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Le grandi battaglie dell'antica Grecia
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E-book541 pagine7 ore

Le grandi battaglie dell'antica Grecia

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Dalle guerre persiane alla conquista macedone, da Maratona a Cheronea, i più significativi scontri terrestri e navali di un impero mancato

Culla della civiltà occidentale, nell’antica Grecia furono gettate le basi del pensiero moderno. Meno nota è la tradizione bellica dalle poleis elleniche, all’apparenza civilissime città-stato. Invece, la risoluzione dei loro contrasti avveniva attraverso sanguinose battaglie, guerra totale, conflitti combattuti con l’unico intento di sterminare l’avversario. Non a caso il soldato semplice – l’oplita, armato di scudo, elmo, corazza e schinieri – è un soggetto frequente nell’arte antica, e lo strumento bellico più efficace sui campi di battaglia – la falange – fu inventato dai greci. Eppure questo popolo non fu mai in grado di costituire un impero, perché troppo diviso e impegnato in lotte intestine. La storia dell’antica Grecia è quindi una fitta cronaca militare, i cui protagonisti furono grandi strateghi, abili comandanti al servizio dei propri concittadini, ma condannati spesso a una breve vita politica e a un inglorioso tramonto. Andrea Frediani ripercorre gli episodi salienti dell’antica storia ellenica, passando in rassegna gli episodi principali, dalle guerre persiane alla conquista macedone: i personaggi e gli scontri più significativi, per terra e per mare, di un impero mancato.


Andrea Frediani

è nato a Roma nel 1963. Laureato in Storia medievale, ha collaborato con numerose riviste specializzate, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Attualmente è consulente scientifico della rivista «Focus Wars». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Gli assedi di Roma, vincitore nel 1998 del premio Orient Express quale miglior opera di Romanistica, I grandi generali di Roma antica, Le grandi battaglie di Giulio Cesare, Le grandi battaglie del Medioevo, Le grandi battaglie di Roma antica, I grandi condottieri che hanno cambiato la storia, L’ultima battaglia dell’impero romano e Guerre, battaglie e rivolte nel mondo arabo. Ha scritto 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita, 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano, i romanzi storici 300 guerrieri, Jerusalem (tradotti in varie lingue), Un eroe per l’impero romano e la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare).
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854132566
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    Anteprima del libro

    Le grandi battaglie dell'antica Grecia - Andrea Frediani

    Introduzione

    Nella Grecia antica, quando un guerriero fuggiva dal campo di battaglia, la prima cosa che abbandonava, per poter correre più velocemente, era il proprio scudo; quando moriva, il suo scudo costituiva la barella sulla quale i suoi commilitoni lo riportavano a casa. Le madri spartane dicevano ai propri figli di tornare con o sopra il loro scudo, e il termine riptaspís, colui che abbandona lo scudo, era sinonimo di codardo. Eppure, sono ventitré secoli che il paese che ha rivoluzionato l’arte della guerra, prodotto condottieri del calibro di Temistocle ed Epaminonda, soldati per lungo tempo invincibili come gli opliti, e una formazione a lungo temuta e imitata da tutti, la falange, non si rende protagonista di un episodio militare degno di nota (se si eccettua la tenace resistenza al regime nazi-fascista durante la seconda guerra mondiale). E sono almeno ventitré secoli che la culla della civiltà occidentale non riveste un ruolo di primo piano nella grande politica internazionale.

    L’epoca dell’affermazione macedone, ovvero l’età di Filippo II e di Alessandro Magno, funge da spartiacque, per la Grecia, tra un millennio di storia da protagonista – sebbene in gran parte sconosciuta, dal tempo della guerra di Troia alle guerre persiane – e oltre due millenni di anonimato, di soggezione alle grandi potenze e di difficile e travagliata autonomia, alla stregua di nazioni che dell’anonimato hanno fatto il tratto distintivo della loro vicenda storica. Su qualsiasi enciclopedia esistono due voci, ovvero Grecia antica e Grecia, di cui la prima molto più densa, ad attestare la profonda cesura tra il peso che la Grecia ha avuto nel lontano passato e quello rivestito in epoca più recente. D’altronde, per entità politiche come Egitto e Mesopotamia, i cui fasti sono da rintracciarsi ancor più lontano nel tempo, il discorso non è poi tanto dissimile.

    Si potrebbe dire, anzi, che la ribalta, la Grecia, l’ha occupata fino a quando non è stata affatto una nazione, ma un coacervo di microcosmi perennemente in contrasto tra loro e con i giganti esterni cui, peraltro, le póleis seppero validamente tener testa per secoli, nonostante la loro endemica disunione; lo stesso Platone affermava che pace era una mera parola, e che ogni stato aveva ingaggiato, per natura, un guerra permanente e non dichiarata con gli altri stati: un concetto che rende alla perfezione la realtà nella quale viveva il grande filosofo, al pari dei suoi antenati e dei suoi figli e nipoti, i cui dèi, nei templi, erano rivestiti delle panoplie degli opliti.

    Perfino i più grandi esponenti della cultura, i padri della cultura occidentale, non ponevano in discussione la predominanza della guerra nella società di allora: Eraclito affermava che la guerra era il padre, il re di ogni cosa; anzi, costoro si facevano un vanto delle loro gesta militari più delle preziose opere che ci hanno lasciato: Eschilo volle sulla sua tomba un epitaffio che ricordasse la sua partecipazione alla battaglia di Maratona, non le sue splendide tragedie. Pericle soleva dire che la morte in battaglia emendava un uomo da qualsiasi nefandezza avesse commesso in vita, e le liste dei caduti nelle città divenivano dei veri e propri monumenti.

    Tuttavia, a differenza di Egitto e Mesopotamia, nessun impero ellenico è sorto nel periodo di maggior fulgore della Grecia, durante il quale le principali póleis non riuscirono a fare di più che costituire leghe regionali; e si trattava, per giunta, di federazioni di durata relativamente breve, per l’incapacità delle stesse città egemoni – al contrario di Roma, che in questo era maestra – di mantenere una leadership i cui risvolti positivi, agli occhi dei sottoposti, fossero superiori a quelli negativi.

    Quante volte, nei primi secoli della sua storia, l’Urbe ha corso il rischio di veder interrotta, magari definitivamente, la sua ascesa, dalla minaccia di defezione dei membri della confederazione di cui era a capo? Se Annibale, durante i suoi diciassette anni di permanenza in Italia, fosse riuscito nel suo intento di trarre dalla propria parte i popoli italici, per Roma sarebbe stata la fine; e se la città eterna non fosse riuscita a sopperire con l’immissione nel proprio esercito di effettivi alleati, dopo ciascuna delle non rare disfatte in battaglia, non sarebbe mai arrivata ad esercitare la propria egemonia su un impero sterminato.

    Ma le città-stato elleniche potevano contare sul servizio civico dei cittadini e, al limite, sui mercenari che erano in grado di ingaggiare con le loro limitate risorse economiche; inoltre, la loro ottusa politica di ingerenza e sfruttamento nei confronti dei centri alleati rendeva precarie e poco affidabili le federazioni che erano in grado di costituire. Parimenti, la loro severità nei confronti dei rivali vinti rendeva effimero il loro predominio, stimolando negli stati soggiogati l’istinto di rivalsa e gettando i semi per un nuovo, logorante conflitto, che altro non faceva che esaurire ulteriormente le risorse di una terra già provata da un stato endemico di guerra, fino a renderla facile preda di un conquistatore esterno.

    La storia della Grecia dall’epoca della sua prima resa a un dominatore straniero è una lunga serie di soggezioni, dai macedoni ai romani, fino ai bizantini, del cui impero fu una provincia molto meno prestigiosa di quanto l’aver conferito la propria lingua all’amministrazione statale le avrebbe dovuto meritare. Nessun tentativo di autonomia, nessuna alzata di capo, anzi nuove soggezioni ad avventurieri di turno, come i normanni di Roberto il Guiscardo e poi, dopo l’avvento dell’impero latino di Costantinopoli seguito alla quarta crociata, ai vari potentati di matrice occidentale, fino all’arrivo dei turchi ottomani a metà del XV secolo. Gli elleni avrebbero impiegato tre secoli per organizzare i primi moti di liberazione, grazie all’appoggio dei russi, per ottenere dopo oltre mezzo secolo di lotte, finalmente, un’indipendenza impoverita dalla scelta obbligata di sovrani stranieri e condizionata dal beneplacito delle grandi potenze: terre irredente ne erano rimaste, come per l’Italia, ma il ruolo di equilibratore nella politica eurasiatica svolto fino ad allora dall’impero ottomano rendeva necessaria la sua sopravvivenza, e i grandi demiurghi della politica internazionale di allora, gli inglesi, non gradivano che perdesse altri pezzi per strada.

    Né la Grecia fu in grado di mantenere quanto acquisito per aver appoggiato le potenze vincitrici nella prima guerra mondiale, dopo la quale si fece sconfiggere dalla Turchia di Kemal Ataturk. Alla Grecia moderna e repubblicana si arriva attraverso un percorso terribilmente impervio, con devastanti crisi economiche e ripetute sconfitte della democrazia – che tanto aveva caratterizzato l’epoca antica – di fronte ai sussulti monocratici, dal regime fascista di Metaxas, al più recente regime dei colonnelli, e ai frequenti ritorni del sovrano. Non molto di più, come si vede, rispetto a un qualsiasi paese uscito da una soggezione coloniale, con grandi difficoltà a trovare un equilibrio politico e una stabilità economica: pare di sentir parlare di una qualche nazione dell’America Latina o dell’Africa mediterranea.

    Meglio tornare, dunque, all’epoca antica. Sulla Grecia prima dei greci classici ne sappiamo meno dell’Italia prima dei romani, in verità. Anche la penisola ellenica, come molti altri territori eurasiatici, fu teatro delle migrazioni delle genti indoeuropee, negli ultimi secoli del terzo millennio a.C., mentre più a sud prosperava la civiltà cretese. Tuttavia, si ritiene che i veri progenitori dei greci propriamente detti siano gli invasori che iniziarono a penetrare a partire dal 1950 a.C., che si usa distinguere, sulla scorta delle indicazioni degli antichi, in alcune ben definite stirpi principali, riconducibili a distinti gruppi dialettali: dapprima gli eoli e gli ioni, che si insediarono, rispettivamente, nel Peloponneso, in Tessaglia e in Beozia, nell’Attica e nell’isola di Eubea, poi i dori, che subentrarono successivamente, forse verso il XII secolo a.C., impadronendosi dei settori più meridionali della penisola. Però, a confondere le acque è la stirpe degli achei, usata talvolta, come in Esiodo, in aggiunta agli altri tre gruppi, tal altra, come in Omero, a significare tutti i greci, mentre tra gli ittiti essa rappresentava il più importante dei popoli che risiedevano in Grecia. Secondo gli studi dei moderni si trattava invece di un altro nome con cui si definivano gli eoli o addirittura i dori, la cui invasione, altri suppongono, li avrebbe invece confinati nel Peloponneso settentrionale, nella regione che ne avrebbe portato il nome, l’Acaia, e nell’Arcadia.

    L’interazione con la più evoluta civiltà cretese portò, a metà del secondo millennio, al sorgere di una nuova civiltà, la micenea – o tardo-elladico –, la cui traccia più evidente sono le imponenti roccaforti e le tombe monumentali di Micene, Tirinto, Pilo, Argo e Tebe, ad opera del wanax, il re/patriarca a capo delle rispettive comunità; quella micenea, peraltro, è anche la prima cultura continentale greca che ci abbia lasciato testimonianze scritte, tramite la cosiddetta lineare B che, al contrario della cretese lineare A, è stata decifrata. Si trattava di una civiltà aggressiva e vitale, che finì progressivamente per includere la stessa Creta, ormai nella fase discendente della sua vicenda storica, in una forte espansione che la portò, nell’arco di due o tre secoli, al controllo dell’Egeo e delle coste dell’Asia Minore: la guerra di Troia raccontataci da Omero dovette rappresentare uno degli episodi salienti delle conquiste micenee, ad opera di un singolo sovrano, il basileús, ormai meno patriarca e più leader con specifiche funzioni attribuitegli dai suoi pari, o di momentanee coalizioni tra re tardomicenei sotto la leadership di uno di essi.

    La guerra di Troia

    Ma come si fa a raccontarla, una guerra combattuta all’inizio di una plurisecolare era buia, tanto memorabile da essere stata tramandata oralmente per secoli fino ad essere trasposta in mito da un poeta? Sarebbe stato un degno esordio, raccontare le grandi battaglie della guerra di Troia, in un libro come questo. Per gli stessi greci antichi, quel conflitto costituiva il momento saliente dell’epoca eroica e, come affermava Erodoto, il primo grande scontro tra Oriente e Occidente. Lo stesso Omero narra alcuni episodi specifici della guerra, facendo riferimento ai suoi tratti salienti come a qualcosa di acclarato e consolidato nella memoria collettiva, senza ritenere necessario scendere nel dettaglio: ma come facciamo a sapere se il poeta descrive un modo di combattere tipico della tarda epoca micenea o della sua, la tarda epoca arcaica? O ancora, un miscuglio di entrambi e di tutti i secoli che intercorsero tra le due epoche?

    Il cantore del conflitto ce lo presenta come una serie di scontri tra eroi, singoli guerrieri che si facevano trasportare sul campo di battaglia dal loro carro da guerra, ne scendevano e vagavano tra la massa in cerca di un avversario pari al loro blasone; ma Omero è un poeta, che non può far altro che focalizzare la propria attenzione sui singoli personaggi, pertanto il suo non è il modo per descrivere la guerra, ma solo il più epico: non possiamo escludere un coinvolgimento altrettanto ampio della truppa.

    Qualcosa di terribile deve essere accaduto subito dopo quel conflitto, qualcosa che pose fine alla civiltà micenea e che fece perdere gran parte della memoria storica ai greci delle epoche successive. Tutto ciò che noi possiamo dire con un ragionevole grado di verosimiglianza è che Troia, abitata da una popolazione di stirpe affine ai greci, era la principale delle città situate in prossimità dell’Ellesponto, e che probabilmente aveva raggiunto un alto grado di prosperità nel XIII secolo a.C., dopo essere stata ricostruita per la settima volta a seguito di un terremoto. La sua posizione la poneva in grado di gestire i traffici commerciali tra l’Asia e l’Europa, fungendo da anello di congiunzione tra la Grecia, l’Egeo meridionale e l’impero ittita; ma presto la mise anche in contrasto con gli stessi greci, che nella loro espansione in Asia Minore avevano occupato il settore meridionale della Troade.

    Possiamo anche ammettere che il casus belli sia stato il pessimo comportamento da ospite del figlio del re troiano Priamo, che se ne andò da Sparta con la moglie del re Menelao; anche Alcibiade, secoli e secoli dopo, avrebbe ricambiato l’ospitalità offertagli dal sovrano spartano Agide seducendogli la consorte. Tuttavia, l’azione di Paride offriva ai greci il pretesto per muovere guerra al più consistente ostacolo alle loro rotte granarie verso il Mar Nero, e suscitò il sorgere di una vasta coalizione di regni ellenici al comando generale del re di Micene, Agamennone. La flotta d’invasione si radunò ad Aulide – forse nel 1213 a.C., secondo quanto si può evincere dalle informazioni di Strabone e Tucidide –, in Beozia, e si trattava di 1200 vascelli, ciascuno dei quali in grado di trasportare da 50 a 120 uomini, per un’armata totale di 100.000 anime, che lo stesso Tucidide riconosce come plausibile.

    Se non altro, l’elenco fornitoci nel libro II dell’Iliade, che descrive nel dettaglio la composizione della flotta greca, ci offre non solo il quadro dei membri dell’occasionale coalizione, ma anche e soprattutto un affresco della geopolitica micenea, permettendoci di individuare le maggiori potenze elleniche in un’epoca anteriore a quella arcaica e prima dell’invasione dorica. Il regno di Agamennone consisteva in un territorio corrispondente all’Argolide settentrionale con la regione tra l’Arcadia e il Golfo di Corinto, mentre Tirinto e il resto dell’Argolide erano sotto la sovranità di Diomede, forse un suo diretto vassallo; se il territorio di Sparta, infatti, era sotto il fratello del comandante in capo, Menelao, possiamo supporre che gran parte del Peloponneso fosse sotto il controllo della famiglia dei Pelopidi. Lo stesso Nestore, sovrano di Pilo, in Messenia, doveva in qualche modo essere legato a loro.

    Nell’area settentrionale, più indipendenti dovevano essere i regni di Arcadia e di Elide, anche se Agamennone fornì loro le navi. Odisseo regnava sulle isole occidentali, Itaca, Cefalonia e Zacinto, mentre gli etoli, divisi in cinque città di pari caratura, sono dati in decadenza, al pari di Tebe, che non viene citata affatto. Nella Grecia centrale, la situazione appare simile, con una parcellizzazione di città che in Beozia arriva addirittura a trenta centri partecipanti alla spedizione, sotto la sovranità di cinque comandanti. I popoli sono citati col solo nome, focesi, locresi ed abitanti dell’Eubea, inducendoci a supporre una situazione politica meno evoluta di quella peloponnesiaca. Più a nord i regni appaiono appena più consolidati, la Ftiotide sotto la sovranità di Achille e il resto della Tessaglia suddiviso in otto entità politiche composte da venticinque centri.

    L’unico centro dell’Attica citato è proprio Atene, con una cinquantina di navi, il che indicherebbe come il processo di sinecismo della penisola si sia compiuto già in epoca micenea: la sola isola di Salamina appariva indipendente, sotto la sovranità di Aiace, che si portò dietro dodici navi. Tra i capi partecipanti all’impresa c’erano anche quelli delle altre isole egee, a partire da Idomeneo di Creta, nipote di Minosse, che fornì ben ottanta navi, a testimonianza degli stretti legami che l’isola manteneva ancora, nonostante la sua indubbia fase di decadenza, col continente. E ancora, Rodi, con nove navi al comando di Tlepolemo, Samo e le altre isole delle Sporadi meridionali, mentre non sono citate le Sporadi settentrionali e le Cicladi.

    Al comparire di un simile spiegamento di forze, i troiani preferirono rinunciare allo scontro campale e asserragliarsi entro le possenti mura della città, obbligando i greci a un assedio che a quei tempi, in assenza di un’arte poliorcetica anche solo abbozzata, consisteva nel semplice blocco dell’obiettivo in attesa che cadesse per fame. Ciò tuttavia, significava anche che bisognava trovare le risorse per nutrire lo sterminato esercito assediante; quando il territorio circostante, sottoposto a sistematiche razzie, non ebbe più nulla da offrire, una parte dei soldati venne mandata a coltivare le fertili vallate del vicino Chersoneso tracico, ma solo per essere costretta a rinunciare qualche tempo dopo, a causa dei continui attacchi degli abitanti della regione.

    Nel frattempo, però, la parte di esercito rimasta davanti alle mura di Troia non era sufficiente a impedire le sortite degli assediati per procurarsi viveri e nuocere in qualsiasi modo agli avversari, e ciò consentì ai troiani di prolungare notevolmente la durata dell’assedio che, secondo la tradizione, avrebbe richiesto ben un decennio. I greci, peraltro, agivano in bande armate isolate, sotto il comando di un capo, e solo raramente Agamennone era in grado di organizzare azioni concertate: per esempio il wanax della Ftiotide, Achille, si distinse in una lunga serie di raid contro i centri circostanti – gli alleati dei troiani andavano dalla Propontide alla Caria e alla Licia – e le isole che, se procurarono nuove risorse e successi isolati ai greci, dispersero le loro energie e li tennero lontani dal loro obiettivo principale.

    La città sarebbe caduta, infine, grazie a uno stratagemma, ma è più probabile, come hanno ipotizzato alcune fonti, che si sia trattato di un tradimento, circostanza non rara, peraltro, negli assedi dell’Antichità. In ogni caso, abbiamo la certezza che la città fu completamente distrutta, e gli abitanti sopravvissuti al massacro si dispersero: la tradizione più credibile individua una sopravvivenza del regno troiano in una nuova sede a Scipsi, ad opera di Enea e dei suoi figli. Tuttavia, le leggende attestano con fin troppa evidenza che il ritorno a casa dei principi greci fu in molti casi amaro: in un’epoca in cui la presenza di un capo era necessaria al mantenimento della sua leadership, la lunga assenza dei partecipanti alla spedizione dovette determinare rivolgimenti politici, guerre civili, cambiamenti di regime, colpi di stato e forse, possiamo ipotizzare, arrivò anche a favorire qualche altra invasione dal nord, che non trovò alcuna opposizione coordinata e molti territori privi di difesa.

    Il Medioevo elladico

    Una nuova cesura temporale – e non solo temporale –, infatti, è rappresentata dall’invasione di quei popoli del mare che gli elleni chiamavano dori, che sarebbe avvenuta nel 1200 a.C. circa, in corrispondenza delle altre migrazioni asiatiche che posero fine all’impero ittita e minacciarono seriamente il regno egizio. Si trattava di guerrieri che combattevano a piedi, senza armamento pesante né mezzi di locomozione, ed erano abilissimi tiratori con giavellotti e archi, un modo di combattere che obbligò i micenei a cambiare il proprio.

    Quest’ultima stirpe indoeuropea si installò nel Peloponneso, ma anche nell’Epiro, nella Focide e nell’Etolia, nonché a Creta, cristallizzando le aree di pertinenza dei dialetti ellenici e sovrapponendosi in maniera presumibilmente cruenta – stando alle evidenze archeologiche e alle difficoltà incontrate al loro ritorno in patria dagli eroi omerici – alle popolazioni autoctone. Segue mezzo millennio del quale sappiamo davvero poco, tanto da averlo definito Medioevo elladico: una lunga epoca nella quale possiamo rinvenire notevoli similitudini con i secoli bui dell’Alto Medioevo che seguirono la caduta dell’impero romano. Stando anche alle scarne testimonianze di Aristotele e Tucidide, che ne sapevano poco anche loro, dobbiamo figurarci almeno la prima metà di questo lungo periodo come un’epoca priva di governi centralizzati e di una florida e organizzata produzione agricola, e caratterizzata soprattutto da un calo di popolazione; i suoi tratti distintivi erano brigantaggio, anarchia, scambi commerciali solo a corto raggio, pastorizia, e parcellizzazione insediativa, con signorotti locali che combattevano a cavallo soprattutto in faide e raid punitivi, portandosi dietro schiere di guerrieri vestiti in cuoio, con scudi in vimini, lance, giavellotti e frecce.

    Ma come nel Medioevo che più comunemente conosciamo, i secoli più tardi dovettero essere di fioritura e di organizzazione. Durante questo secondo periodo, infatti, i greci appresero la scrittura alfabetica dai fenici, elaborarono quello straordinario apparato mitologico-religioso-culturale che avrebbe costituito il punto di partenza di qualsiasi civiltà occidentale nei secoli a venire, estesero al mare il raggio della loro azione commerciale, maturarono in termini più strettamente politici quella progressiva frammentazione dei grandi gruppi in microcosmi isolati dall’aspra orografia del paese, e iniziarono a mettere a fuoco il concetto di democrazia, del quale sarebbero stati i più strenui difensori e i più rigidi applicatori nel periodo della loro ribalta.

    Si trattò, almeno all’inizio, di una democrazia a carattere strettamente oligarchico, naturalmente. In progresso di tempo, i pochi signori della guerra andarono ricompensando i loro servi e collaboratori e si estese il numero dei proprietari terrieri, il che finì per creare, oltre all’aristocrazia ereditaria vera e propria, dotata sempre di grande potere, una classe piuttosto ampia di coltivatori benestanti, del cui orientamento era necessario tenere conto. Il risvolto militare, che qui più ci interessa, risiede nella maggiore disponibilità, da parte di questi nuovi ricchi, ad acquistare panoplie e, quindi, a reclamare un servizio nell’esercito con un ruolo più importante del mero supporto agli aristocratici: una pretesa che, all’atto della costituzione delle póleis, si trasferirà dai campi agricoli entro le mura cittadine, sancendo però, di fatto, l’origine agraria della falange.

    Le vittime principali di questa età oscura, in fin dei conti, finirono per essere soprattutto i sovrani, che furono progressivamente spazzati via o estromessi dal potere reale per mano dell’aristocrazia, dopo alcuni tentativi di appoggiarsi al popolo per contenere le crescenti rivendicazioni dei nobili. Se nell’epoca precedente gli uomini in grado di procurarsi un cavallo e un armamento completo erano i veri protagonisti della guerra, nella prima Grecia arcaica essi furono in grado di impossessarsi anche del potere politico, creando dei regimi oligarchici che, a tutto l’VIII secolo, erano ormai un dato di fatto in gran parte della Grecia e nelle più recenti colonie occidentali, nelle isole egee e in Asia Minore; la monarchia sopravviveva solo in alcune colonie asiatiche e in parte del Peloponneso, con la peculiare diarchia spartana a costituire un curioso compromesso.

    Le colonie determinarono anche un altro fatto significativo. La maggiore circolazione commerciale, non più limitata ai modesti scambi nell’entroterra greco, favorì l’ascesa di una nuova categoria di ricchi, offrendo agli esponenti più intraprendenti del popolo la possibilità di accumulare fortune e di crearsi a propria volta latifondi pari a quelli dell’aristocrazia di vecchia data. E se quest’ultima aveva sottratto al sovrano il potere politico, i nuovi ceti timocratici non avrebbero tardato a reclamare a loro volta una compartecipazione al governo, favorendo così un progressivo processo, se non proprio democratico, almeno tendente a coinvolgere uno spettro più ampio della popolazione nella conduzione dello stato.

    Il che, poi, significava anche che si estendeva la base dei cittadini in grado di svolgere il servizio militare procurandosi un armamento completo. Le nuove esigenze delle città presupponevano eserciti più ampi, e l’aristocrazia dovette progressivamente rassegnarsi a condividere l’onere militare con altri ceti; armate più consistenti, peraltro, non potevano essere lasciate inattive a guardare dei campioni combattere da soli sul campo di battaglia, e l’era dei combattimenti singoli cedette gradualmente il passo a quella dei grandi scontri tra schieramenti. E non c’era più bisogno dei carri da guerra, quella sorta di piattaforme che in epoca micenea avevano costituito la base dalla quale bersagliare il nemico con i proietti, il mezzo per portare il guerriero sul campo di battaglia e per sfondare le file avversarie, il punto di riferimento e di protezione della fanteria leggera; altrettanto inutile appariva ormai il cavallo, che i nobili usavano essenzialmente per gli spostamenti in vista di una battaglia: venuta meno l’esigenza degli elementi più costosi della panoplia di un aristocratico, si poteva combattere anche a piedi, se si aveva il censo sufficiente per acquistare un’armatura, una lancia, un elmo, schinieri e spada.

    L’altra grande novità emersa nel corso del periodo oscuro è senza dubbio il grande insediamento che prese il nome di pólis, nel quale si trasformò progressivamente quell’aggregato incoerente costituito dall’acropoli, dal palazzo reale e dai villaggi circonvicini che ad esso facevano riferimento per la protezione più immediata. La nuova città racchiuse entro la sua più ampia cerchia muraria gli edifici dei vari magistrati della repubblica, quelli religiosi, le abitazioni dei cittadini che venivano man mano ad abitarvi dalla campagna e la piazza centrale, l’agorá, dove il popolo si riuniva in assemblea per manifestare un potere ancora solo nominale.

    Grecia continentale, mar Egeo e Asia Minore occidentale.

    Non tutti i principali centri di insediamento micenei, tuttavia, riuscirono a sopravvivere al lungo periodo di declino e di lenta metamorfosi dal quale sarebbe emersa una nuova realtà geopolitica. Se nell’epoca precedente il presupposto principale dell’ubicazione di un centro era stato l’inespugnabilità di un sito, nella Grecia arcaica e in quella classica la posizione doveva favorire la prosperità della città e facilitare le sue comunicazioni non solo con l’interno ma anche col mare. In altri casi, più villaggi preferirono riconoscere il predominio della città più importante della regione, secondo un più o meno spontaneo processo di aggregazione definito sinecismo che vide nell’emergere di Atene, che la leggenda attribuisce a Teseo – artefice della riunione di dodici distinte comunità dell’Attica –, l’esempio più fulgido.

    Confini naturali, d’altronde, in Grecia se ne hanno a iosa. Se è vero che la penisola costituisce uno scacchiere operativo, da un punto di vista strettamente militare, assai complesso, è altrettanto vero che proprio gli ostacoli tra una regione e l’altra hanno profondamente condizionato qualsiasi tentativo di controllo di una struttura statuale su regioni diverse. Oltre il 40% del paese è situato a un’altitudine superiore ai 500 metri ma, quel che più conta, la morfologia, frutto di pesanti fenomeni orogenetici fino in epoca quaternaria, è caratterizzata da un’estrema frammentazione del territorio, con una irregolare alternanza di rilievi e depressioni e un sistema costiero estremamente frastagliato, nonché da una quantità di isole tale da costituire il 20% dell’attuale territorio greco.

    Gli stati greci che avrebbero potuto costituire un impero erano separati a nord dalla Macedonia mediante il monte Olimpo, a est dall’Epiro mediante la catena del Pindo. La diramazione orientale di quest’ultimo, la catena dell’Othris, isola l’ampia pianura della Tessaglia fino allo stretto dell’Eubea, interessando anche parte dell’isola omonima frontistante l’Attica. Il monte Parnaso, ulteriore appendice sudorientale del Pindo che corre dal golfo di Patrasso a quello di Corinto, divide l’Etolia, a ovest, dalla Beozia, a est; il territorio beotico costituisce un’ampia pianura nella quale si combatté quasi la metà delle più grandi battaglie dell’antica Grecia, ed è a sua volta circoscritto a nord, insieme alla Focide, dalla catena dell’Oti ove si trovano le Termopili, e separato dalla penisola dell’Attica per via del monte Citerone.

    L’appendice meridionale della penisola ellenica, il Peloponneso, separata dal resto della Grecia dal golfo di Corinto, è a sua volta divisa in una serie di penisole rocciose, a causa delle catene che si protendono verso sud e dei golfi, di Nauplia, di Laconia e di Messenia, che si incuneano nell’entroterra. Così, a est l’Argolide è separata dalla Laconia mediante il golfo di Nauplia e la catena del Parione, e la Laconia dalla Messenia per via del golfo di Laconia e della catena del Taigeto, mentre lo stesso Parione divide ancora la Laconia dall’Arcadia, a sua volta isolata dalla contigua Acaia, più a nord, dall’Erimanto. Si tratta, nel complesso, di una regione particolarmente arida dove la costante erosione delle rocce calcaree ha determinato uno scorrimento intermittente in superficie di tutti i principali fiumi.

    Con l’affermazione di Atene, in Attica non ci fu più spazio per altre città e, anzi, si incrementò l’afflusso di coloni ioni in Asia Minore, che salpavano dal porto di Falero, sostituito in età classica da quello del Pireo. Gli antichi descrivevano la città come una ruota, i cui raggi partivano dal centro costituito dall’Acropoli, l’insieme degli edifici sacri e religiosi dedicati ad Atena. La caduta della monarchia determinò, come altrove, un sistema di governo oligarchico con a capo dei magistrati scaturiti dai principali clan familiari che controllavano l’ordinamento sociale emerso dalle quattro tribù genetiche – evoluzioni delle antiche bande di guerrieri dell’età oscura –, a loro volta suddivise in fratrie, che in tempi antichi avevano raggruppato combattenti uniti da uno scopo comune; queste ultime, in progresso di tempo sopravvissero solo come suddivisioni di carattere religioso, per essere soppiantate da altri legami a carattere numerico o parentale.

    Nella vicina Beozia, si mantenne costante la preminenza di Tebe (l’attuale Thivai), mentre un buon livello lo mantenne anche Orcomeno, posta alla confluenza del Cefisio col lago Copaide, poi sul monte Acontion per via del progressivo impaludamento della zona lacustre. Nell’Argolide, vennero meno centri che avevano fatto la storia dell’età micenea, come Nauplia, Tirinto e la stessa Micene, prosperò Corinto, artefice della creazione di colonie del calibro di Siracusa e Corcira, ed emerse la potenza di Argo, che con il re Fidone, verso la metà del VII secolo, estese il proprio predominio all’intera regione e all’Arcadia.

    Altra pólis in grado di mantenere e anzi estendere la propria potenza lungo tutto l’arco della storia greca antica – tanto da essere stata poi l’ultima a mantenere l’indipendenza – fu senza dubbio Sparta, in Laconia. Sorta ad opera dei dori intorno al X secolo a.C. nella zona dominata nel precedente millennio dal centro miceneo di Lacedemone – che sarebbe rimasto come il nome nei documenti ufficiali di Sparta – e costituita da almeno quattro villaggi sparsi, la città dimostrò fin dal primo momento una notevole vitalità espansiva, che la portò a estendere fortemente la propria zona di influenza nel Peloponneso, mettendola in naturale contrasto con Argo. L’ordinamento degli spartani, tanto peculiare da farne un’entità statuale a parte in tutto il mondo antico, si può configurare come un regime militare a tutti gli effetti, atto a sviluppare e a mantenere una società guerriera in grado di fronteggiare il continuo stato di tensione con i vicini, e ad alimentare quello di soggezione in cui gli abitanti tenevano le popolazioni sottoposte.

    Sparta e Atene

    Non paia fuor di tema, in questa sede, un pur breve excursus sull’ordinamento sociale e politico di Sparta, in quanto strettamente connesso con quello militare. I conquistatori dori che penetrarono in Laconia si impadronirono delle più fertili terre nella valle dell’Eurota, relegando gli abitanti della regione parte in schiavitù, nella condizione di iloti (non si sa se prigionieri di guerra o abitanti della palude), parte lasciando loro una limitata libertà, in qualità di perieci (coloro che abitano intorno), il cui obbligo principale consisteva nel prestare servizio militare per i dominatori. Il terreno confiscato venne suddiviso, almeno inizialmente, in 6000 lotti da circa 15 ettari l’uno, e assegnato agli spartiati, ovvero a tutti gli esponenti della comunità spartana liberi ed eguali, in grado di portare le armi, una casta esclusiva cui si apparteneva per diritto di nascita e strettamente endogamica. Costoro erano i cittadini di prima classe, in possesso di tutti i diritti politici e civili; lo stato, vietando loro di svolgere attività commerciali o lucrative di alcun genere, li liberava da qualunque incombenza che non fosse di carattere politico o militare – soprattutto militare –, conferendo loro, oltre al lotto di terra, gli iloti per lavorarla; costoro, veri e propri servi della gleba legati alla terra, seguivano lo spartiata anche in guerra come fanteria leggera (quando non prestavano servizio nella flotta come rematori).

    In cambio, lo stato spartano lasciava allo spartiata solo sette anni di indipendenza, i primi sette di vita, quando non lo abbandonava alla morte o alla carità di qualche ilota fin dalla nascita, nei casi in cui il neonato manifestava di non essere sano. Poi, prelevava il bambino dalla famiglia, lo affidava insieme a un gruppo di coetanei a un altro giovane e lo cresceva per farne un guerriero modello, che abituava a vivere insieme agli altri guerrieri, sviluppandone lo spirito cameratesco con pasti ed esercizi in comune in speciali circoli denominati sissizie. Qui i futuri combattenti trascorrevano il tempo nella marcia – a piedi nudi –, nella ginnastica, nella musica e nella lettura, cucinavano essi stessi, indossavano una sola tunica tutto l’anno, sia in estate che in inverno, e dormivano su letti costituiti dalle canne che andavano a procurarsi da sé lungo le rive dell’Eurota.

    La disciplina era rigidissima, la viltà non era tollerata in alcun modo e qualsiasi infrazione punita con una buona dose di frustate; gli allievi venivano addestrati a cavarsela in ogni frangente, anche rubando, se necessario, e in questo caso la punizione scattava se si veniva colti in fallo, quale dimostrazione di incapacità e goffaggine. Il rito che attestava il passaggio dall’età adolescenziale a quella virile consisteva nel riunire una trentina di giovani e affidare loro il compito di trucidare quanti più iloti era possibile muovendosi furtivamente nelle campagne: una degenerazione di un rito religioso praticato più blandamente in altre parti della Grecia. La vita comunitaria e l’addestramento costante duravano fino ai vent’anni, quando i giovani erano dichiarati atti alle armi e i migliori di loro venivano mandati a combattere, mentre gli altri erano utilizzati come riserve e sostituti; dopodiché, comunque, il guerriero era tenuto a continuare a cenare insieme ai camerati, anche se entro i trent’anni era obbligato a sposarsi.

    Il numero limitato di lotti – arrivati a 9000 dopo le guerre messeniche – e la concezione elitaria della condizione dello spartiata imposero una rigida politica di contenimento delle nascite, poiché il terreno andava al solo primogenito, e chi di figli ne faceva troppi poteva anche essere espulso dalla comunità spartiata per indegnità; tuttavia, tale politica finì per portare a un progressivo assottigliamento del numero degli eguali, arrivati a essere solo un paio di migliaia ai tempi di Leuttra, nel 371 a.C., e addirittura 700 a metà del secolo successivo. L’esercito venne mantenuto a ragionevoli livelli di efficienza promuovendo gli iloti liberati, detti neodamodi, e i figli illegittimi avuti dagli spartiati con donne ilote, detti motaci.

    In ogni caso, per lungo tempo gli spartani furono gli unici a possedere un esercito permanente in Grecia, a differenza di tutte le altre città-stato, che erano in grado di mettere in campo una milizia cittadina disponibile solo in caso di necessità e per il limitato periodo della campagna estiva. All’inizio della guerra del Peloponneso, che costituisce il nostro punto di riferimento più preciso, Sparta poteva schierare 8/10.000 opliti, su una popolazione della Laconia di 40.000 anime – oltre ai 250.000 iloti sparsi anche in Messenia – distribuita su una superficie di 5180 chilometri quadrati, ma poteva fruire anche di altri 20.000 opliti forniti dalla lega peloponnesiaca.

    Il processo di progressivo indebolimento della monarchia, che caratterizzò pressoché tutti gli altri stati greci, a Sparta si fermò a metà; o meglio, rimase incompiuto, trasformandosi in una diarchia nella quale i due sovrani erano ben lungi dall’avere il peso del wanax miceneo. Forse, i due re non erano altro che un residuo della molteplice leadership rivestita dai sovrani dei centri aggregatisi poi in un’unica pólis. La loro autorità era limitata alle funzioni sacerdotali e giudiziarie, e perfino il diritto di dichiarare guerra e di stipulare la pace fu loro sottratto dagli efori, i cinque magistrati eletti annualmente dall’apella, l’assemblea del popolo – vi facevano parte tutti gli spartiati superiori ai trent’anni –, le cui funzioni ispettive e di sorveglianza, col tempo, finirono per prevaricare qualsiasi altro potere statale.

    Pertanto, nonostante le apparenze, Sparta era una democrazia, in un certo senso, stante anche l’esistenza della gerusía, il senato, costituita da 28 cittadini eletti a vita tra quanti avevano più di sessant’anni. I due sovrani, che conseguivano il trono per successione in linea maschile – se il re non aveva avuto figli il trono veniva ereditato dal parente maschio più prossimo –, erano soprattutto i comandanti militari supremi, fino al 506 a.C. contemporaneamente, in seguito ciascuno per una specifica campagna. Occorre precisare, tuttavia, che in progresso di tempo gli efori finirono per accompagnarli anche in guerra, per sorvegliarne l’operato.

    Un più graduale percorso democratico lo ebbe Atene, che già in età micenea doveva essere stata il più importante tra i tanti piccoli reami ioni dell’Attica i quali, attraverso un processo secolare e non sempre pacifico, si sarebbero fusi politicamente in un’unica entità. La posizione della città, affacciata sull’Egeo, frontistante l’Anatolia, e limitata nell’entroterra a una penisola, l’Attica, costituita da 2600 chilometri quadrati di stretta alternanza tra zone montuose e anguste pianure percorse da fiumi, il Cefisio e l’Ilisso, di portata assai limitata, non le lasciava altro sbocco che quello marittimo, coloniale e commerciale. In effetti se Sparta, con i suoi 8400 chilometri quadrati di territorio sotto dominio diretto, arrivò a costituire, e di gran lunga, la più ampia estensione territoriale della Grecia, ad Atene (la cui autorità continentale si estendeva su un’area grande quanto il Lussemburgo odierno) andrebbe ascritto il vanto di aver creato il più vasto impero ellenico: grazie alle sue flotte, infatti, arrivò a costituire, se pur davvero in miniatura, una sorta di impero britannico ante litteram, con possedimenti e colonie a macchia di leopardo lungo le coste del Mediterraneo.

    La tradizione cita quattro re prima di Teseo e sette fino alla calata dei dori, l’ultimo dei quali morì nel fronteggiare l’invasione. Ancora qualche sovrano per trasmissione ereditaria, e poi, tra il 1038 e il 753 a.C., sette supremi magistrati detti arconti, eletti a vita, cui ne

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