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Le famiglie più malvagie della storia
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E-book524 pagine8 ore

Le famiglie più malvagie della storia

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Info su questo ebook

I delitti più celebri e i crimini più atroci commessi da famiglie, clan e dinastie

«Gli autori tracciano il loro oscuro labirinto narrando con oggettività vicende inquietanti. Il terrore diventa un affare di famiglia.»
Laura Laurenzi, «la Repubblica»

Madri e padri, figli e figlie, fratelli e sorelle uniti da un doppio legame di sangue: genetico e criminale. Dalla dinastia giulio-claudia ai Borgia, dai Romanov ai Kim, dagli Hussein ai clan mafiosi, la storia di ieri e di oggi è disseminata di vicende oscure che hanno come protagonisti personaggi disumani, guidati da una lucida follia o pronti a tutto per conservare il proprio potere. Sfilano così, in sequenza, gli eccidi di massa dei fratelli Pizarro, gli omicidi seriali, le efferate imprese delle bande di Jesse James, dei fratelli Dalton e dei Savi, “quelli della Uno bianca”. E poi le sanguinose azioni delle famiglie mafiose, come i Gambino, i Riina, i Messina Denaro, i Barbaro…E ancora la spregiudicata gestione del potere di tiranni che la storia ha condannato a finire nella polvere, come Ceausescu e Gheddafi. Per finire con i protagonisti della cronaca nera: Rosa Bazzi e Olindo Romano, gli assassini di Erba; Michele Misseri e sua figlia Sabrina, implicati nel giallo di Avetrana, culminato con il ritrovamento del cadavere della quindicenne Sarah Scazzi, vittima forse dello zio e della cugina. Due presunti carnefici per un solo cognome.

«Una carrellata di fatti oscuri e crudeli, operati da famiglie che hanno utilizzato ogni genere di sopraffazione per difendere il proprio nome e potere.»
Panorama.it

Tra le famiglie malvagie:

La dinastia giulio-claudia. Roma val bene sangue e omicidi
I Borgia. Delitti e castighi di una dinastia mancata
I Tudor. Matrimoni e funerali, tra vergini e sanguinari
I fratelli Dalton. Al di là del bene e del male
I Romanov. Demoni e dèi
Gli Hussein. Una famiglia-stato
Il clan bin Laden. L’internazionale del terrore
I Riina. I capi dei capi
Olindo e Rosa. I mostri di Erba

Andrea Accorsi
(Legnano, 1968), giornalista professionista e ricercatore, lavora come capo servizio cronaca in un quotidiano nazionale. Studioso di storia del giornalismo e di criminologia, ha scritto una decina di libri e saggi, tra cui ricordiamo Bande criminali e - insieme a Daniela Ferro - Milano criminale, Il grande libro dei misteri di Milano risolti e irrisolti, 101 personaggi che hanno fatto grande Milano, Le famiglie più malvagie della storia.

Daniela Ferro
(Milano, 1977), giornalista pubblicista e docente, per Newton Compton ha pubblicato Le grandi donne di Milano. Insieme ad Andrea Accorsi ha scritto Milano criminale, Il grande libro dei misteri di Milano risolti e irrisolti, 101 personaggi che hanno fatto grande Milano e Le famiglie più malvagie della storia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854155442
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    Anteprima del libro

    Le famiglie più malvagie della storia - Daniela Ferro

    Parte prima

    Dinastie

    1

    I Giulio-Claudii

    Roma val bene sangue e omicidi

    Complotti, venefici, tradimenti. Quale dinastia ne è mai stata immune? Incesti, omicidi, matricidi, uxoricidi. E l’elenco potrebbe continuare. No, non si sono fatti mancare proprio nulla, nel repertorio violenza e affini, i quattro imperatori che regnarono sull’Urbe e sui suoi vasti domini dal 14 al 68 d.C., affatto degni eredi dello splendore della pax augusta, che Ottaviano, primo princeps mal celato dietro il formale retaggio di consuetudini repubblicane, seppe regalare a Roma dopo un secolo buono di lotte intestine, e il cui potere segnò non solo il più lungo periodo di pace che Roma abbia mai conosciuto, ma anche l’apice del suo prestigio, politico e culturale.

    Al termine di quel vortice di vicende e personaggi che fu la corte imperiale sotto la dinastia giulio-claudia, Roma non fu più la stessa. Le fondamenta del suo patrimonio di territori e conquiste rischiò di sgretolarsi e ridursi in cenere, sotto le pressioni esercitate ai confini dalle popolazioni germaniche, dalle ambizioni proditorie di loschi quanto ambigui personaggi che gravitavano intorno alla figura del princeps, per effetto delle ribellioni di intere legioni, rischio sempre in agguato e tanto più pericoloso in un sistema, come quello di Roma, basato sul primato delle armi. E non è allora un caso che a chiudere la storia di questa dinastia sia il cosiddetto anno dei quattro imperatori – il 68, anno della morte di Nerone – da cui si affermò, proprio grazie al favore di buona parte dell’esercito, la figura di un generale, Vespasiano, senza alcun legame con la precedente dinastia, iniziatore di quella dei Flavi, che avrebbe regalato a Roma una pace tanto insperata quanto fragile.

    Eguagliare Ottaviano Augusto non sarebbe stata un’impresa facile per nessuno. Il suo diretto successore, tuttavia – a dispetto degli esordi, di tutto valore e rispetto – si impegnò strenuamente per trascinare il carro agli antipodi. Augusto non aveva mai dimostrato, a dirla tutta, una grande stima nei confronti di Tiberio, che aveva dovuto nominare suo successore. E dovette farlo suo malgrado. Già, perché Tiberio Claudio Nerone – questo il nome per esteso del primo della dinastia che discendeva dal sangue di Giulio Cesare – fu, per l’imperatore, una sorta di ripiego, una scelta forzata che si vide costretto a prendere quando gli eventi – alcuni naturali, altri indotti – fecero piazza pulita di coloro che Augusto avrebbe visto con gioia prendere il proprio posto.

    Il suo principato fu ammorbato da un venefico clima di sospetto e da continue tensioni, che contribuirono, nella storiografia latina ufficiale – da Tacito a Svetonio, giusto per fare i nomi di due pezzi da novanta – a farne ritrarre il periodo con tinte fosche e cupe con dovizia di particolari. Eppure, chi lo avrebbe mai detto che Tiberio si sarebbe rivelato a tal punto incapace di far fronte al proprio dovere? Che non era solo un compito di prestigio ma, in primis, un onore cui in tanti, durante il periodo augusteo, avevano aspirato. E che Augusto morisse anzitempo fu un timore, al tempo, largamente condiviso, giacché non era un segreto per nessuno che, a dispetto delle numerose e fortunate campagne militari intraprese, non godesse di una salute ferrea. Da qui, per il primo imperatore di Roma, l’urgenza di trattare la questione della successione al principato. Una morte senza eredi avrebbe trascinato Roma in uno stato di anarchia dal quale, alla luce delle lotte fratricide intercorse nel secolo precedente, difficilmente la Res publica avrebbe tratto salvezza.

    Tiberio era uomo tutto d’un pezzo. Augusto però non lo aveva mai amato, innanzitutto per una questione di pelle. Era schivo, riservato, umbratile. Il suo sangue era, almeno in parte, lo stesso di Cesare. Era nato nel 42 a.C. dall’omonimo Tiberio Claudio Nerone (partigiano di Cesare) e da Livia Drusilla, più giovane del consorte di quasi trenta primavere. Entrambi i genitori avevano legami con la gens Claudia, che fin dal suo arrivo a Roma – nella primissima età repubblicana – era andata frazionandosi in una pluralità di famiglie. Il cognomen Nero era, fra queste, di particolare prestigio, tanto che in lingua sabina (si parla quindi della preistoria di Roma) il termine significava valoroso. Che cosa però aveva contribuito in particolare a scrivere il nome di Tiberio nelle liste degli aspiranti successori ad Augusto?

    Il legame portava il nome di una donna: Livia Drusilla, madre di Tiberio. E, in seguito, anche terza moglie del princeps. Le nozze – che non rispondevano a una mera questione di interesse, quanto piuttosto a un sincero sentimento d’amore – furono celebrate il 38 a.C., un anno dopo il ripudio, da parte di Augusto, della seconda moglie Scribonia (che, nell’elenco, era stata preceduta da Clodia Pulcra, figliastra di Marco Antonio) e l’autorizzazione da parte del collegio dei pontefici, reso necessario dal fatto che Livia non era una sposa illibata, ma già madre di un figlio – il piccolo Tiberio, appunto – e in attesa del secondo. Il del collegio fu pronunciato sotto riserva: Augusto avrebbe dovuto riconoscere il secondo figlio come proprio. Il bimbo vide la luce tre mesi dopo le nozze. Gli fu dato il nome di Druso. Se poi fosse realmente frutto dell’unione carnale fra Livia e Ottaviano, è solo un’ipotesi che resta scritta nel libro dei numerosi segreti celati da questa dinastia.

    Indipendentemente dalla reale paternità, tuttavia, ufficialmente e per tutti Druso fu figlio legittimo di Augusto. E, come tale, cresciuto a corte. Lontano quindi dal fratello maggiore, che restò col padre fino alla morte di quest’ultimo, nel 33 a.C., quando Livia ottenne che anche il suo primogenito potesse raggiungerla. E iniziò, per lui, il tradizionale cursus honorum, ossia la carriera che i giovani romani intraprendevano, aspirando ad assumere le massime cariche.

    Tiberio non sfigurò, anzi. Si rivelò abile tanto negli studi di retorica e oratoria, quanto nell’attività forense. Fu addirittura encomiabile nell’arte militare, restando imbattuto in tutte le campagne che gli vennero affidate. E non furono poche né di trascurabile complessità. Combatté in Gallia, in Armenia, nell’Illirico: tutti territori tradizionalmente a rischio per Roma, e i cui equilibri erano fondamentali per assicurare la stabilità dei confini. Lo stesso Druso, il fratello minore, fu naturalmente avviato alla vita militare. Ebbe però meno fortuna. Morì a causa della rottura di un femore, in seguito ad una caduta da cavallo, nei pressi del fiume Elba, dove si trovava a fronteggiare le popolazioni germaniche. Fu Tiberio a guidare a Roma, con sincero dolore, il corteo funebre che riportava a casa la salma del fratello defunto. La sua morte significava la scomparsa del figlio (considerato) legittimo dell’imperatore: un pretendente in meno alla successione. Una perdita che addolorò profondamente il cuore e i pensieri del princeps, che aveva già visto morire il nipote Marco Claudio Marcello, figlio della sorella Ottavia e preferito di Augusto, da questo prescelto come marito della figlia Giulia. I nemici di Roma però pagarono a caro prezzo l’incidente nel quale Druso perse la vita: Tiberio si recò prontamente nei luoghi dove il fratello aveva condotto la campagna militare. Le tribù germaniche inviarono emissari per chiedere una pace, che fu tuttavia respinta. Quando la medesima richiesta fu avanzata anche dai Sigambri, che inizialmente avevano rifiutato, Tiberio non ebbe esitazioni nell’ordinarne il massacro e la deportazione. Decisione che gli valse il consolato nel 7 a.C.

    Tiberio imparò presto che la ragion di Stato avrebbe imbrigliato la sua vita. Sfera privata inclusa. Anzi, alcune fonti sembrano propense ad attribuire proprio a questo aspetto l’insuccesso in cui cadde l’esperimento tiberiano del principato. Augusto, di fatto, lo obbligò a ripudiare la moglie, Vipsania Agrippina, che lo aveva reso padre, per sposare Giulia, la sua allegra e licenziosa figliola, avuta da Scribonia, nonché sorellastra di Tiberio, dal momento che Augusto condivideva il talamo con la madre del giovane, Livia. Neppure Giulia, del resto, era alla prima esperienza coniugale. Alla morte di Marcello, fu data in sposa, in seconde nozze, ad Agrippa, fidato amico di Augusto, e padre di Gaio e Lucio Cesare, che l’imperatore stesso considerava come potenziali pretendenti alla sua successione, tanto da adottarli alla morte di Agrippa.

    Il matrimonio tra Tiberio e Giulia non fu felice. E mai avrebbe potuto esserlo. Tiberio aveva rinunciato con dolore alla sua prima sposa, che amava. Né si infatuò mai di Giulia. Anche a causa delle dicerie che aleggiavano intorno alla sua fama, e non senza che Giulia stessa ne avesse una buona parte di responsabilità. I due sposi erano divisi anche da profonde e incolmabili divergenze di carattere: riservato e schivo lui, quanto socievole, leggera e libertina lei. Non fu più possibile ai due coniugi recuperare alcuna forma di rapporto dalla drammatica morte del figlioletto.

    Eppure la carriera di Tiberio procedeva a vele spiegate. Il consolato aveva rappresentato una tappa molto importante. Augusto addirittura gli concesse la tribunicia potestas quinquennale, con cui la persona di Tiberio era resa intoccabile, in quanto sacra. Tutto, nel 6 a.C., sembrava arridere – sul piano politico – a Tiberio. Il quale tuttavia stupì l’intera corte con la sua – apparentemente inspiegabile, nonché autolesionista – decisione di rinunciare alla vita pubblica, di lasciare Roma e relegarsi in volontario esilio a Rodi. Augusto reagì aspramente alla decisione del genero. Anche Livia si impegnò per convincerlo a restare. Fu tuttavia Tiberio a vincere il braccio di ferro. Ottenne di partire dopo quattro giorni di totale digiuno. Al quinto, si vide riconosciuta la facoltà di andare dove più gli aggradasse. Sui reali motivi che possono spiegare la drastica risoluzione presa da Tiberio si è interrogata anche la storiografia latina. Svetonio, nella sua monumentale De vita Caesarum, adduce motivazioni plausibili, quale il disgusto crescente provato nei confronti della moglie Giulia, che negli anni non aveva modificato di una virgola la sua condotta provocante e lussuriosa, ma non solo. Lo storico parla anche della consapevolezza maturata da Tiberio circa la scarsa considerazione nutrita nei suoi confronti da Augusto. E il suo esilio sarebbe stato il lasciapassare al principato per i figli di Augusto, Lucio e Gaio Cesare, ormai adulti e che lo stesso princeps sembrava preferire nella successione. Quanto a Tiberio, egli disse solo che era stanco, che troppi onori avevano fiaccato e nauseato il suo animo, e che non cercava altro che un periodo di riposo da tutto questo. Cassio Dione, invece, insiste sulla questione della discendenza: pare, stando alle sue fonti, che Tiberio temesse ritorsioni da parte dei figli di Augusto, che ritenevano di essere stati privati del posto di primo piano che spettava loro per nascita.

    Ad ogni modo, se Tiberio era già riservato per natura, durante gli anni trascorsi sull’isola greca rinforzò il suo tratto caratteriale, vivendo in disparte ed evitando tanto ingerenze negli affari dell’isola quanto di incontrare anche chi si recava a Rodi appositamente per fargli visita. La sola richiesta inoltrata alla corte imperiale fu quella di poter, ogni tanto, ritornare nell’Urbe per incontrare i propri parenti, ma Augusto oppose un netto rifiuto. Che permase, fermo e ostinato per anni, fino all’1 d.C., quando Tiberio fu riammesso a Roma, grazie alle suppliche della madre Livia. Nel frattempo si era liberato della moglie: tre anni prima Giulia era stata condannata all’esilio e Augusto aveva annullato il suo matrimonio.

    Il ritorno a Roma, tuttavia, non fu dei migliori. La fazione che parteggiava per i figli di Augusto era diventata cospicua, e Tiberio era guardato come fumo negli occhi. La sua incolumità era palesemente in pericolo. La prudenza con la quale il futuro princeps seppe muoversi sembrò essere ricompensata dalla sorte. I due Cesari morirono a breve distanza l’uno dall’altro, nel 2 e nel 4. Lucio era morto di un brutto male, mentre Gaio era stato assassinato in Armenia, colpito proditoriamente nel corso di una trattativa di pace. Solo sfortuna? Il destino è cieco, forse. Gli uomini però, quando devono servirsene a proprio vantaggio, ci vedono benissimo. E il sospetto che Livia Drusilla avesse una qualche parte nella duplice fatalità toccò la mente dei nemici di Tiberio.

    Augusto, ormai privato di tutti i suoi figli, non ebbe altra scelta: adottò Tiberio. Ad una condizione, e non da poco: per ricevere tale onore, Tiberio, a sua volta, avrebbe dovuto adottare Germanico, figlio del fratello Druso. Le riserve con cui Tiberio aveva sempre considerato i sentimenti di Augusto nei suoi confronti non erano immotivate. Se avesse potuto, se la sorte non avesse condotto anzitempo agli inferi tutti i prediletti del princeps, difficilmente questo avrebbe fatto ricadere la sua scelta su Tiberio. Il quale costituì, a tutti gli effetti, un ripiego. Era il solo discendente, diretto e di sesso maschile, ancora in vita. E a quel punto le inclinazioni personali dovevano essere messe da parte. Lo storico Svetonio insinua il sospetto che ad essere determinanti nella scelta furono invece le preghiere di Livia Drusilla, nonché la volontà dell’imperatore di dare motivo a Roma di rimpiangerlo, a causa di un successore del tutto inadeguato ad eguagliarne meriti e onori. Difficile però che l’uomo che era riuscito a dare a Roma il più lungo periodo di pace mai conosciuto avesse ceduto ad un’effimera seduzione.

    Gli anni che dall’adozione portarono Tiberio al principato furono occupati interamente da campagne militari, condotte vittoriosamente e insieme a Germanico, con soddisfazione delle milizie, e più volte Tiberio ricevette il titolo di imperator e l’onore del trionfo. Non solo. Il futuro princeps si dedicò anche all’amministrazione, coadiuvando Augusto. Fino all’anno fatale, il 14, quando quest’ultimo, ritiratosi nella villa di Capri, chiamò a sé Tiberio, presagendo la propria fine imminente. I due progettarono l’ultimo compito da svolgere: la riorganizzazione amministrativa dell’Illirico. Avrebbero dovuto partire insieme, ma Augusto fu colto da un malore all’inizio del viaggio, e dovette fermarsi a Nola. Tiberio, ormai prossimo alla meta, dovette fare un precipitoso dietrofront, raggiunto dalla notizia delle pessime condizioni del patrigno. Quando arrivò a Nola, però, l’imperatore era già deceduto.

    Tiberio stesso comunicò la notizia della morte del princeps. I senatori lo pregarono di assumere le funzioni di Augusto. Egli, stando alle fonti antiche, in un primo tempo rifiutò. Si trattò tuttavia di un diniego di circostanza, del tutto formale, per non fomentare l’impressione che Roma fosse ormai caduta – come di fatto era – nel baratro di un potere accentrato, assoluto e autocratico. Forse, in fondo, quell’incarico Tiberio neppure avrebbe mai voluto assumerlo, pago della sua carriera militare. È però impossibile pensare che in un momento di estrema emergenza per Roma, egli, così diligente e affidabile, venisse meno a un ruolo che gli era stato affidato da Augusto in persona. Tanto più che all’indomani della morte del patrigno non esitò a dotarsi immediatamente di una scorta armata, temendo probabili attentati contro la propria persona.

    Il più temibile rivale, tuttavia, non apparteneva alla schiera dei suoi nemici, ma a quella dei suoi più fidati collaboratori. La serpe covava in seno, anzi, alla sua stessa famiglia e rispondeva al nome di Germanico, figlio adottivo di Tiberio, abile generale, che ai confini settentrionali aveva conquistato gloriose vittorie, guadagnandosi la stima non solo dell’esercito, ma di tutto il popolo di Roma. Se la sua ambizione fosse stata superiore alla sua affezione per il patrigno, gli sarebbe bastato molto poco per scalzare Tiberio dal principato. La tacita rivalità con Germanico fece maturare in Tiberio rabbia e risentimento, unitamente al timore di poter subire, da lui o dai suoi partigiani, un qualche danno. L’imperatore dunque non si fece scrupolo a inviarlo il più lontano possibile, in Oriente, nei territori tradizionalmente più difficili da amministrare. La sua speranza era forse quella che, casualmente, Germanico vi trovasse la morte? Ad ogni modo, il senato gli conferì l’ imperium proconsulare maius su tutte le province dell’Oriente. A scanso di equivoci, e temendo – forse ancora più che Germanico stesso – le perniciose e nefaste influenze della moglie Agrippina maggiore, donna ambiziosa e scaltra, Tiberio optò per una soluzione che sembrò metterlo al riparo da qualsiasi tiro mancino. Ordinò che Germanico, nel suo incarico, fosse coadiuvato da un uomo di sua fiducia, Gneo Calpurnio Pisone, cui fu conferito il titolo di governatore della Siria. I due coatti compagni di viaggio lasciarono Roma nel 18. La reciproca concordia venne presto meno. Quando Germanico fece ritorno in Siria, dopo un soggiorno in Egitto, constatò, indignato, che il collega aveva abolito i provvedimenti che Germanico aveva deliberato. Pisone fece ritorno a Roma. La sua partenza però fu di poco seguita da un avvenimento alquanto particolare. Germanico si ammalò misteriosamente di un morbo che gli portò una morte lenta e fra aspri patimenti. Veleno? Nulla di più probabile. Prima di spirare, Germanico rivelò la propria convinzione che ad averglielo in qualche modo somministrato fosse stata la longa manus di Pisone. Le ceneri di Germanico furono riportate a Roma dalla moglie Agrippina, che aveva ricevuto sul letto di morte del coniuge, e dalla sua stessa bocca, l’ordine di vendicarlo.

    Nessuna parola tuttavia uscì dalla bocca di Tiberio, che disertò la cerimonia funebre. Scelta che, in alcuni ambienti, alimentò il sospetto di un suo coinvolgimento nella morte di Germanico. Che tuttavia non fu mai provato. A cadere in disgrazia fu Pisone. La morte di un uomo così popolare come Germanico non poteva che suscitare un polverone. Pisone subì un processo, sotto più capi di accusa, che riguardavano una moltitudine di reati commessi precedentemente all’incarico in Oriente. La condanna fu ritenuta dallo stesso Pisone inevitabile. E l’uomo preferì il suicidio all’onta. Tiberio ne era uscito candido. La sua popolarità, che già di per sé non godeva di grande salute, ne uscì tuttavia stroncata.

    Occorreva innanzitutto dare a Roma un nuovo successore, e farlo in fretta, per sopire il prima possibile voci e accuse più o meno velate. La scelta cadde, e inevitabilmente, su Druso, il figlio naturale dell’imperatore e al quale era stato anteposto il cugino Germanico, in virtù degli alti meriti militari.

    L’impero di Tiberio doveva tuttavia ancora conoscere il periodo più fosco. L’imperatore, nel 19, decise di entrare per la prima volta nel merito delle questioni religiose, verso le quali, fino a quel momento, aveva sempre dimostrato una spiccata indifferenza. Assunse una netta posizione nei confronti dei culti diffusi in Oriente. Proclamò contrari alla legge i culti caldeo e giudaico. Quanti furono accusati – a torto o a ragione – di esserne seguaci, furono destinati all’arruolamento coatto e inviati nei territori più ostici, pericolosi o malsani. Qualsiasi oggetto inerente a tali culti fu distrutto.

    Nella sua cerchia di collaboratori e consiglieri, inoltre, si era fatta progressivamente strada la figura di Lucio Elio Seiano, la cui carriera lo aveva portato fino alla nomina a prefetto del pretorio. Il suo subdolo modus operandi, i suoi modi leziosi, intriganti e infidi fecero presa sulla fragile personalità dell’imperatore, che andò attribuendogli un potere sempre maggiore. Riservato in apparenza – cosa che forse, nella mente di Tiberio, dovette apparire come un tratto comune ai due – Seiano era arso dal fuoco dell’ambizione. E il ruolo defilato del consigliere gli andava stretto. Ciò cui ambiva era eliminare Druso dalla lista dei pretendenti alla successione, ma non solo. Il reale obiettivo era assassinare Tiberio stesso e rimpiazzarlo. Seiano ebbe facilmente la meglio su Druso, e nel modo più abietto, ma consono alla sua natura. Sedusse e ottenne le grazie di Claudia Livilla, moglie di Druso, il quale pochi anni dopo morì, avvelenato. Forti sospetti si concentrarono subito su Claudia, ma non ne fu esente, ancora una volta, lo stesso Tiberio. Il quale, in verità, questa volta, non c’entrava nulla. Anzi, venne a conoscenza della dura verità solo ad anni di distanza dalla morte del figlio, che era stato assassinato proprio dalla moglie, opportunamente indottrinata dall’amante Seiano.

    A chi, ora, spianare la strada alla successione? Tiberio era avanti negli anni. I prescelti furono i figli di Germanico, già adottati da Druso. Ciò tuttavia non impedì a Seiano di procedere nei suoi piani proditorii. Anzi. Perseguitò i due giovanetti, la loro madre Agrippina. Nella lista dei suoi nemici inserì tutti gli amici di Germanico: alcuni furono condannati a morte e giustiziati, altri si diedero la morte da soli, altri ancora furono esiliati.

    Il clima, a Roma, era ormai avvelenato. Lo stesso Tiberio, che pure aveva riposto somma fiducia nel prefetto del pretorio, ne fu nauseato. E decise di trasferirsi a Capri, ancora su consiglio di Seiano. Consiglio accolto però di buon grado. Il popolo odiava l’imperatore e il suo factotum. Rimpiangeva Germanico. E Tiberio voleva starne lontano, tanto più che aveva contratto una malattia che aveva deturpato il suo viso, rendendolo ancora più riservato, fino ai limiti della misantropia. Lasciare Roma, però, non era la soluzione. Seiano ebbe ancora più libertà di manovra e, di fatto, fu in quel tempo il vero amministratore dello Stato. A modo suo, naturalmente. Dall’imperatore aveva persino ottenuto il permesso di portare a Roma le novi coorti pretorie, prima dislocate tra l’Urbe e altre città. Il senato perse poteri e competenze, schiacciato e ridotto all’ombra delle sue effettive prerogative. I nemici furono eliminati a manciate, sotto l’accusa di lesa maestà, facilmente confezionata a piacimento dello stesso Seiano. I delatori, ossia coloro che, abbindolati dalla promessa di facili ricompense, avevano fatto della denuncia il proprio mestiere, si moltiplicarono. In tutto questo, il prefetto del pretorio, ormai arbitro assoluto della politica imperiale, si trovò ad agire indisturbato. E, sgombrato il campo da numerosi potenziali nemici, passò all’attacco diretto contro i retaggi di Germanico e della sua memoria. A farne le spese fu innanzitutto Agrippina, insieme al suo figlio primogenito, Nerone, accusato di aver tramato contro Tiberio e confinato sull’isola di Ponza, dove trovò la morte per stenti. Anche la madre fu condannata all’esilio, con l’accusa di condotta adulterina, e anch’essa morì lontana da Roma, sotto l’infamia di un reato che non aveva mai commesso.

    Seiano si era indubbiamente spianato la strada verso la successione. Ottenuto nel 31 il consolato, spostò la sua ambizione sulla tribunicia potestas. A frenarne l’ascesa fu Antonia, vedova di Druso maggiore, la quale, in accordo col senato, fece pervenire all’imperatore un’epistola con cui lo metteva al corrente dei crimini e delle nefandezze di cui, negli anni, si era macchiato Seiano, abusando della sua fiducia. E non omise neppure il progetto di attentato ai danni di Tiberio, progetto che ormai Seiano stava per concludere. La vendetta di Tiberio fu proporzionata ai delitti di Seiano. Fu spietata e servita con l’inganno.

    Tiberio gli conferì la carica di pontefice, affinché ciò sembrasse un preambolo in attesa della tribunicia potestas. Allo stesso tempo rinunciò al consolato, cui era associato Seiano, il quale non poté che rinunciarvi a sua volta. A questo punto, in gran segreto, nominò Macrone, uomo di comprovata lealtà, prefetto del pretorio. Tiberio non lasciò nulla al caso: a Macrone affidò il delicato compito di raggiungere il più rapidamente possibile Roma, e di prendere accordi col nuovo console, Memmio Regolo, e col prefetto dei vigiles, Grecinio Lacone, perché il senato fosse convocato per il giorno successivo sul Palatino, nel tempio di Apollo.

    Alla seduta, l’indomani, prese parte anche Seiano, il quale fu accolto dalla tanto attesa notizia: da Capri era giunta un’epistola dell’imperatore, il conferimento della tribunicia potestas era cosa fatta. Così, almeno, credette. Giacché non sospettò nulla. E nulla infatti ebbe da obiettare quando, preso il suo posto al consesso dei senatori, i pretoriani – su invito di Macrone – lasciarono l’ingresso al tempio, sostituiti dai vigiles di Lacone. La lettura della missiva di Tiberio durò a lungo: il princeps aveva dato fondo a tutta la sua scorta di prolissità, di luoghi comuni e di vezzi retorici per allungare il più possibile il contenuto. Poi, la chiusa: folgorante, bruciante, inattesa. Tiberio accusava Seiano di lesa maestà e ne ordinava l’arresto. L’ex prefetto del pretorio rimase a tal punto sbigottito da non accennare neppure la minima reazione. Fu condotto in carcere dai vigiles. A processarlo furono i senatori. La condanna fu prontamente emessa: pena capitale e damnatio memoriae. Seiano fu giustiziato la notte stessa, nel Mamertino. Il cadavere fu lasciato alla mercé del popolo. Ciò che ne rimase, fu ben poco, e in pessime condizioni. A distanza di pochi giorni la stessa sorte fu riservata ai suoi figli. Apicata, un tempo moglie di Seiano, decise di suicidarsi per sfuggire all’ira del popolo. Ma non prima di aver scritto e inviato a Tiberio una lettera, con la quale informava il princeps delle responsabilità che coinvolgevano anche Claudia Livilla, insieme a Seiano, nella morte di Druso. La donna fu processata, ma la condanna non poté essere eseguita, in quanto Claudia si era già data la morte per inedia. Tutti coloro che avevano collaborato in qualche modo con Seiano furono chiamati a rendere conto delle proprie colpe: alcuni furono uccisi, altri indotti al suicidio.

    La morte di Seiano e la ripulitura di Roma dagli strascichi della sua scelleratezza non sistemarono tuttavia le cose. Tiberio era anziano. Non abbandonò Villa Jovis, la prediletta fra le residenze del princeps a Capri. Non mutò la propria condotta, sulla quale gli storici latini narrano piccanti episodi riguardo a vizi di gola, alla lussuria e alle altre sfrenatezze che, a detta loro, la caratterizzavano nella quotidianità. I sudditi speravano in un successore? Forse. Ma chi sarebbe stato? Colui che da anni era stato il più probabile candidato – Seiano – ormai era fuori gioco. E quando lasciò il mondo dei vivi anche Druso Cesare, il maggiore fra i figli di Germanico sopravvissuti alle persecuzioni di Seiano, il campo della scelta fu ristretto a due possibili aspiranti, due nipoti dello stesso imperatore: Tiberio Gemello e Gaio, ormai maturo con il suo quarto di secolo compiuto e oggetto di una palese predilezione da parte dello zio. Il giovane era meglio noto con il soprannome di Caligola, che gli era stato attribuito fin da bambino. Il defunto Germanico però non aveva visto scomparire tutti i suoi accoliti. Fra coloro che erano sfuggiti alla mannaia dell’ex prefetto del pretorio vi era anche Claudio, il fratello. Tiberio non lo prese in considerazione. Come, del resto, a suo tempo, Augusto non aveva scommesso un sesterzio su di lui. E per lo stesso, identico motivo: troppa debolezza, poca scaltrezza, poca decisione. Qualcuno dubitava che fosse persino sano di mente. Quanto a Tiberio Gemello, aveva dieci anni in meno rispetto al diretto concorrente e voci di palazzo lo indicavano come figlio spurio di Seiano.

    Insomma, tutto sembrava spingere nella direzione di una pronta successione di Caligola al trono. Lo stato di salute dello zio, peraltro, non era florido. Nel 37, morso da nostalgia, Tiberio prese l’inattesa quanto inopportuna decisione di lasciare il dorato esilio campano per fare ritorno nell’Urbe. Durante il viaggio però fu informato che non tutti, a Roma, vedevano di buon occhio il suo ritorno. C’era da stare attenti e guardarsi le spalle. Tiberio evitò di caricarsi dell’onere di provvedere alla propria incolumità, ormai stanco e anziano, provato nel corpo come nell’animo. E ordinò il dietrofront. Non rivide più Capri. Nei pressi di Miseno fu colto da un improvviso malore, che lo costrinse a trascinarsi in uno stato delirante per alcuni giorni. Fino a che non sopraggiunse una morte apparente. Giunta a Roma, in senato, la notizia, furono fatti tutti i preparativi per l’acclamazione di Caligola a princeps. A guastargli la festa fu lo zio, che pensò bene di riprendersi, destando dapprima timore e sgomento, come se fosse tornato dagli inferi; poi la paura cedette il posto alla rabbia. Chi era disposto a tenersi un imperatore vecchio, sull’orlo della morte e che nessuno aveva mai amato? Il prefetto Macrone, anche per evitare che la situazione a Roma degenerasse fino a sfociare in disordini, ordinò che a Tiberio fosse inflitto quel colpo di grazia che Madre Natura sembrava non volergli assestare. L’anziano princeps morì soffocato fra le coperte del suo letto. E fu solo allora che a Roma fu resa pubblica la notizia del suo decesso. Il popolo si prodigò in scene di gioia e di giubilo. Statue e monumenti che ne immortalavano l’effigie furono distrutti dalla furia della plebe. Perché tanto livore? In fondo Tiberio a suo tempo era stato un ottimo generale, del tutto ineccepibile. La sua disgrazia era stata diventare imperatore. E le fonti antiche non risparmiano dettagli negativi, dando credito a tutte le leggende, le dicerie e le critiche che si erano andate diffondendo – anche impropriamente – su un imperatore, il cui grande limite fu coltivare un’indole troppo schiva, appartata e malinconica. Secondo Tacito, fino a che furono vivi Germanico e Druso, Tiberio non fu che un virtuoso ipocrita. La sua vita fu continuamente caratterizzata da una sapiente mescolanza di bene e di male. Ed ebbe l’accortezza – sempre secondo l’autore degli Annales – di occultare la sua vera indole fino a che non ebbe al fianco Seiano, la cui presenza lo incoraggiò a dare sfogo alle sue passioni più crudeli e sfrenate. Il termine usato dallo storico è scelera: atti scellerati e malvagi, dissolutezze, veri e propri delitti avrebbero caratterizzato la condotta del Tiberio imperatore, eccessivo – a dispetto dell’apparente riservatezza – anche nella lascivia. Tacito lo descrive nei panni di un fiero sostenitore della delazione come strumento di potere e insinua che fossero estremamente generosi i doni omaggiati a chi accusava chicchessia di lesa maestà, indipendentemente dalla fondatezza reale o presunta del fatto.

    Non diverge di molto il ritratto delineato da Svetonio. Egli consegna alla memoria dei posteri l’immagine di un imperatore vizioso, che aveva nascosto per anni agli occhi del popolo i propri corrotti costumi, non sempre con successo, dato che in gioventù i suoi commilitoni lo chiamavano Biberio, in ragione del suo smodato amore per il vino. Che però non costituiva l’oggetto prediletto delle sue passioni. L’astrologia era per lui un’ossessione: credeva che tutto fosse già scritto nel destino. Il sesso lo accecava. Nella villa di Capri aveva adibito una stanza, appositamente arredata e predisposta per soddisfare la sua vena lussuriosa, e nella quale ogni giorno giovinetti di ambo i sessi erano costretti dal princeps ad accoppiarsi dando vita alle più bizzarre e perverse combinazioni. Infamia: così sono chiamati da Svetonio gli atti di cui era protagonista Tiberio, turpi oltre ogni dire, impossibili persino da riferire per iscritto. Fu persecutore dei suoi stessi parenti, poi della famiglia di Seiano e, fatto giustiziare questo, non ebbe più remore nell’esercitare la sua crudeltà. Che non imparò da Seiano stesso – stando a Svetonio –, ma che gli scorreva nelle vene fin da bambino. E che il prefetto del pretorio non fece altro che concretizzare, servendo su un piatto d’argento all’imperatore le situazioni più favorevoli all’esercizio della sua perversa malvagità. Una malvagità che travalicò, nella sua leggendaria dismisura, i confini della mera storiografia, per fornire materia di intrattenimento anche agli autori di satire. Una di esse racconta che Tiberio era animato più dalla sete di sangue che non di vino! Bevanda che peraltro beveva sempre allo stato puro, senza mai mescerla ad acqua. Un ubriacone, insomma. E non giovò certo alla sua memoria – nell’era volgare – il fatto che Gesù abbia trovato la morte proprio sotto il suo principato. Anche se nessuna fonte certa consente di comprendere quale fosse l’atteggiamento di Tiberio nei confronti del cristianesimo. Egli però non si macchiò di persecuzioni nei confronti dei seguaci di Cristo. E la demonizzazione che avvolge la sua figura sembra cucita addosso ad uso e consumo degli storici che ne sono stati autori e del loro pubblico, fino a incrostare la verità di fondo, ossia che le crudeltà di cui Tiberio si macchiò erano il frutto di un destino da protagonista, subìto da chi volentieri avrebbe vissuto dietro le quinte.

    A contendergli lo scettro del più malvagio della dinastia, però, non sono in pochi. A cominciare dal suo diretto successore, Gaio, detto Caligola, passato alle cronache come più folle che non crudele. Svetonio, nel De vita Caesarum, ne delinea un ritratto inquietante, a partire dall’aspetto fisico e dalle fattezze del volto: quasi del tutto calvo, i suoi occhi fiammeggiavano, ed erano resi ancora più intensi e penetranti dal fatto che erano marcatamente incavati.

    Caligola – vezzeggiativo che in italiano si può rendere con l’espressione piccola caliga – era figlio di Germanico, a sua volta figlio adottivo di Tiberio. Aveva trascorso un’infanzia militaresca, sempre al seguito del padre nelle sue lunghe e continue campagne, il che lo costringeva ad indossare la calzatura dei soldati, la caliga appunto, da cui il soprannome. Fece ritorno a Roma solo dopo la morte del padre in Siria. Le fonti più critiche accennano all’ipotesi di una sua responsabilità nel decesso di Germanico, ma nulla può confermare tale supposizione.

    Fatto sta che, alla morte di Tiberio, Caligola salì al potere acclamato da tutti. Era giovane e, del resto, era pur sempre figlio dell’amato Germanico, di cui tutta Roma (con l’eccezione di Tiberio) aveva pianto la scomparsa. Il suo predecessore era stato mal tollerato e, infine, addirittura odiato: nessuno pensava che si potesse far peggio. Anche l’esercito lo guardava con simpatia, in virtù della sua infanzia vissuta nei castra.

    Le entusiastiche previsioni sul principato di Caligola tuttavia furono presto ridimensionate. La prima preoccupazione del giovane imperatore fu quella di eliminare potenziali nemici. E tali nemici furono individuati in seno alla nobilitas senatoria. Solo i senatori avrebbero potuto porre limiti al suo potere. Andavano dunque limitati, avversati, umiliati. E così fu. Fino all’eccesso – come vuole il racconto più famoso circa Caligola – di nominare senatore il proprio cavallo. L’aneddoto – che per alcuni dovrebbe costituire la prova provata della follia del princeps – non è altro, invece, che il sintomo del debordante disprezzo da lui nutrito nei confronti dei membri del senato, ritenuti talmente incapaci e degradati nella loro funzione da poter essere pacificamente sostituiti persino da un equino.

    Le sue sfuriate e l’ira che lo dominava erano ben note. Pretendeva onori divini. Adottò a corte un cerimoniale e rituali tipici dell’assolutismo monarchico dei sovrani orientali, consuetudine ignota a Roma e tradizionalmente odiata. Su questo punto, a suo tempo, Ottaviano aveva imbastito tutta la sua propaganda contro Marco Antonio, additandolo come un nemico di Roma e dei suoi costumi. Caligola fece introdurre la proskýnesis, ossia l’uso di prostrarsi al cospetto dell’imperatore. Ordinò che gli fosse innalzato un tempio, come se fosse un dio. Un altro aneddoto racconta di un banchetto in cui il princeps, all’improvviso e in modo del tutto inappropriato, scoppiò in una risata isterica davanti a un commensale. E alla domanda di questo sul perché stesse ridendo, l’imperatore rispose che stava pensando alla sua morte. Il commensale fu fatto uccidere poco dopo. Come fece uccidere, del resto, quel Tiberio Gemello che il suo predecessore aveva indicato al par suo come papabile erede nel proprio testamento. E che quindi, in teoria, avrebbe potuto reclamare legittimamente la coreggenza. Nel 38 fu indotto al suicidio, come il prefetto Macrone.

    Ha senso parlare di una patologia psichica? O Caligola fu solo un malvagio? Il suo comportamento era certamente curioso e oggi avrebbe destato la curiosità della psichiatria. Non conosceva regole e norme cui adeguarsi. Non provava alcun senso di colpa per gli atti scellerati di cui si macchiava con regolarità. Alcuni dicono che soffrisse di mal caduco, ossia epilessia. Forse la sua condotta crudele aveva avuto origine dal trauma per lo sterminio pressoché totale della sua famiglia, a partire dal padre. Forse era soltanto un machiavellico modus operandi adottato per esautorare il più possibile il senato. Il principato di Caligola, del resto, non fu avaro di stranezze e di atti eccentrici. Lo storico Cassio Dione ci informa sui numeri – esagerati – dell’arruolamento in quel periodo: imbracciarono le armi qualcosa come 250.000 uomini. E Svetonio racconta che, nel 39, Caligola si trovò a dover fronteggiare una rivolta scoppiata tra gli uomini dislocati sull’alto Reno e che, riportato l’ordine, si mise in marcia, alla testa di un numeroso esercito, per invadere la Britannia. Fino a qui, tutto nella norma. Se non che, a un certo punto, il princeps ordinò ai soldati di immergersi in acqua per cercare conchiglie.

    Caligola eccedeva anche nel lusso e nella prodigalità. Aveva – come si dice – le mani bucate. Non che le casse dell’impero patissero deficit preoccupanti. Certamente però, dopo il principato di Caligola, si presentarono decimate al suo successore. I beni del fiscus ammontavano, nel 37, a due miliardi e settecento milioni di sesterzi. Al princeps bastò un anno per liquidarli tutti. Al di là delle spese effettuate per necessità – comunque copiose –, Caligola fu estremamente generoso nell’organizzare simposi per la corte e feste per il popolo. Aveva capito tutto con la sua demagogia, ossia che il potere poggia le proprie fondamenta sul consenso della plebe. Che egli seppe ingraziarsi proprio a suon di giochi pubblici e di elargizioni. Inoltre Caligola amava il lusso, lo sfarzo più sfrenato. Ammiratore della monarchia assoluta, esigeva di imitare i sovrani orientali anche nell’ostentazione dell’opulenza. Il suo famoso cavallo, cui volentieri avrebbe conferito il rango senatorio, ebbe almeno in dono una stalla costruita in marmo e avorio. A un tale Livio Germinio, che gli rivelò di aver visto la sorella Drusilla, morta prematuramente, in colloquio con gli dèi in cielo, fece dono di un milione di sesterzi. A un auriga, di cui ignoriamo il nome, ne regalò due, e senza motivo. Considerata la vena dispendiosa del princeps, è inevitabile domandarselo: da dove traeva Caligola tutta questa disponibilità economica? Per rimpinguare le casse dello Stato non esitò a sequestrare e impadronirsi dei beni della nobilitas senatoria. Le cui sostanze erano di portata tutt’altro che indifferente. Per farlo, tuttavia, era necessario accampare un buon pretesto, anche per il princeps. L’accusa di lesa maestà – Seiano lo aveva dimostrato ampiamente – poteva funzionare come un’efficace cartina di tornasole. E Caligola non si fece scrupolo di abusarne. Molti fra i senatori – questo è fuori discussione – volevano la testa del princeps. E questo non era un mistero per nessuno. È anche vero però che molte delle accuse di cui Caligola si servì per espropriare i beni dei senatori furono confezionate a bella posta.

    Ciò nonostante, non fu la mano di un senatore a privare Caligola della vita. Il princeps morì nel 41, stroncato da una congiura di pretoriani, ordita e guidata da Cassio Cherea e Cornelio Sabino, due tribuni. Insieme a lui trovarono la morte la moglie Milonia Cesonia e la figlia Giulia Drusilla, ancora bambina. Chi gli sarebbe subentrato?

    I pretoriani avevano tolto di mezzo l’imperatore. I pretoriani avrebbero dovuto risolvere il problema. E in fretta. Non vi fu alcun dubbio che dovesse essere un membro della famiglia a ricoprire il ruolo. E questo significa che ormai tutti, a Roma, avevano di fatto accettato la transizione alla forma di governo di tipo monarchico. La scelta però era resa complicata dal fatto che occorreva investire su uno dei (pochi) superstiti. Fra chi era sopravvissuto alle epurazioni susseguitesi sotto Tiberio (e Seiano) e Caligola.

    Tiberio Claudio Druso, nipote del princeps Tiberio e figlio di Druso maggiore e Antonia minore, l’aveva sempre fatta franca. Alla morte di Caligola non era più un ragazzo, ma un uomo con mezzo secolo sulle spalle, vissuto e sopportato tra fatiche, malattie e disagi. E alla morte di Caligola era lui il solo su cui poteva ricadere l’onore (e l’onere) della successione. Fu il primo imperatore romano ad essere un provinciale: nato a Lugdunum (l’odierna Lione), proveniva dalla Gallia.

    Era sempre sfuggito alle congiure, poiché nessuno mai, dalla sua infanzia, lo aveva ritenuto un probabile candidato al principato. Dunque, nessuno aveva mai avuto una ragione valida per ritenerlo pericoloso. A partire dai suoi stessi genitori, che lo credevano affetto da una qualche infermità. La nonna Livia Drusilla gli indirizzava missive al curaro. La sorella Claudia Livilla addirittura paventava la remota ipotesi che potesse assumere il titolo di princeps, perché sarebbe stata un’onta per Roma e le sue tradizioni.

    Le descrizioni del suo aspetto, in effetti, non omettono la presenza di numerosi difetti fisici. La madre Antonia, figlia di Marco Antonio e Ottavia (e nipote di Augusto), lo definiva «un mostro d’uomo, non compiuto, ma solo abbozzato dalla natura»; e si vergognava di presentarlo in pubblico e alla vista del popolo. Una mentalità come quella romana, in cui una parte importante della virtus consisteva nel vigore fisico, difficilmente avrebbe digerito la presenza di un ragazzetto malaticcio in seno alla famiglia imperiale. Claudio inoltre sbavava di continuo ed era affetto da una pronunciata balbuzie. Quando il giovane ottenne la toga virilis (che a Roma era un po’ una sorta di rito di iniziazione dalla giovinezza all’età adulta, vissuto e festeggiato al Campidoglio), fu portato al colle a mezzanotte, in gran segreto, al riparo da sguardi indiscreti e senza alcuna voglia di festeggiare.

    Fu seguito dal suo precettore per un periodo che superò di gran lunga quello convenzionalmente assegnato, poiché la famiglia lo credeva infermo mentalmente e del tutto privo di forza di volontà. Si dice che la madre Antonia usasse l’espressione «è più scemo di mio figlio Claudio» come insulto. Nulla di cui meravigliarsi, dunque, se Claudio rinunciò molto presto a qualsiasi aspirazione nel campo della politica. Coltivò i piaceri dell’otium, e si dedicò con sincera passione a dotti ed eruditi studi di storia.

    Non ebbe fortuna neppure con le mogli. Anche se forse, tutto sommato, furono la sola vena di colore in un’esistenza votata al grigiore più anonimo. Sposato a Elia Petina, sorella di Seiano, divorziò da lei nel 31, per prendere in moglie l’impudica e chiacchierata Valeria Messalina, figlia di sua cugina Domizia Lepida.

    Claudio e Messalina erano divisi da una trentina d’anni, quando convolarono a nozze. Entrambi ne avrebbero fatto volentieri a meno, se un rifiuto non avesse implicato la collera di Caligola. Su suo esplicito ordine Messalina dovette acconsentire allo sposalizio, seppure appena quindicenne. Nonostante la giovanissima età, era già nota a Roma tanto per la sua bellezza quanto per i suoi modi intriganti e disinibiti. Ambiziosa? Dissoluta? Sfrenata? Insaziabile? Le fonti la descrivono così, da Plinio il Vecchio a Svetonio, da Tacito

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