Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Lucertole
Lucertole
Lucertole
E-book271 pagine3 ore

Lucertole

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un libro che racconta molte storie e vite, tanti nomi e voci differenti, intravisti in un passaggio talmente rapido da renderle a malapena visibili. Un inno alla vita, alla sua cocciuta determinazione nella costante e impari lotta contro la morte e il dolore. Elena, Alejandro, Fabio... Volti, gesti e scelte esistenziali che sono troppo grandi e veri per poter essere rinchiusi dentro la definizione di un ruolo, dentro il camice verde intravisto di sfuggita in un ospedale; ma soprattutto troppo umani e straripanti per poter essere arginati da una frontiera, dalla miopia delle convenzioni sociali o semplicemente dalla paura di ciò che potrebbe accadere.
LinguaItaliano
EditoreGM Libri
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788855289085
Lucertole

Correlato a Lucertole

Titoli di questa serie (8)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Lucertole

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Lucertole - Laura Minguell Del Lungo

    3,19)

    1

    Lucertole

    Ci chiamano lucertole. Strisciamo lungo le pareti, silenziose e rapide verso il nostro obiettivo. Viviamo nei bassifondi dell’ospedale, là dove pochi osano e tutti si perdono, là dove non batte mai il sole, né il vento; là dove si vive un’eterna notte o un eterno giorno, dove le stagioni sono perenni e indifferenti.

    Abbiamo la nostra divisa verde tatuata addosso. Poco conta che fuori ci sia il sole o che nevichi, che sia l’alba o il tramonto: noi siamo sempre là, animali a sangue freddo, ad affrontare ogni situazione, a combattere la nostra lotta quotidiana contro la morte.

    Nello sforzo di superare le difficoltà, tra la previsione dell’errore, che è sempre dietro l’angolo, e l’imprevisto che ci assale, dimentichiamo tutto il resto. Anche noi stessi.

    Incrociamo le vite di tante persone, entriamo dentro alle storie degli altri e le facciamo nostre.

    A volte dobbiamo rinunciare a qualcosa che è davvero nostro, per riuscire a gestire tutto il resto.

    La nostra partita è sempre aperta su più fronti: la morte, il paziente, le complicanze, i familiari, i chirurghi, gli infermieri; ma anche le nostre vite personali.

    I pensieri e i ragionamenti si incrociano e si intersecano continuamente, entrando e uscendo dalla sala operatoria, mentre noi siamo sempre lì. Così a volte, mentre pensiamo a come risolvere la questione con l’avvocato, ci capita di indurre un’anestesia; mentre ci telefonano dalla scuola di nostro figlio per comunicarci una febbre improvvisa, stiamo risolvendo un’aritmia maligna.

    È un fenomeno bidirezionale.

    A volte, nel posizionare un catetere epidurale, il pensiero ondeggia spontaneo verso lontane vacanze estive o verso il ritornello di una canzone rimasta in testa. Mentre coordiniamo la rianimazione in un arresto cardiaco, può essere sorprendente il modo in cui una canzone si possa fissare con la sua ritmicità nel nostro cervello.

    E mentre ingoiamo le lacrime delle nostre tristezze personali in un silenzio imperscrutabile, possiamo ritrovarci a sorridere con rassicurante dolcezza a un bambino spaventato.

    Ma tutta questa vita interiore non traspare.

    La vera lucertola non muta la sua espressione, non muta il suo cuore. La vera lucertola rimane immobile di fronte alla preda senza far trapelare alcuna emozione, e quando è il momento agisce: decisa, precisa e rapida.

    Noi lucertole abbiamo sempre tanti fronti aperti.

    La lucertola in sala operatoria deve sapere in ogni momento cosa sta provando il suo paziente, di cosa ha bisogno il chirurgo, che effetto stanno facendo i farmaci somministrati, quale sarà il medicinale e la dose da dare tra pochi secondi.

    Pur non vedendo il campo operatorio, sa che l’odore di pollo arrosto significa che l’elettrobisturi sta andando; e se sente quell’olezzo acre e sintetico che ricorda l’acetone, sa che l’ortopedico sta cementando la protesi. Distingue l’odore che permea la sala operatoria in corso di taglio cesareo dal puzzo disgustoso di un intervento per occlusione intestinale.

    La lucertola, in terapia intensiva, deve seguire contemporaneamente molti fenomeni patologici complessi, tra i bip di molteplici monitor che spesso danno allarme, il telefono che squilla, l’infermiere che chiede, il parente che piange e la morte che fa l’occhiolino da dietro l’angolo. Riconosce la peste inconfondibile del sangue nelle feci, dall’odore ripugnante della gangrena, solo entrando in un box.

    Noi lucertole dobbiamo ascoltare il battito del cuore del paziente e sapere se quel cambio di tono è significativo; dobbiamo sapere se la frequenza cardiaca è aumentata perché avverte dolore, perché l’ipnosi è insufficiente o perché sta perdendo troppo sangue. Dobbiamo sapere in ogni momento tutto quello che sta succedendo intorno a noi, in uno stato di perenne veglia, di perenne attesa di qualcosa che probabilmente sta per succedere e che speriamo non succeda mai. Il lavoro della lucertola è logorante, estenuante, alienante. Sempre sole, le lucertole, ma alla vista di tutti.

    Per avere una buona giornata, la lucertola deve sperare che questa sia noiosa.

    Se non succede nulla va tutto bene.

    Ma quando succede qualcosa, la lucertola sa sempre cosa fare. Deve fare. Non può fare altrimenti che fare.

    Noi anestesisti siamo verdi e veloci come le lucertole, scattanti. Ci muoviamo da sotto il nostro sasso solo per necessità, solo quando dobbiamo agire. Poi scompariamo di nuovo sotto al sasso.

    Il nostro habitat, nei bassifondi, è asettico e impersonale. Ci vivono creature abituate alla manipolazione di corpi e organi, dove gli esseri umani diventano modelli scomponibili in parti da aggiustare.

    Gli abitanti di questa zona non temono nulla e prevedono tutto, hanno pazienza ma sanno correre; sono meticolosi e accurati nella preparazione e nella prevenzione, ma capiscono quando è giunto a sorpresa il momento di improvvisare. Gli animali che condividono con noi spazio e strategie appartengono a specie diverse: non vivono solo lucertole nei bassifondi.

    Ma noi, le lucertole, lì ci siamo sempre. Perché senza di noi non esisterebbe questo bassofondo bianco e abbagliante, dove il freddo è costante e il silenzio è riempito da rumori elettronici. L’ospedale non potrebbe funzionare senza lucertole: serviamo sempre.

    Tutti ci cercano, quando sono nei guai.

    Tutti ci ammirano durante l’azione, ma nessuno sa esattamente che cosa facciamo.

    Spesso veniamo ignorati, come le lucertole quando sgusciano rapide sul muretto accanto al passante. Ci vedono passare senza realmente vederci.

    A volte è proprio così: come se nessuno ci vedesse, nessuno si ricordasse di noi. Neanche quelli a cui salviamo la vita. Andiamo a caccia e subito scompariamo sotto la roccia.

    Ma pochi sanno che noi lucertole siamo le guardiane dell’Aldilà; noi forniamo il passaggio a chi vuole tornare tra gli umani e possediamo la ricetta per la loro morte e resurrezione. Vendiamo un viaggio nell’interregno, sospeso tra la vita e la morte. Lo vendiamo a prezzi stracciati, al costo di una cena al ristorante.

    La partenza è sempre ricca di emozioni e paure, al ritorno invece i nostri viaggiatori sono tutti mezzi addormentati. Come bimbi sul pullman di ritorno da una gita scolastica.

    Quando ci presentiamo ai nostri clienti, loro quasi sempre ci chiedono di dirimere dubbi e paure, ma poi quasi mai si ricordano di noi. Quando si affidano a noi, i nostri pazienti, quasi mai sono consapevoli che quella persona in pigiama verde, quella lucertola frettolosa, sarà il loro angelo custode. Ci vedono solo come animali da sala operatoria, sfuggenti e inespressivi.

    2

    Elena

    Elena viveva a Barcellona da qualche anno, vicino all’antico mercato di Santa Catalina.

    Era passata prima per Berlino, dove si era potuta fare un’idea dello stile di vita europeo. Ma il clima tedesco era per lei troppo freddo e continentale, essendo nata in Messico. Aveva conosciuto prima Acapulco, sua città natale, e poi la capitale.

    Aveva sposato un giovane e promettente imprenditore tedesco, conosciuto a San Francisco; si erano poi rivisti qualche volta a Houston, quando lei andava con la famiglia a trovare una certa zia texana, Rosemary, e avevano compiuto assieme un lungo viaggio in Italia: Venezia, Firenze e Roma. Le tappe degli innamorati.

    Si erano allora sposati a Las Vegas, dopo un anno e mezzo di fidanzamento a distanza, infrangendo i sogni del padre di lei, che desiderava per la primogenita un matrimonio da favola.

    Del resto il dottor Castaño, un rinomato e facoltoso pediatra di Acapulco, aveva cresciuto ed educato le sue splendide figliole come se fossero due principesse: costosi abiti firmati a cominciare dai primi pigiamini, istituti scolastici di eccellenza, autista in limousine per ogni minimo spostamento, amicizie selezionate e grandiosi progetti di vita.

    Elena era destinata a sposarsi con il figlio di un collega e amico del dottor Castaño, il dottor Mendez, che aveva otto figli e otto case ad Acapulco, una per ogni figlio. Per sé e per la sua quinta moglie, il dottore aveva infatti tenuto da parte una fantastica villa con piscina a Hollywood, pronta per il pensionamento.

    Il dottor Mendez era un nostalgico franchista, che aveva lasciato la Spagna quando il regime era crollato, e aveva fatto fortuna in Messico come chirurgo plastico, rifacendo labbra e seni alle ragazzine colombiane e trasformando migliaia di ragazzini brasiliani in splendide transessuali.

    Il suo ultimo discendente, Alejandro, era figlio di una ragazza brasiliana senza passato e con una sola ambizione, conosciuta in un postribolo di Caracas e con la quale l’illustre dottor Mendez aveva voluto togliersi un capriccio di mezz’età.

    L’aveva sposata con un pancione di sette mesi, dopo che lei era riuscita a rintracciarlo per dirgli che l’avrebbe reso padre. Quel giorno lui trattenne a stento le risate, pensando ai suoi sette figli legittimi, per non far menzione di quelli illegittimi. Ma in definitiva, della quarta moglie si era già stufato e per lui non rappresentava un problema mantenere un’altra coppia madre-figlio. Diciamo che ci aveva fatto l’abitudine. Così accolse la squattrinata brasiliana nella sua vita e le fece costruire una reggia.

    Alejandro nacque come un re, lo stesso giorno di Elena, giusto qualche ora prima, e con lei passò la maggior parte della sua infanzia. I due ragazzi erano inseparabili amici, compagni di giochi e confidenti. Entrambe le famiglie pensavano che si sarebbero sposati, e che un giorno sarebbero andati a vivere nella casa numero otto.

    Quando all’età di diciassette anni Alejandro dichiarò a suo padre la propia omosessualità, il pover’uomo dovette far ricorso a tutte le proprie risorse di autocontrollo per evitare di aggredire il ragazzo con il bastone da passeggio. A breve il dottor Mendez ebbe un infarto, e restò per diversi giorni in terapia intensiva. Non si riprese mai del tutto.

    La casa numero otto fu quindi destinata alla famiglia della brasiliana, che nel frattempo si era trovata un chiquito, di nascosto da suo marito, e andò con lui a occupare la villa di Hollywood, con la scusa di esser stata scritturata per un film di Almodóvar.

    Il dottor Mendez, defraudato, deluso, detronizzato e defedato, venne accolto a braccia aperte dalla moglie numero tre (la quarta era nel frattempo morta per un’overdose di cocaina a La Havana), ma nella casa numero quattro, dove viveva con la quarta figlia. Maria Teresa, in quanto prima figlia femmina, era deputata alla cura e all’accudimento dei genitori, e pertanto destinata al nubilato.

    Alejandro, spogliato di tutti i suoi beni e della stima paterna, partì allora per gli Stati Uniti, dove conobbe la libertà della democrazia e la banalità della vita medioborghese. Girò per locali gay per qualche anno, mantenendosi con lavoretti di ogni tipo. Trovò infine la sua strada come fotografo per bambini, e andò a vivere ad Amsterdam, dove conobbe il suo compagno, un uomo di origine pakistana con due figli a carico.

    Elena perse così il suo primo e unico amico.

    Il dottor Mendez perse invece l’ottavo dei suoi figli legittimi, ma senza troppo rammarico. Alejandro, però, entrava nella mente del padre ogni volta che il chirurgo operava un transessuale. Il dolore e la vergogna erano così intollerabili che il dottor Mendez dovette ritirarsi dal lavoro prematuramente e finire i propri giorni nel suo studio, accudito da Maria Teresa e dalla madre di lei, visionando documentari sull’era franco-fascista e rivivendo i vecchi tempi.

    Alejandro lasciò indietro la sua lussuosa vita messicana senza rimpianti, sognando un mondo libero tra uguali e ricco di pari opportunità. Non pianse il ripudio del padre, che del resto non considerava tale. Infatti Alejandro aveva una pelle molto chiara, quasi trasparente, capelli color grano lisci come la seta e occhi verde scuro lievemente a mandorla; mentre il padre, il dottor Mendez, era un uomo mediterraneo, scuro, dalla peluria folta e irta, dal profilo scolpito come un egizio.

    La mamma Eliana era una ragazza mulatta, bella come una venere nera, con labbra carnose e piene, capelli arricciati in vortici minuscoli e indistinguibili. Tutti pensavano che in realtà Eliana non avesse affatto reso padre il dottor Mendez, non tanto per i figli precedenti, legittimi o illegittimi che fossero, ma piuttosto per l’evidente incongruenza genetica che dimostravano genitori e figlio. A qualcuno doveva pur assomigliare, quel ragazzo.

    Comunque l’illegittimità di Alejandro non fu mai un problema, venne invece riconosciuto e cresciuto con gli stessi mezzi riservati agli altri figli, legittimi o illegittimi che fossero.

    Non fu mai un problema, almeno fino a quando non si dichiarò omosessuale. L’integrità fascista del dottor Mendez non poteva tollerare tale abominio contro natura, e fu così che tornò ad avere sette figli legittimi.

    Non c’era contrasto tra quello che faceva per lavoro e la sua posizione nei confronti del figlio: la prima era una questione di soldi, la seconda era una questione di onore. Quanto alla propria condotta libertina... be’, si trattava di una dimostrazione di virilità e potenza.

    Alejandro, del resto, all’onore del padre non pensava affatto. Né tantomeno alla sua virilità. Partì per la propria strada con in cuore solo il peso di dover lasciare Elena.

    Amava Elena, come un fratello.

    Elena era angelica, sapeva farsi amare da tutti, e conquistava col suo sorriso sempre splendente, composto da una fila di dentini bianchi come latte e da due labbra spesse e rosse come quelle di Biancaneve. Aveva la pelle di porcellana e una parola gentile per tutti. Persino le sue compagne di classe non potevano far altro che adorarla, nonostante lei fosse l’incarnazione della perfezione, l’odiato esempio di buona condotta, ciò che ciascuna di loro avrebbe dovuto essere: bella, brava, buona, intelligente, capace.

    All’età di sette anni Elena un mattino ebbe una crisi convulsiva. Si trovava nel patio della scuola, un prestigioso collegio femminile inglese, dove le bambine venivano educate secondo i canoni vigenti: si insegnava loro a danzare, a cantare e suonare diversi strumenti musicali; imparavano a giocare a tennis e a cavalcare. Le lezioni si tenevano in inglese, e le allieve oltre allo spagnolo, imparavano il francese e il tedesco.

    Quella mattina le bambine erano agli allenamenti di atletica.

    Elena a un certo punto si era distratta a osservare una piccola lucertola che correva lungo la parete del recinto. All’improvviso ebbe una convulsione. Le sue compagne la videro, esterefatte e orripilate, cadere a terra con i bulbi oculari ribaltati, la schiuma alla bocca, tremante dalla testa ai piedi. Erano tutte terrorizzate, nessuna bambina le augurava il male.

    Il dottor Castaño fu chiamato d’urgenza sul lavoro, e si precipitò a recuperare la figlia. Le compagne e le istitutrici la osservarono andare via tra le braccia del padre, un uomo grande e affascinante, quasi invidiandola per quella protezione.

    In ospedale fu un susseguirsi di esami e visite. Il dottor Castaño eseguì personalmente la puntura lombare alla figlia, per scoprire l’origine del suo male. Tutti gli esami furono negativi, e la bimba era in dimissione.

    Ma il dottor Castaño, non ancora sereno, fece ricoverare la piccola nella migliore clinica privata di tutto il Messico, dove arrivarono con l’elicottero privato del dottore.

    La signora Castaño era un perfetto esempio di moglie messicana: bella, remissiva, molto religiosa, fatua e fragile. Arrivò sfatta dal pianto al capezzale della sua piccola, sorretta da Ely, la tata boliviana che reggeva tra le braccia la piccola Julia, la sorellina di Elena, l’altra principessa. Pregò giorni interi, e per ogni giorno di pianto accese un cero a un santo.

    Elena restò ricoverata nella sontuosa struttura ospedaliera per diversi giorni, durante i quali i medici eseguirono, sotto le direttive del dottor Castaño, tutti gli esami possibili per decifrare la causa scatenante della convulsione. Non si trovò mai nulla; la bambina era perfettamente sana, e infatti da allora non ebbe mai più crisi convulsive.

    In compenso, durante quei giorni in ospedale, Elena assistette a una scena che non avrebbe dimenticato mai più, e che segnò tutta la sua vita successiva.

    Una mattina, prima che il sole sorgesse, la piccola si alzò dal letto, in silenzio; non riusciva a dormire e si annoiava, voleva scoprire qualcosa di interessante nell’ospedale. Ely dormiva nella brandina accanto a lei, con le lenzuola tirate sopra la testa. La guardò per qualche secondo, sondando la profondità del sonno della tata e uscì dalla stanza nel corridoio bianco, da dove provenivano suoni di monitor, bisbigli e il russare leggero di bambini addormentati. In fondo al reparto c’era l’infermeria, subito prima della porta che conduceva all’atrio.

    La bambina si avvicinò cauta, sapeva che non le avrebbero permesso di avventurarsi da sola, se l’avessero scoperta. Passò in punta di piedi, nel suo pigiamino candido, sotto la barra della reception. Poi si fermò subito prima della porta, con l’orecchio attaccato alla parete, cercando di sbirciare senza essere vista. Dall’interno penetrava una luce cangiante e fioca, come di un televisore acceso; nessun suono.

    Elena osò sporgere la testa al di là dello stipite e vide la grossa infermiera Francisca addormentata sulla sedia, davanti al televisore, con la testa caduta sul petto. Passò rapida e silenziosa e si diresse alla porta, il cuore le batteva potentemente. Aprì la porta del reparto con la sensazione che una mano gigante la afferrasse per il pigiama.

    Finalmente fuori.

    L’atrio era grande e pieno di porte. Decise di prendere la scala e scese. Scendeva attraverso la tromba oscura delle scale, impaurita ed eccitata: per la prima volta in vita sua era sola, libera! Fino a quando non arrivò a un vicolo cieco: la discesa finiva. Davanti a lei c’era una porta con una targa: Emergencias y Cuidados Intensivos. La sospinse leggermente, abbassando la maniglia, e vide un corridoio semibuio con le pareti lisce e pulite. Sentiva suoni, rumori, voci. Si avvicinò, seguendoli. Passò davanti a diverse porte che lasciavano intravedere letti, monitor, tubi, corpi.

    Trovò quindi l’origine della confusione che sentiva: una porta sulla destra spalancata, da cui entrava moltissima luce, accecante. Sbirciò: un gruppo di medici e infermieri, con addosso dei camici verdi aperti sul dietro, indossavano guanti e mascherine, andavano e venivano. Portavano in mano oggetti, li buttavano, aprivano delle buste, se li scambiavano di mano in mano: flaconi, siringhe, tubi, e altri strumenti sconosciuti agli occhi di Elena. In alto si vedevano dei televisori, solcati da linee colorate, e delle luci intermittenti, alcune scritte che la bimba non riusciva a distinguere. Sentiva il suono intermittente del monitor, che segnava il battito cardiaco, irregolare, rapidissimo; poi lento, lentissimo, poi niente.

    Una voce coprì tutte le altre, imperiosa: «È in arresto!». Ci fu il panico, Elena vide un gruppo di adulti comportarsi come mai prima aveva visto: convulsi, impauriti, ciascuno sembrava sperso. In mezzo a tutta quella confusione Elena intravide un piede, un piedino piccolo di bimbo, cadere giù dalla barella. Nessuno se ne accorse. E in quel piedino immaginò un amico, una persona a cui volere bene; aveva intuito che la situazione era critica, e che i medici stavano cercando di salvare quel bambino. E lei sperò con tutte le proprie forze che ce la facessero. Un’infermiera con delle spugne in mano si accorse della gambetta scivolata giù, e la riposizionò sul lettino. Elena non vide più quel piccolo piede, però osservò il

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1