotto quella tonaca, lo aveva trascinato per le strade che circondavano il tempio, a mostrargli i cumuli di cadaveri, e sui cadaveri i segni delle violenze subite, gridando come un ossesso se era quello il Vangelo che erano venuti a predicare e a diffondere...

    Ma, al di là di questi incidenti, il bilancio poteva considerarsi estremamente positivo, malgrado la perdita di tempo che comportava ora il cambiare strada e l’avvicinarsi al cuore dell’impero messicano lungo la strada che passava per Tlascala, la fiera repubblica che mai si era piegata al giogo di Montezuma. Una delle lezioni che Cortés aveva tratto dall’esperienza di Cholula era l’utilità di un’alleanza con i popoli indios nemici di Montezuma e l’appoggio delle loro truppe, da usarsi come una formidabile massa d’urto, che poteva essere lanciata in prima istanza contro il nemico, lasciando poi agli spagnoli il compito di intervenire quando l’avversario fosse stato fiaccato e indebolito.

    Cortés spronò il cavallo e risalì la lunga teoria degli spagnoli. Si affiancò a Pedro Alvarado, che cavalcava a fianco del gruppo degli archibugieri. Pedro Alvarado era ormai famoso tra gli indios, che lo avevano ribattezzato Tonatiuh, il sole, per la barba e i capelli rosso fuoco che gli incorniciavano il volto: un colore raro tra gli spagnoli, assolutamente inimmaginabile per gli indios dai capelli corvini, se non – appunto – come attributo di un dio. Cortés provò a saggiarne le impressioni sul massacro, ma per Alvarado non si era trattato di niente di più che una battuta di caccia un po’ più ricca e fruttuosa del solito.

    «Fin troppo facile» disse Alvarado ridendo. «Non scappavano nemmeno! Sembravano non capire quel che stava succedendo. Gli puntavo contro la picca, e quelli neanche tentavano di scansarsi! Neanche l’istinto delle bestie!»

    E ancora una volta Cortés si trovò a pensare che Alvarado poteva essere lo strumento ideale per la conquista: sanguinario, ma tanto stupido da non poter essere neppure crudele, e meno che mai preda di rimorsi o di ripensamenti. Tutto per lui era un gioco: lo stesso gioco del bambino che distrugge il castello costruito con la sabbia, o che – più grandicello – tortura con incoscienza la lucertola catturata col lacciolo.

    «... Per non parlare delle armature! Cotone imbottito e piume d’uccello! Hai visto la mia spada? Dopo tutti quelli che ho infilzato, la punta e il filo sono ancora intatti come se l’avessi usata per tagliare il pane!» E scoppiò nella fragorosa risata con la quale concludeva sempre le sue battute, o quelle che egli riteneva tali.

    Cortés spronò ancora il cavallo, risalì di un centinaio di passi la fila dei soldati, con qualche parola di incoraggiamento e di lode per quelli che più si erano messi in luce, informandosi sulle ferite ricevute in battaglia. La tendenza degli indios a non uccidere i nemici, ma di farli semmai prigionieri per sacrificarli agli dei, presentava naturalmente dei vantaggi: tra un indio che tentava di far prigioniero uno spagnolo, e lo spagnolo che cercava di ucciderlo, accadeva regolarmente che arrivasse primo lo spagnolo. Pochissimi tra gli uomini di Cortés avevano subito ferite di una qualche entità: i più non lamentavano che scalfitture o contusioni insignificanti, causate più dalla loro foga che dall’azione o dalle reazioni del nemico.

    Cortés si affiancò a Juan de Mesas, detto l’italiano per la sua partecipazione alle campagne d’Italia, responsabile dell’artiglieria. Lo elogiò per l’efficacia con cui cannoni, colubrine e falconetti avevano operato durante il massacro. L’artiglieria non aveva subito alcun danno, tutti i pezzi erano perfettamente integri, ma prima di affrontare la spedizione verso il Messico sarebbe stato utile fare buona scorta di polveri, e – soprattutto – badare a una loro migliore protezione contro i violenti scrosci di pioggia che si abbattevano improvvisi in quella regione.

    Poi, Gonzalo de Sandoval, il più giovane, l’unico tra i capitani che non possedeva un cavallo e che procedeva a piedi a fianco dei soldati ai suoi ordini. Era stato per lui, se non proprio il battesimo del fuoco, il primo incontro con l’impari carneficina; e a Cortés premeva valutarne le reazioni.

    «E allora, Gonzalo: com’è andata?» gli chiese, tanto per introdurre il discorso.

    La risposta di Sandoval fu un ampio sorriso.

    «Giudica tu!» disse, facendo tintinnare la borsa che portava appesa alla cintura. «Una libbra almeno, tra anelli e collane varie! Se questa è solo l’anticamera del Messico...»

    Benissimo! pensò Cortés: evidentemente non si era sbagliato, quando lo aveva preso con sé, malgrado la giovanissima età. Un buon soldato, che non avrebbe creato problemi.

    Ancora un tratto al galoppo e Cortés si trovò tra le file della retroguardia dei totonachi. Nel folto gruppo delle donne al seguito degli indios e degli spagnoli, Miguel de Salcedo, detto il galante, aveva cortesemente ceduto il suo cavallo a una formosa damigella di nobili origini, ricevuta in dono in una recente occasione, e procedeva ora al suo fianco, reggendo le briglie del destriero. Miguel stava informandosi sul come si chiamassero in lingua nahuatl quelle parti del corpo alle quali soprattutto era interessato: e ripeteva «tipìli, tipìli» e «tepùli, tepùli», cercando di mettere bene a fuoco la pronuncia, tra le risate divertite delle donne.

    Vedendo Cortés, pensò bene di metterlo al corrente dei suoi progressi.

    «Ehi, generale, guarda cos’ho imparato!» gli gridò. Poi, rivoltosi a una giovane donna che lo seguiva, le chiese – aiutandosi con i gesti – se il suo tepùli avrebbe potuto essere ospitato nella sua tipìli.

    Cortés lasciò in fretta quel frivolo segmento dell’esercito in marcia, sopravanzò la schiera delle donne e affiancò una lettiga – portata a spalla da quattro tamanes – sulla quale stava mollemente adagiato Francisco Ortiz, che cantava accompagnandosi col liuto una vecchia canzone provenzale.

    Al cor m’estai l’amoros desiriers

    que m’alleuja la gran dolor q’ieu sens...

    Alcuni giovani lo ascoltavano estasiati, scrutandone i movimenti delle dita come a carpire il segreto di quelle armonie. Ma come vide Cortés, il musico interruppe il canto e, dopo un cenno di scuse agli ascoltatori, scese dalla lettiga e gli camminò di fianco: con tono giulivo gli spiegò che aveva fatto amicizia con due totonachi appassionati di musica, che si erano interessati molto al suo liuto e che lo stavano trattando con tutti gli onori: di qui la lettiga, i ventagli scacciamosche e le grandi coppe schiumose di cioccolato che gli offrivano di continuo.

    «Vuoi sentirne una bella?» disse a Cortés. «Sai quel loro tamburo che chiamano teponatzli e che ci siamo sempre chiesti come diavolo è accordato...? Be’, sta’ a sentire.»

    Si rivolse a uno dei due giovani di fianco alla lettiga, armato appunto di tamburo, e gli fece cenno di suonarlo. Il giovane diede alcuni colpi con un bastoncino, variando con una mano la tensione della membrana, in modo da produrre con le note una sorta di scala. Il musico guardò Cortés, con aria divertita, come a gustare la sorpresa di lui.

    «Hai sentito? È una scala ipodorica! Te lo saresti mai aspettato? Una scala i-po-do-ri-ca! Incredibile! Praticamente è il modo eolico! Hai capito? Questi selvaggi sgozzano i bambini e poi scrivono musica nel modo eolico!»

    Cortés si guardò bene dal far capire quanto la cosa gli era incomprensibile e lo lasciasse del tutto indifferente: con una smorfia di sorpresa e di ammirazione ricambiò Ortiz per gli orizzonti che gli aveva aperto e si sfilò dalla lunga teoria dei totonachi. Vide ancora passare il composto gruppo dei religiosi, che sul ritmo della marcia scandivano i loro interminabili rosari, e poi Bernal Diaz del Castillo, che anche a cavallo prendeva appunti su fogli di carta di maguey.

    «A forza di scrivere ti dimenticherai di far bottino!» gli gridò Cortés, sorridendo.

    «Un giorno scriverò la storia di questa crociata!» gli rispose Bernal Diaz battendo la mano sugli appunti. «E tu dovresti essermene grato, capitano: che cosa sarebbe Achille senza Omero?»

    «Bella risposta, lo riconosco. Ma Alessandro il Macedone non ha avuto bisogno né di aedi né di cronisti!»

    «Anche questo è vero!» ammise Bernal Diaz. «I condottieri vivono di luce propria. Ma i poveri soldati senza nome...?» e fece un gesto a indicare quanti gli camminavano accanto.

    «Diciamo allora» concluse Bernal Diaz, «che scriverò una storia in cui anche i soldati senza nome abbiano il loro posto.»

    Il sole nel frattempo era salito alto nel cielo, aveva raggiunto lo zenit e i suoi raggi si erano fatti cocenti. Il cacicco alla guida dei totonachi propose a Cortés una sosta di qualche ora, per permettere ai soldati di rifocillarsi, e riprendere il cammino sul far della sera. Cortés acconsentì e i totonachi scelsero per la sosta una grande radura sulle rive di un lago, alle cui spalle si stendeva una grande macchia naturale di agavi.

    I tamanes deposero il loro carico e si sdraiarono esausti a rifiatare o cercarono ristoro nelle acque del lago. Le truppe dei totonachi si accamparono al fianco degli spagnoli, accanto alla macchia delle agavi. Un’atmosfera di incuriosita cordialità si era stabilita tra i due popoli così diversi e così reciprocamente misteriosi. E pur senza raggiungere il grado di consonanza che Francisco Ortiz aveva trovato con gli indios sotto l’insegna del comune amore per la musica, molti erano coloro che su un qualsiasi dettaglio, su una qualsiasi apparenza di somiglianza o di analogia, avevano stretto amicizia con qualcuno dei totonachi. A gesti cercavano di farsi capire, a gesti proponevano piccoli commerci e scambi di oggetti, o piccole sfide. Fernando Otroa, detto Ercole, un catalano di enorme statura, che una volta aveva raddrizzato a forza di braccia un’ancora distorta dalla furia di una tempesta, si era fatto amico del più grande e grosso dei totonachi, un colosso di nome Zocotlan, e lo aveva sfidato a braccio di ferro. Attorno all’evento si era subito organizzato un piccolo giro di scommesse, al quale per la verità avevano partecipato soltanto gli spagnoli. I primi cimenti erano stati vinti da Otroa, ma Zocotlan aveva dimostrato più resistenza e a un certo punto aveva preso il sopravvento. Otroa aveva cercato allora di spiegargli come e qualmente sarebbe stato meglio mettersi d’accordo, guidare con più sagacia l’esito degli scontri, in modo da animare il giro delle scommesse, magari pretendendo una quota delle vincite. Ma Zocotlan non aveva assolutamente capito il problema, continuava a vincere, finché ovviamente le scommesse non ebbero più senso e Fernando Otroa abbandonò la partita, sbuffando contro quel selvaggio che non riusciva a capire un trucchetto che qualsiasi ragazzino di Toledo avrebbe compreso al volo.

    Non tutto, naturalmente, si ispirava alla bontà dei cavalieri anticui, o dei semplici soldati che quando non sono costretti ad ammazzarsi tra di loro si scoprono simili e fratelli. Molti tra gli spagnoli avevano cercato di coinvolgere i totonachi nel gioco dei dadi: e dopo spiegazioni più o meno lunghe e laboriose, avevano cominciato a giocare, persuadendoli a puntare oggetti e monili d’oro che regolarmente perdevano passando quindi di proprietà. Ma qui, per la verità, era intervenuto personalmente Cortés. Il comandante – giustamente preoccupato dei rapporti con gli alleati – aveva minacciato i suoi soldati di far controllare i dadi, se non restituivano immediatamente il mal tolto ai totonachi; e il gioco dei dadi si era arrestato qui.

    In riva al lago, sotto un riparo di teli di cotone e di frasche, eretto a protezione dai raggi del sole, Cortés sedette a tavola. Era questa una delle sue abitudini più singolari: da buon capitano, egli non sfuggiva a nessuna delle fatiche e delle privazioni che comporta la vita militare, e si faceva il dovere di non chiedere mai ai suoi soldati nulla di cui egli non fosse in grado di dare l’esempio. Ma aveva un’alta concezione del proprio ruolo di rappresentante della Corona di Spagna, e non rinunciava mai, ove appena possibile, alla forma esteriore che si conveniva a questa dignità. La rozza tavola era pertanto ricoperta di un’elegante tovaglia di lino di Fiandra, le stoviglie che vi figuravano erano di porcellana e di peltro, portate a spalla dai tamanes, in una cassa imbottita, al pari dei cannoni e delle provviste di polveri. Egli sedeva sulla ricca sedia a braccioli, di legno pregiato, sui cuscini di velluto cremisi ricamati d’oro, che era la stessa con la quale aveva sempre ricevuto le ambascerie degli aztechi e gli omaggi dei popoli assoggettati. Anche qui, in quest’ampia radura sulla riva del lago, addossata alla folta macchia delle agavi, la tavola di Cortés protetta dalla tettoia di frasche sembrava quasi evocare antichi banchetti di sovrani e paladini: i grandi seduti al desco, serviti da coppieri e marescalchi, e attorno a loro lo sparso gregge dei soldati e degli umili...

    Alla tavola di Cortés sedevano Marina, i capitani liberi dai compiti di sorveglianza o dalle altre corvées, i religiosi e alcuni dei totonachi di maggior rango. Soldati spagnoli e servi indios portarono focacce di mais, selvaggina, tazze di cioccolato fresco e spumeggiante, grandi foglie d’alberi tropicali pieni di frutta e calici di octli – buono quasi come il vin di Spagna – che gli spagnoli ribattezzarono aguamile. La colazione durò a lungo, tra conversazioni su vari temi, che vide Marina e padre Aguilar molto impegnati a far da interpreti tra indios e conquistadores. Alla fine, il tutto fu allietato dall’intervento di Francisco Ortiz, che con il liuto e la voce improvvisò un’elegante sarabanda in modo eolico, accompagnato da un tamburino indio opportunamente istruito. Francisco Ortiz era raggiante: ai pochi disposti ad ascoltarlo, illustrò le grandi possibilità che si aprivano alla musica con l’incontro di queste due culture così diverse e pur così ricettive l’una nei riguardi dell’altra. E poiché padre Olmedo lo invitava alla cautela, ricordandogli gli scempi operati dai giullari con le canciones profane sulle sequenze alleluiatiche, si lanciò in una filippica contro la Chiesa cattolica e il suo ottuso rifiuto di ogni novità, ricordando che Davide lodava Dio con le nacchere e i cimbali, laddove Gregorio VII – tanto per non far nomi! – non aveva saputo far di meglio che legare all’altare di san Pietro i sette canti tradizionali della Chiesa primitiva, come a significare che quello era Rhodus e che lì si saltava, e chi non era d’accordo poteva andare a scopare il mare!

    «E voi, padre Olmedo» riprese poi con foga dopo una necessaria fase di inspirazione, «voi, che avete ricevuto in dono da Dio una voce... discreta, diciamo pure una bella voce, dovreste stare dalla mia parte, invece di rompere i coglioni con la cautela. Con la cautela, saremmo ancora tutti a Cuba, a farci delle belle seghe, con rispetto parlando...» – quando Ortiz perdeva le staffe scivolava immediatamente verso un linguaggio da trivio – «... e io vi assicuro che prima della fine della nostra avventura questi selvaggi canteranno e suoneranno con noi, alle nostre sante messe del cazzo, con i loro strumenti e le loro scale ipodoriche! E voi, se vi è restato un minimo di onestà tra capo e culo, riconoscerete che è la bella musica che sale in cielo, e non le scorregge dei cardinali di Roma!»

    Padre Olmedo si apprestava a rispondere, rivoltandosi forse involontariamente le maniche della tonaca... ma a quel punto Cortés si era già alzato da tavola e, presa per mano Marina, si era diretto verso l’ombra delle agavi. Di musica capiva poco e quella dotta discussione non lo interessava minimamente.

    Cortés era sdraiato sull’erba, all’ombra di un’agave gigante. Accanto a lui, seduta con le ginocchia ripiegate, Marina guardava il sole tra le foglie, quasi giocando a rimpiattino con i raggi. Fingendo di dormire, Cortés osservava di tanto in tanto il volto della giovane donna che lo aveva stregato con la sua appassionata istintività, con la sua naturalità così libera e selvaggia...

    Pur nel gioco infantile che andava conducendo con le luci e le ombre, l’espressione della donna era assorta. Marina aveva assistito al massacro con totale indifferenza, senza un attimo di cedimento né all’orrore, né alla pietà. E ancora una volta Cortés si sorprese a chiedersi che cosa mai ci fosse dietro quel viso bellissimo, così vivace di espressioni diverse, sereno e malizioso, con quegli occhi accesi di un’illimitata gioia di vivere... Cortés sapeva – perché essa glielo aveva narrato – quali lacerazioni aveva subito la sua infanzia: rinnegata dalla madre, violentata dal patrigno, venduta al primo offerente e passata poi di mano in mano, vittima della sua stessa bellezza, che prima l’aveva esposta alle voglie dei tanti padroni e poi l’aveva trasformata in un dono prezioso per gli tzueles, gli stranieri dalla pelle bianca, venuti dalla casa del sole nascente. Essa gli aveva anche narrato delle cento volte nelle quali aveva pensato di uccidersi, per sottrarsi a quella disumana esistenza di oggetto senz’anima, concupito e disprezzato al tempo stesso: gettandosi da un dirupo, o lasciandosi andare alla corrente di un fiume, o esponendosi alle belve di una foresta. Oppure – ancora – squarciandosi il petto con un coltello d’ossidiana offrendo il suo sangue agli dei, come a placarli e a ottenerne in cambio la pace... Ma sempre, al di là della momentanea tentazione della morte, aveva prevalso il desiderio di vivere, la speranza di una vita diversa, la volontà della vendetta. «Solo allora Marina felice» gli aveva detto un giorno, interrompendo i gesti dell’amore per fargli giurare che li avrebbe uccisi tutti: tutti gli aztechi, tutti gli uomini con la pelle del suo stesso colore, i capelli corvini, il naso arcuato, le grosse labbra, i grandi occhi tristi... Tutti gli uomini, e non solo: tutti quelli che un giorno lo sarebbero diventati, tutte le donne che li avevano generati o che altri si prestavano a generarne...

    Un odio invincibile, un insaziabile desiderio di vendetta, che mai avrebbe comunque potuto ripagarla di quel che aveva subito, e che sempre le avrebbe lasciato la bocca amara e le mani vuote, come di fronte a un miraggio svanito nel nulla. C’era poi stato l’episodio di Guatzocinga: il giovane azteco che aveva turbato Marina – di questo Cortés era sicuro! – e che lei aveva prima tradito e poi per un attimo tentato di salvare... E il folgorante suicidio di lui... E l’immagine di lei in quell’istante: i pugni serrati a dominare l’improvviso tumulto, le labbra strette a soffocare forse un sentimento di dolore, il volto rigido a nascondere ogni emozione, o – forse – emozioni troppo gravose sull’animo perché anche l’espressione esterna trovasse l’energia di adattarvisi.

    Che cosa c’era stato tra i due giovani? Che cosa non c’era stato? Quando li aveva visti e aveva capito; quando aveva visto quel ragazzo pronto a subire la tortura e lei tremare per un attimo, per lui, e sussurrare, «... Voleva salvarmi...», egli improvvisamente si era sentito estraneo, un intruso, nel mondo che si era rivelato tra i due giovani. Cortés era stato dolorosamente colpito – e il dolore continuava a perseguitarlo – dalla sensazione che quei due esseri umani in qualche modo si appartenessero, o che avrebbero dovuto appartenersi: giovani allo stesso modo, belli allo stesso modo, affini e simili l’uno all’altro come mai lui avrebbe potuto essere con quella che pure era la sua donna, amata e innamorata. Tutto era finito, certo: tutto sarebbe stato a poco a poco sepolto, sempre più lontano nel ricordo fino a sparire del tutto, o quasi del tutto... Ma quel breve incubo gli bruciava ora nell’anima come una ferita inferta senza pietà, ma in qualche modo ineluttabile e giusta.

    Marina si voltò all’improvviso e vide i suoi occhi aperti che la fissavano. Lo guardò con aria interrogativa, ma Cortés ancora una volta ricacciò in gola la domanda che cento volte era stato sul punto di farle, ma che sapeva che mai le avrebbe fatto.

    Fu Marina a parlare.

    «Voglio un figlio!» disse. «Voglio un figlio da te!»

    II

    Notizie da Cuba

    «Oh, lope luzio! Ah, lope luzio! Uh, lope luzio

    Il cacicco grasso si precipitò lungo la scala che fronteggiava la sua bella casa circondata di fiori, con tanta foga che inciampò e completò la discesa ruzzolando. I servi gli furono attorno premurosamente e anche Cortés smontò dal cavallo preoccupato per quell’ammasso di carne che gli era scompostamente caduto davanti. Ma il cacicco grasso, non appena aiutato a rimettersi in piedi, allontanò tutti da sé: malgrado sanguinasse abbondantemente per un taglio alla testa e avesse i gomiti e le ginocchia tutti sbucciati e sporchi di terra, non pensò ad altro che ad abbracciare Cortés, riversando su di lui un torrente di parole che Marina ebbe il suo daffare a tradurre, ma che sostanzialmente esprimevano un’irrefrenabile gioia infantile nel rivedere un amico, fino a poco prima dato per morto.

    «Ah, grande signore! Lope luzio, amico mio...!» Lo guidava verso la casa, arrampicandosi goffamente lungo la scala di pietra affiancata dalle aiuole fiorite, già cominciando a narrargli le pene provate per amor suo.

    «Mai avrei creduto di poterti rivedere, quando ho saputo che gli eserciti di Montezuma si apprestavano a far di Cholula una grande trappola per te! Io te l’avevo detto, grande signore dalla pelle bianca: non fidarti dei cholultechi! Meglio un morto in casa che un Cholulatl alla porta! E da noi si usa dire che i detti della nonna sono la saggezza delle tribù: non so se nella vostra lingua c’è qualcosa del genere...!»

    Nell’atrio della grande casa, il cacicco grasso gli fece vedere che sul piccolo altare dei numi tutelari, assieme alle statuine di Huitzilopochtli e della teciciguata Vergine Maria, figurava anche un’effigie in gesso del lope luzio Hernán Cortés, dipinta a colori vivaci.

    «Come vedi, ti avevo riservato il massimo degli onori che le nostre usanze tributano ai morti. Eppure, credimi: mai ho gettato al vento o alle acque la speranza di rivederti. E molte volte ho chiesto alla vostra teciciguata, anche offrendo notevoli cifre di cacao e di mais, di proteggerti e di farti tornare. Però, devo anche confessarti una cosa, amico mio dalla pelle bianca: i tuoi dei saranno potentissimi, ma l’altro ieri ho sacrificato quattro vecchi prigionieri a Huitzilopochtli e immediatamente dopo mi è giunta la notizia che tu eri sano e salvo e che stavi tornando a Cempoalla!»

    «Avete osato far questo?!» esclamò Cortés aggrottando le ciglia.

    «Oh, lo so, lo so che avevi proibito i sacrifici! Però, ascolta, lope luzio: non puoi negare che in questo caso ho ottenuto il mio scopo, e probabilmente ti ho salvato la vita. D’altra parte noi diciamo – non so se lo dite anche voi, magari con altre parole – chi lascia la via vecchia per la nuova, male si trova! Non ho nulla contro il tuo dio, ma forse sono troppo abituato ai miei vecchi dei...»

    Aveva fatto sedere Cortés su una comoda amaca, e aveva ordinato ai servi di portare subito la cioccolata. Una bella coppa spumeggiante per l’ospite spagnolo, una bella coppa spumeggiante per sé, con grandi fette di pasticcio di mais, spalmate di miele.

    «Sono perfino ingrassato per la preoccupazione e il dispiacere, lope luzio! Perché io sono fatto così: quando ho qualche dispiacere mi metto a mangiare. Credo sia un modo per distrarre la mente grazie al lavoro dello stomaco. Ma anche le gioie mi danno molto appetito, e da quando – or sono due tramonti – mi è stato annunciato il tuo ritorno, non faccio che mangiare. Ma è molto diverso mangiare per la gioia che mangiare per soffocare un dispiacere!»

    Anche Cortés era contento di rivedere il cacicco grasso: l’unica persona del Nuovo Mondo – al di fuori naturalmente di Marina – per la quale provasse simpatia e il piacere di stare insieme, ascoltarne l’antica saggezza e i preziosi consigli.

    Cortés era tornato a Cempoalla per permettere ai suoi soldati di riposare un po’ prima del decisivo assalto al Messico, e per completare i rifornimenti, soprattutto delle polveri per le armi da fuoco. Di lì sarebbe ripartito dopo pochi giorni, con la consueta scorta di tamanes e di guerrieri indios, per risalire verso l’altopiano e verso la repubblica di Tlascala, in cerca di una preziosa alleanza.

    «I tlascaltechi sono diffidenti per natura» lo avvertì il cacicco grasso, «e tu dovrai stare attento a usare parole di miele. Non aggredire i loro dei e non distruggere i loro simulacri. Lascia perdere la questione della sodomia, che anche per i tlascaltechi è una cosa strettamente privata. E sii un po’ tollerante anche per quel che riguarda i sacrifici umani. In primo luogo, perché un nostro antico detto dice tribù che vai, costumi che trovi, non so se avete anche voi qualcosa del genere nella vostra lingua...»

    «Un costume inumano, incivile... Combatterlo è una guerra santa!» tentò di reagire Cortés. Ma il cacicco grasso ebbe una smorfia annoiata.

    «Sì, sì, lo so, lope luzio, me l’hai già detto mille volte. Ma in fondo – e questa è la seconda cosa che volevo dire – fate più morti voi con questa vostra guerra santa che noi con i nostri sacrifici... Insomma, lope luzio, devi stare un po’ più attento a non frantumare le sfere agli altri: non so se anche voi nella vostra lingua...»

    Il cacicco grasso non la finiva più di dare a Cortés consigli su come comportarsi, di fare l’elenco delle difficoltà che avrebbe incontrato a causa della sua scarsa conoscenza dell’ambiente e delle mentalità locali e di mostrarsi estremamente scettico e perplesso sulle sue possibilità di successo: i tlascaltechi erano scontrosi e sospettosi, Montezuma troppo ben informato e

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