In viaggio per la vita
Di Nicoletta Re
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Info su questo ebook
Il cancro divide o unisce una coppia?
Si riesce ad amare una persona nella sofferenza più estrema?
È il viaggio dell’eroina Nicoletta e del suo tuffo nel dolore, per approdare in un universo straordinario protetto e di pace: l’ospedale, dove ritrova il proprio benessere per poi essere nuovamente catapultata nella realtà della cinica e frenetica Milano.
La fede, il coraggio di affrontare i propri demoni e la speranza nel miracolo della guarigione sono elementi trainanti della combattente protagonista che risorgerà e riporterà la sua saggezza interiore nel mondo reale.
La coppia impara, si divide, cresce e ritorna vittoriosa nel mondo per testimoniare il valore dell’amore.
Nicoletta Re è nata il 12 marzo 1966 a Busto Arsizio. Completa i suoi studi presso l’istituto tecnico per periti aziendali di Gallarate e poi si trasferisce a Milano dove si laurea in Economia e Commercio presso l’Università Cattolica. Lavora come product e trade marketing manager a Milano in Unilever. Nel 1998 una diagnosi di leucemia mieloide cronica pone fine alla vita che vorrebbe vivere. Inizia però una nuova avventura con la sua psiconeuroimmunologa, aiutandola ad aprire Buddhaman, un centro per la cura e la riabilitazione di pazienti con il cancro. Tra mille difficoltà conclude un Master in Business Internazionale con focus Cina, grazie al quale farà partite un ambizioso progetto con un’azienda produttrice di riso. Continuando a lottare con la malattia fino ad arrivare alla completa guarigione. Oggi gestisce l’Associazione Italiana Pazienti Leucemia Mieloide Cronica che ha fondato insieme ad altri nove pazienti.
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Anteprima del libro
In viaggio per la vita - Nicoletta Re
Nicoletta Re
In viaggio per la vita
EDIFICARE
UNIVERSI
© 2020 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it
I edizione elettronica agosto 2020
ISBN 979-12-201-0284-1
Distributore per le librerie Messaggerie Libri
All’amore della mia vita
Dovunque si guardi, si trovano storie. Ce ne sono così tante intorno a noi: abbastanza per sostenere tutte le riflessioni, per rinsaldare tutte le certezze, per alimentare tutte le paure. Ci sono le storie dei vicini, dei passanti, degli amici. Quelle degli oggetti che compriamo, degli oggetti che desideriamo, degli oggetti che sogniamo. Le storie negli schermi, sui cartelloni, nei libri. E ancora le storie ricordate, quelle cercate, quelle che avremmo preferito evitare ma che comunque ci travolgono con il loro semplice accadere.
Ci sono le storie urgenti e ci sono le storie necessarie. Le prime sono quelle che liberano chi le scrive di un peso. Sono storie terapeutiche, lenitive, farmacologiche. Tali e tanti sono i casi della vita, e tanti e tali i modi di processarli, che spesso chi comincia a scrivere lo fa con il legittimo intento di sgravarsi di un’angoscia. Disegnare il proprio passato come qualcosa che non fa parte di noi, per poterlo comprendere meglio e magari, dopo tutta la fatica fatta, iniziare ad accettarlo. Parlare aiuta a stare meglio, e scrivere è un po’ come parlare con riguardo, in fondo.
Quando Nicoletta ha iniziato a descrivermi il suo progetto editoriale, ho pensato appunto che questa fosse la sua storia urgente. Ha vissuto esperienze difficili, dolorose e logoranti tanto per il fisico che per l’anima: sarebbe stato normale che volesse buttarle fuori.
Non ci ho messo molto a ricredermi. Abbiamo interessi e pezzetti di curriculum comuni, io e Nicoletta, e forse per questo velocemente siamo entrati in quel genere di sintonia per cui ci si manda messaggi in contemporanea. Nelle pagine del suo diario e, soprattutto, nelle sessioni di lavoro alla scrivania, ho visto e toccato il suo lungo percorso di elaborazione della malattia. Ho percepito il modo in cui Nicoletta ha abbracciato per intero la sua esperienza, scegliendo di vivere e di ricordare con consapevolezza e spensieratezza il dolore, le difficoltà, le gioie, le riconquiste e le vittorie. Ho constatato la forza del suo legame con Roberto, un legame che non ha solo superato
lo sconforto, ma che proprio nello sconforto ha trovato la sua solidità. Non c’era, nel diario di Nicoletta, nulla che volesse rigettare della sua vita. Nessun momento ancora indigesto. Nessun bisogno di rivalsa o di riscatto verso il passato. Anzi.
Nicoletta, da subito, ha pensato la sua storia per gli altri. Per chi sta vivendo la malattia, per chi è vicino a un paziente, per chi somministra le terapie. L’ha voluta raccontare come una testimonianza di guarigione e, soprattutto, di resilienza. Il messaggio di queste pagine è che si può essere felici, si può amare, si può essere amati anche durante il dolore. Anche grazie alla consapevolezza che porta il dolore.
Chi scrive storie urgenti lo fa senza preoccuparsi dell’effetto che produrrà negli altri. Le storie necessarie, invece, liberano chi le legge, prima di chi le scrive. Sono l’equivalente di un abbraccio, di una mano tesa, di un sorriso dietro la mascherina chirurgica. Sono un atto civico, sociale, umano. Un gesto di altruismo.
Per questo sono così rare e per questo sono così preziose.
Questa storia è necessaria: farà del bene a chi la leggerà. Nicoletta si è trovata suo malgrado in una storia che probabilmente avrebbe preferito evitare. Un imprevisto. Una sfortuna. Una terapia inefficacie.
L’ha saputa trasformare in una storia combattuta, sentita e, soprattutto, sua.
Dovunque si guardi, si trovano storie. Ce ne sono così tante intorno a noi.
Quella di Nicoletta è una storia per allontanare le paure, per nutrire le speranze, per rinsaldare la fiducia.
La storia che ci serve per essere migliori nelle situazioni peggiori.
Alessandro Mauri
insegnante di story telling, Mohole Milano
IN VIAGGIO PER LA GRANDE MELA
3 agosto 2016
Nicoletta sta sistemando qualcosa nella sua borsa. Sembrano fogli rilegati e mi viene in mente che non ho chiuso la claire del garage.
Mi guarda e con un fare un po’ altezzoso mi domanda: «Ti sei ricordato di chiudere il garage prima della partenza per l’aeroporto? Di solito lasci il portello aperto, arrivano i vigilantes e scassano tutto, perché chiudono manualmente e sai benissimo che la chiusura è automatizzata».
Io alzo gli occhi al cielo e mi dico: «Ecco che iniziamo con la solita ramanzina». Rompe le scatole in ogni momento. Anche ora che sta per iniziare la nostra vacanza. Mi guarda con fare un po’ accigliato. Lascio perdere. Ormai è troppo tardi per correre ai ripari. Ancora 2 ore e atterriamo a New York.
Ci guardiamo e non sappiamo cosa dirci.
C’è un po’ di turbolenza. Nicoletta si allaccia la cintura di sicurezza e ritorna a leggere i fogli rilegati, sembra un libro in costruzione. Sicuramente parlerà d’amore, mentre io decido di godermi la visione di un cazzutissimo film, come direbbe lei. Ed è proprio vero. Un thriller-horror: La cura del benessere ambientato in una Spa svizzera per ricconi dove i malcapitati pensano di ritrovare la salute e invece muoiono.
Sto viaggiando beato tra le valli svizzere e la voce di Nicoletta irrompe nel mio orecchio: «Ma con tutti i film che potresti guardare, proprio quello ti sei andato a scegliere?». Ufff, è proprio una scassapalle: mi riprende sempre. Ma se non fosse così, non sarebbe lei. La donna che incontrai 20 anni fa all’Old America a Milano e che mi intrigò non poco.
Guarda, guarda: è arrivata l’ora dello spuntino! La hostess si avvicina con il suo bel carrellino e mi porge il vassoio del pranzo. Con il sorriso sulle labbra mi rifila un chicken breast. Il cibo di questa compagnia aerea fa decisamente schifo. I soliti americani che camuffano un chicken breast con couscous di pasta e lo spacciano per cibo salutare. Mentre mangio questa sbobba, sogno l’hot-dog che mi aspetta all’atterraggio: bello, gustoso e imbottito con tanta ketchup e maionese! Mi viene già l’acquolina in bocca.
Sto inforcando l’ultimo boccone di couscous e il mio sguardo viene attirato dalla signora della poltrona accanto.
Qualche anno fa questa miss un po’ âgée non si sarebbe mai sognata di giocare a Candy Crash come una 15enne. Ride, gioca, guarda video che ha fatto con i suoi nipotini, manda sms vocali... insomma sta facendo tutto quello che le è possibile fare nell’era 4.0.
Dopo la performance 4.0 della signora, decido di ritornare al film che stavo guardando.
La mente mi porta altrove anche se il mio sguardo sembra essere incollato allo schermo.
Guardo per un secondo Nicoletta che si è addormentata e mi accorgo che le sue guance sono rigate da lacrime, 20 anni insieme e non so ancora cosa le passa per la mente.
Vengo distolto dal filo dei miei pensieri dal gingle con il quale la hostess annuncia la discesa verso l’aeroporto JFK di NY. Ci invita a rimanere ai nostri posti e ad allacciare le cinture di sicurezza.
Nicoletta si sveglia e i nostri sguardi si incrociano.
Sistemiamo le nostre postazioni e rimaniamo in silenzio in attesa dell’atterraggio.
L’aereo attracca al finger, scendiamo e ci incamminiamo verso l’area bagagli.
Il JFK pullula di gente: una mamma con una carrozzina ci sfreccia vicino. Sta correndo sul tapis roulant che la porterà chissà verso quale cancello d’imbarco o magari sta solo raggiungendo il marito; un ragazzo con il berretto degli Yankees al rovescio e le cuffie per la musica sta guardando il monitor per la sua prossima destinazione.
Un mega video mostra dapprima la scritta I Love NY
e poi la pubblicità di Lacoste, the crocodile.
L’aeroporto è un caos tanto è pieno di gente: un ragazzo è disteso sul pavimento con la testa appoggiata alla sua valigia mentre smanetta sul suo iphone.
Sulla mia destra si materializza Bookstone, uno dei posti preferiti di Nicoletta.
Ci imbattiamo in un Duty free con un M&M’s gigante che sorregge un mondo di cioccolatini.
Dobbiamo camminare per circa 20 minuti prima di arrivare al ritiro bagagli. Ne sono passati 10 e non ho ancora visto un carrettino degli hot-dog.
Ah eccolo! E fuggo via per farmi il tanto agognato panino americano.
«Roberto, 2 dollari buttati nella spazzatura!».
Nicoletta, arrabbiata mi strilla: «Il tuo stomaco non ti ringrazierà di certo!».
E penso: Ufff, che palle di donna. «Amore, ne vuoi uno anche tu?».
«No».
Mi faccio fare un hot-dog tanto imbottito che nell’addentarlo, ketchup e maionese mi rigano la bocca. Sembro un bambino.
Ci guardiamo e ancora non so cosa dirle. Mi porge dei fogli rilegati.
«Ma sono quelli che stavi leggendo in aereo?».
«Sì».
Se ne va e mi lascia solo con il manoscritto e il ketchup che mi cola dalla bocca.
IN OSPEDALE A GENOVA IL SECONDO TRAPIANTO
13 marzo 2014
Giornata difficile: mi mettono il catetere!
Sono in una spoglia sala d’attesa dell’ospedale San Martino di Genova: le pareti sono un po’ ingiallite. Si vede che è da molto che non vedono un po’ di vernice. Le sedie sono grigie in metallo e traforate: mi giro e rigiro perché non riesco a trovare una posizione comoda. Nell’angolo alla mia destra vedo una tenda verde appesa ad un’asta con anelli: lì i pazienti si spogliano per andare in sala operatoria. Accanto a me si siede una signora: è già spogliata, indossa un camice verde e una cuffietta per contenere i capelli. Capisco che è la prossima ad entrare in sala operatoria.
Non voglio pensare in questo momento: mi metto le cuffie del mio ipod e ascolto l’ipnosi che avevo registrato diversi anni fa con Eliana ed entro nel mio mondo: tutto questo mi rilassa e mi prepara all’operazione.
Si affaccia alla porta un infermiere e annuncia il mio nome: sono la prossima.
Mi spoglio di tutte le mie cose e le consegno a Roberto insieme all’anello di Dior che mi regalò qualche anno fa. Era Natale e mi disse: ti porterà fortuna
. Mi domando dove stia ora tutta questa fortuna...
Sono in sala operatoria distesa su un freddo tavolo in acciaio, mi mettono una coperta e vedo che mi legano!
«Perché?», domando.
«Eh, sa... la paziente precedente è scappata...».
«Scappata?!?».
«Era terrorizzata dall’operazione, visto che viene fatta in anestesia locale».
Mi rassegno e cerco di rilassarmi il più possibile, concentrandomi sul respiro e cercando di sopportare il dolore dell’anestesia locale e del tubo che mi viene infilato all’altezza del torace.
Ma non potevano fare una blanda anestesia generale in modo che tutte noi ci rilassavamo e non uscivamo con il torcicollo?
La tortura è finita. I muscoli del collo e delle spalle si sono così contratti dalla paura e dal dolore che non posso più girare la testa.
Basterebbe poco per rendere più sopportabile la vita di noi pazienti.
Esco dalla sala operatoria con il mio