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Tra Mississippi e Louisiana. Storie di bluesman, voodoo e leggende del grande fiume
Tra Mississippi e Louisiana. Storie di bluesman, voodoo e leggende del grande fiume
Tra Mississippi e Louisiana. Storie di bluesman, voodoo e leggende del grande fiume
E-book273 pagine4 ore

Tra Mississippi e Louisiana. Storie di bluesman, voodoo e leggende del grande fiume

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Un viaggio nelle terre del Mississippi e della Louisiana, seguendo la pista del Mississippi Blues Trail, quel tratto di strada che ha rappresentato i principali luoghi di origine e di sviluppo della “musica del diavolo”.

Non una storia del Blues, dunque, ma una storia dei bluesman, delle loro ossessioni, delle loro infanzie spesso difficili, dei lori amori irrequieti, dei loro eccessi, della loro costante ricerca di dare un senso alle loro vite, della lotta tra il bene e il male, tra Dio e il Diavolo: un eterno conflitto che si svolge all’interno delle loro anime e che raccontano nei testi delle loro canzoni. Storie spesso tormentate, che si manifestano nelle note e nelle parole del loro Blues, dove il leitmotiv principale è la perdita della donna amata o l’impossibilità di trovare un amore vero e sincero.

Un viaggio fra i borghi che costeggiano il Delta, le grandi e piccole arterie d’asfalto americane, sul cui sfondo si snodano e si intrecciano altre storie legate alle ritualità ancestrali del Voodoo, ai fantasmi che infestano case o intere città, alle leggende spirituali delle tribù native, ai fiumi di sangue lasciati da killer spietati e, soprattutto, alla violenza razziale e segregazionista.

Un viaggio in luoghi sperduti e affascinanti per tentare di addentrarsi nell’anima dell’uomo e carpirne, almeno, una parte del mistero.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ago 2020
ISBN9788831687478
Tra Mississippi e Louisiana. Storie di bluesman, voodoo e leggende del grande fiume

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    Tra Mississippi e Louisiana. Storie di bluesman, voodoo e leggende del grande fiume - Diego Baldini

    gioco.

    Capitolo I

    Memphis, l' Hoodoo , il Blues di Burnside

    e l’ululato del lupo

    Questo viaggio inizia da Memphis, la seconda città più popolosa dello Stato del Tennessee e nella quale è presente la più grande comunità afroamericana dell’intera nazione, motivo per il quale è, storicamente, al centro delle rivendicazioni dei diritti civili da parte di numerose organizzazioni. È in questa città che, nel 1968, fu assassinato Martin Luter King: un tragico evento che determinò una brusca frenata a quella che stava diventando una vera e propria rivoluzione epocale per la gente di colore.

    Memphis, però, fu soprattutto uno dei centri musicali più fervidi di tutti gli Stati Uniti a partire dal Blues per arrivare al Soul, al Country e al Rock and Roll.

    La Beale Street è forse la via più nota della città ed è stata, per anni, il centro nevralgico della musica blues, grazie ai suoi numerosi Juke Joint , locali spesso malfamati dove ci si ritrovava a bere, ballare e ascoltare del buon Blues e alle varie sale di intrattenimento in cui si esibivano molti tra i migliori artisti di questo genere. Ancora oggi si possono visitare alcuni dei leggendari luoghi che contribuirono a rendere famosa in tutta la nazione, e nel mondo, questa musica.

    Andando da est a ovest, la Beale Street si estende dalla Myrtle Street al fiume Mississippi in poco meno di 2 miglia. A nord, nei pressi della Marshall Avenue (quindi all’inizio della Beale Street), si trovano i famosi Sun Studio: una mitica sala di registrazione dove hanno suonato e inciso i loro dischi numerosi artisti che hanno fatto la storia della musica, da Elvis Presley a Johnny Cash, da Jerry Lee Lewis a bluesman del calibro di Howlin’ Wolf, B.B. King e James Cotton.

    Partendo da est, la prima parte della Beale Street risulta abbastanza insignificante. La zona dei locali inizia più avanti, all’incrocio con la 4th Street, all’altezza della St. Patrick Catholic Church. Qui si passa sotto un cartellone a mezzaluna indicante proprio Beale Street – Memphis e la via inizia a diventare movimentata e decisamente interessante per la presenza di diversi pub e sale musicali tipo il Tin Roof. A live music Joint, il Blues Hall Juke Joint o il Blues City. Si incontrano anche negozi come il B.B. King’s Company Store, e locali più blasonati come l’immancabile Hard Rock Café, il B.B. King’s Blues Club e il Rum Boogie Café. Proseguendo, si passa poi sotto un alto cartellone a mezzaluna indicante Home of the Blues. Beale Street: indica la fine o, se si vuole, l’inizio da ovest della famosa via.

    In tutta la Beale Street si possono percepire le atmosfere magiche e misteriose che accompagneranno questo viaggio lungo il Delta del Mississippi. Queste atmosfere si trovano anche nei numerosi negozi che vendono, fra le varie cose, riproduzione di strani amuleti chiamati mojo, rappresentati da ossa o zampe di coniglio che richiamano alla memoria culti primordiali importati dagli schiavi provenienti dall’Africa e che nella Beale Street hanno trovato, storicamente, un loro importante centro di riferimento: si tratta dell’Hoodoo e delle sue varianti Voodoo e Conjure, che tanta influenza hanno avuto sui musicisti e nella storia del Blues.

    Quando gli schiavi arrivarono in America si portarono dietro molte vecchie credenze, superstizioni e tradizioni ancestrali. Ed è soprattutto nella zona che va da Memphis fino a New Orleans, seguendo il delta del Mississippi, che furono custoditi gelosamente i rituali esoterici e magici di guarigione dai cosiddetti dottori o, come li chiama ancora qualcuno, stregoni. I bianchi vedevano in quei riti, nel migliore dei casi, forme di superstizione pagane, un modo per ingannare i creduloni della comunità afroamericana e, nel peggiore dei casi invece, culti aventi come scopo l’adorazione del diavolo. Spesso, alcuni arrivavano a raccontare che gli stessi riti, in Africa, prevedessero anche sacrifici animali e, a volte, addirittura umani fino alla profanazione di tombe e altre diavolerie di questo genere. Per tale motivo, a Memphis come altrove, gli officianti di questi rituali, chiamati rootworkers e conjures , erano invisi alla popolazione bianca e tenuti sotto controllo dalle autorità, tanto da essere spesso accusati di truffa, spaccio di droga od omicidio. Tuttavia, per gli afroamericani le pratiche Hoodoo non erano affatto superstizioni, ed erano considerate alla pari dei riti ufficiati nelle chiese riconosciute costituendo, con essi, un unico corpo di credenze e rituali religiosi interconnessi. Infatti, molti sacerdoti appartenenti alla chiesa episcopale praticavano regolarmente l’Hoodoo .

    Memphis era diventata un punto di riferimento per queste pratiche ed era proprio nella Beale Street che si potevano trovare i più potenti mojo , ossia i già citati amuleti portafortuna dell’Hoodoo , come appunto le ossa di gatto o le zampe di coniglio. E, sempre lì, si potevano contattare i guaritori più accreditati, coloro che eseguivano i riti e gli incantesimi tipici di quella tradizione.

    Un altro centro molto attivo per tali pratiche era costituito dal Saint Paul Spiritual Holy Temple, situato nella parte sud-ovest della città, meglio conosciuto come il Villaggio Voodoo. In questa chiesa (oggi ridotta a poco più di un rudere), che presentava al suo interno anche molti simboli ermetici e massonici, si sarebbero praticati veri e propri rituali legati a queste pratiche magiche di provenienza africana. E la città di Memphis divenne, a un certo punto, quasi sinonimo di Hoodoo proprio per lo sviluppo sempre più rapido ed esteso di tali credenze. Si pensava, addirittura, che la città fosse intrisa di un potere quasi magico. Hoodoo divenne un lessico comune fra gli abitanti, non solo quelli di colore, ma anche fra i bianchi che lo utilizzavano, per esempio, nello sport come espressione di un potere speciale che poteva potare alla vittoria.

    Grazie alla presenza di numerosi e rinomati guaritori, come la mitica Caroline Dye, e alla sempre più crescente proliferazione di sette che praticavano l’Hoodoo , la città di Memphis diventò, negli Anni ’50, la Mojo City, il cui centro nevralgico era situato proprio nella Beale Street. A quell’epoca, infatti, il quartiere di cui faceva parte era il punto di ritrovo favorito degli afroamericani, in un periodo in cui l’odio razziale era ancora molto forte e radicato nella città. E la Beale non ne era immune. A volte l’odio arrivava persino lì.

    Il grande bluesman W. C. Handy, per esempio, racconta che fu testimone di un orrendo episodio: un giorno vide arrivare un gruppo di uomini bianchi che si avvicinarono ad alcuni giovani di colore. Uno dei bianchi si rivolse ai neri dicendo che avrebbero dovuto piantarla di imbrogliare i bianchi, altrimenti gli avrebbero fatto fare una brutta fine. L’uomo si girò verso uno dei suoi compagni che, in mano, teneva un grosso sacco. Questi svuotò il sacco facendo rotolare in strada la testa di un uomo dalla pelle scura: era quella di un povero malcapitato che, qualche giorno prima, era stato preso, picchiato e al quale gli erano stati bruciati gli occhi con del ferro rovente poco prima di essere ucciso.

    Nell’Hoodoo è centrale la figura di un dio onnipotente che, a seconda delle diverse tradizioni africane, è chiamato Ngai o Mawu : sarebbe lui l’artefice della creazione del mondo e il detentore delle chiavi di tutti i poteri. In un tale coacervo di credenze, uno dei pilastri è senz'altro il culto dei morti. Gli antenati defunti sono considerati come intermediari tra il regno umano e quello delle divinità celesti e possono essere portatori tanto di bene quanto di male. Li si può evocare, per acquisirne i poteri, attraverso dei rituali specifici nei quali si fa spesso uso di oggetti legati ai cimiteri, come i chiodi delle bare o la terra delle tombe. I riti Hoodoo hanno i medesimi scopi di tutti gli altri praticati in ogni parte del mondo: la guarigione da malattie, la liberazione da spiriti possessivi, la protezione della comunità, la benedizione per la fertilità e i raccolti, la fortuna nel gioco, la predizione del futuro, l’evocazione degli antenati o cose più specifiche legate ai singoli casi. Il guaritore è considerato da alcuni uno sciamano, da altri uno stregone ma, in ogni caso, la sua caratteristica resta quella di utilizzare, durante lo svolgimento dei rituali gli oggetti più svariati quali ossa, pietre, radici, piante, erbe, profumi, sale, polveri magiche, polvere da sparo, ferri di cavallo, incensi, senza dimenticare mai l’utilizzo delle candele. Come per i nativi americani, anche per gli sciamani dell'Hoodoo la nostra terra conterrebbe tutti gli elementi necessari alla guarigione: una specie di libro aperto, insomma, contenente tutte le formule per il benessere del singolo e della comunità, ma è necessario conoscerne il linguaggio per poterne decifrare i messaggi.

    La tradizione Hoodoo si caratterizza, rispetto ad altre tradizioni, per la grande importanza che viene riservata ai feticci e agli amuleti, come i già citati mojo, grazie ai quali sarebbe possibile fare del bene o del male alle persone oppure, più semplicemente, portare fortuna. Spesso il potere si evoca attraverso un incantesimo nel quale il feticcio funge da tramite tra lo sciamano e il mondo spirituale superiore. L’incantesimo è uno dei riti più praticati, tanto che nell’Hoodoo si ha la convinzione che tutto ciò che sia legato fisicamente a una persona, o ne sia semplicemente entrato in contatto, gli rimane sempre collegato in modo soprannaturale: per propiziare il rito possono essere sufficienti, infatti, una ciocca di capelli, un pezzo di unghia o un po’ di saliva. Uno dei rimedi per disinnescare l’incantesimo o il malocchio è quello di ritrovare l’oggetto utilizzato per l’incantesimo stesso e distruggerlo, oppure manipolarlo tramite formule segrete, così da indirizzare la maledizione contro chi l’ha espressa. L’oggetto è chiamato mano e la ritualità necessaria per compiere quanto desiderato è chiamata lavoro della mano sinistra, di conseguenza per annullare il maleficio si parla di lavoro della mano destra.

    I riti Hoodoo erano molto utilizzati, allora come oggi, anche per le questioni di cuore. Fra gli altri c’era quello che consisteva nel prelevare una ciocca di capelli di una donna e nasconderla in una fessura del muro o del pavimento: così facendo, la donna vittima del maleficio non avrebbe più potuto lasciare il suo uomo. Un altro rito consisteva nel mischiare un po’ di terra calpestata dall’uomo con altrettanta calpestata dalla donna che si voleva conquistare, poi spremervi sopra dell'aglio e imbrattarvi un pezzo di stoffa: quest’ultimo, una volta indossato dal pretendente, si sarebbe così trasformato nell’amuleto utile per far innamorare la persona desiderata.

    Col passare del tempo, la tradizione Hoodoo ha risentito fortemente dell’influenza cristiana e delle dottrine a essa collegate. La Bibbia è diventata uno dei libri ritenuti più santi, tanto che molti suoi racconti o frasi (sia del Vecchio che del Nuovo Testamento) furono inseriti e utilizzati in queste ancestrali ritualità dell’Hoodoo: i Salmi divennero una fonte inesauribile di formule sacre utilizzate per le più diverse occasioni e la figura di Mosè, in particolare, si inserì profondamente nell’Hoodoo per il fatto che il personaggio biblico, a cui Dio si svelò sotto forma di cespuglio ardente, sposò la figlia di Jethro, anch’esso figura biblica ma, soprattutto, importante riferimento spirituale per i fedeli di questo credo misterioso.

    Anche la regina di Saba era considerata una grande e venerabile donna per l’Hoodoo : era etiope, come Jethro, ed era dotata dello stesso immenso potere che fu poi trasmesso a Salomone attraverso il suo anello magico: da qui, secondo i dottori dell’Hoodoo , tutto era incominciato.

    Ora è tempo di tornare a immergersi nel Blues e nelle sue storie.

    Il 1 Settembre del 2005, nell’Ospedale St. Francis di Memphis, morì Robert Lee Burnside all’età di 78 anni: l'uomo che ci aprirà la strada alla grande epopea del Blues.

    Burnside aveva soggiornato a lungo a Memphis, ma i suoi resti furono tumulati nel cimitero di Harmontown, nella contea di Lafayette, dove era nato il 23 Novembre 1926. È una località, Harmontown, un po’ lontana dal fiume Mississippi e da tutto il suo lungo tratto dove si trovano la maggior parte dei luoghi di nascita degli uomini che hanno fatto grande il Blues. Nonostante ciò, Burnside è considerato a tutti gli effetti un grande bluesman del Delta del Mississippi avendo, dalla sua, trascorso parecchi anni della propria vita a suonare l'amata chitarra in numerosi locali nella zona del Delta.

    Abbandonato dal padre da bambino, Burnside iniziò a interessarsi alla chitarra all’età di otto anni, quando ebbe modo di sentire per la prima volta suonare Mississippi Fred McDowell, di cui si parlerà ampiamente più avanti. Dopo aver lavorato nelle piantagioni da ragazzino, verso la fine degli Anni ’40 decise di trasferirsi a Chicago, la patria del Blues, dove si erano trasferiti anche suo padre e diversi zii. Cercava un’opportunità lavorativa e magari anche un po’ di fama come musicista. Trovò lavoro come operaio, divenne amico di Muddy Waters, altro grande bluesman, e si godette la scena blues della mitica Maxwell Street dove conobbe diversi altri giganti di questo genere musicale. Tuttavia, Chicago non era affatto una città tranquilla. Nell’arco di un anno, suo padre, due dei suoi fratelli e due zii furono tutti assassinati: fatti questi, che ci fanno capire quale clima si potesse respirare a quei tempi, in quelle zone. Così, nel 1959, Burnside decise di lasciare Chicago e di tornare prima a Memphis e trasferirsi poi a nord delle terre del Mississippi.

    Fu in questo periodo, legato alla sua permanenza nella zona del Delta, che Burnside uccise un uomo, sembra per questioni di gioco. Per tale ragione fu arrestato e condannato a scontare la sua pena nel famigerato carcere di Parchman, un borgo situato in una zona centrale del Mississippi. A quanto pare, però, vi rimase solo sei mesi, tanto che dopo circa un anno lo si ritrova nuovamente nel nord del Mississippi a vivere facendo i lavori più disparati: dal mezzadro, al pescatore, al camionista, pur continuando a suonare in vari Juke Joint .

    Nella prima metà degli Anni ’60, però la sua popolarità aumentò e passò dall’esibirsi in quei locali dall’ambigua fama, quali erano appunto i Juke Joint, alla sala di registrazione: incise diversi pezzi che riscossero un grande successo e gli permisero di diventare famoso in giro per il Paese e ottenere una certa fama anche all’estero, tanto da rendersi protagonista di diverse tournée in Europa e, negli anni settanta, di stringere un’intima collaborazione musicale con Junior Kimbrough, altro grande chitarrista. Aveva oramai raggiunto la piena notorietà e tenne numerosi concerti anche negli Stati Uniti finché, verso la fine degli Anni ’90, cominciò ad avere dei problemi di salute, in particolare ebbe un grave infarto a seguito del quale gli fu caldamente consigliato di smettere di bere. Per contro, il grande bluesman sosteneva che senza bere non riusciva a suonare. Dopo un secondo infarto, purtroppo, morì lasciando un grande vuoto fra gli amanti del Blues.

    Come tanti altri bluesman, Burnside non si può dire essere stato uno stinco di santo: oltre ad avere il vizio di bere, era anche un tipo piuttosto violento, tanto che, come già detto, arrivò persino a uccidere un uomo. R. L. Burnside, però, era uno che il Blues lo aveva nelle vene e il suo stile musicale riflette tutta la sua personalità: uno stile ruvido, un po’ sporco, molto essenziale e, a volte, oscuro. Amava molto anche lo slid e, cioè quella tecnica che prevede l’uso del bootleneck (letteralmente, collo di bottiglia): uno strumento usato per essere sfregato sulle corde e dare così alla chitarra un suono particolare e unico. Questo straordinario bluesman passava da canzoni in stile tipico del Delta a quelle invece più crude e oscure tipiche del nord del Mississippi, il cosiddetto stile Hill country blues di cui era un esponente anche il suo partner musicale Junior Kimbrough o l’altro grande del blues Mississippi Fred McDowell.

    Nei primi anni della sua carriera, Robert Lee usava prevalentemente la chitarra acustica. Solo in seguito iniziò a usare la chitarra elettrica con la quale riusciva a esprimere meglio il suo carattere particolarmente focoso e la potenza delle sue canzoni. Con l’elettrica il ritmo diventa spesso ossessivo e la voce di Burnside era così profonda da riuscire a esprimere tutte le velature malinconiche e, spesso, fatalistiche dei grandi del Blues. Nel suo brano The criminal Inside Me, come si evince dal titolo stesso, Burnside esprime tutto il suo spirito aggressivo e spavaldo, quasi arrogante. Il linguaggio usato è il tipico linguaggio della strada e dei teppisti e il suono, parimenti, è sporco e potente come ciò che intende esprimere:

    Then he went on down to this building

    Where they were having this party at

    And he made a loud knock on the door

    Say you mammy fuckers

    Get down drinkin' that goddamn Bacardi

    If you don't give me some of that shits or I’ll break up the mother fucking party […]

    If you don’t open this door I’ll kick the mother fucker in .¹

    Il tono utilizzato nelle strofe della canzone è quasi sempre caratterizzato da una sorta di strafottenza, tipica dei teppisti, come in .44 Pistol, in cui l’autore esprime tutta la rabbia per la perdita della sua donna:

    Well I wore my .44 so long

    That it made my shoulder sore […]

    The woman I'm loving by the morning was no more

    Got up so mad this morning

    I don't know where in the world to go […]

    The woman I'm loving by the morning was no more. ²

    La chitarra elettrica, insistente, è il sottofondo perfetto a una voce distorta dalla rabbia e dalla amarezza.

    Out on the Road è un altro canto disperato di un uomo alla ricerca della sua donna, che se n’è andata, e che lui vuole assolutamente ritrovare prima che lei commetta qualche sciocchezza:

    Well I'm out on the road and I'm all alone

    I've got to find my baby 'fore she do something wrong […]

    Well I've walked all night, I walked out in the rain

    I've got to find my baby 'fore she finds another man. ³

    Insomma Burnside lasciò una impronta sicuramente significativa nella storia del blues.

    Lasciamo i dolori di Burnside per occuparci di un altro grande bluesman che calcò la scena di Memphis intorno agli Anni ’40, ossia il mitico Chester Arthur Burnett, in arte Howlin’ Wolf (Il lupo che ulula). Nato il 10 giugno del 1910 in una piantagione di cotone, poco distante da West Point, Howlin’ Wolf fu dimesso dall’esercito nel 1943 e decise di tornare dalla sua famiglia che si era appena trasferita a West Memphis, cittadina appena al di là del fiume Mississippi, nonostante faccia già parte dell’Arkansas. Howlin’ era tornato per dare una mano ai genitori nel lavoro delle piantagioni, ma da tempo aveva imparato a suonare e di sera si esibiva nei diversi locali della Baele Street di Memphis, distante poco più di quattro miglia da dove abitava. Qui fu notato da Sam Phillips, un produttore discografico che incideva per la Sun Record e che gli fece registrare diverse canzoni di cui però vendette poi i diritti alla più blasonata Chess Record di Chicago.

    Quando hai ascoltato il lupo non te lo dimentichi tanto facilmente. La sua voce è una delle più potenti che abbiano mai calcato le scene di tutti i generi musicali. Probabilmente mai nome fu più azzeccato. Il lupo che ulula rende molto bene l’idea di come cantava Howlin’: una voce profonda e tonante, fra le più animalesche che si siano mai sentite. Con la sua imponente prestanza fisica e la forza di un tuono della sua voce, questo pilastro del blues riusciva a impressionare chiunque andasse ad ascoltarlo. Un critico musicale, dopo aver visto un suo concerto, disse che Howlin’ aveva una potenza tale da dare l’impressione di essere in grado di far crollare una casa fino alle sue fondamenta.

    Il soprannome gli era stato dato dal nonno che gli raccontava spesso storie sui lupi che si aggiravano nella zona e che sarebbero venuti a prenderlo se non avesse rigato dritto. I genitori si separarono quando Howlin’ aveva soltanto un anno e lui rimase con la madre, la quale, a un certo punto, lo cacciò letteralmente di casa perché non voleva saperne di lavorare nei campi della fattoria. Fu quindi accolto da uno zio, ma con lui non andò meglio. Infatti Howlin’ a dieci anni scappò dalla casa dello zio e percorse più di cento miglia a piedi per raggiungere suo padre nella contea di Monroe, con il quale passò, finalmente, un periodo tranquillo.

    A vent’anni il lupo sentì suonare il grande Charlie Patton e si innamorò del Blues. Andava ad ascoltare questo grande bluesman in un Juke Joint della zona, dove si esibiva quasi ogni sera. I Juke Joint erano locali tendenzialmente malfamati, frequentati da gente di colore, che offrivano musica, alcool, gioco d’azzardo e pasti caldi. Erano luoghi abbastanza lugubri e sporchi che sorgevano nei sobborghi delle città o ai lati delle stradine di campagna, dove la sera i braccianti neri

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