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Il ghiaccio e la pioggia
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E-book352 pagine5 ore

Il ghiaccio e la pioggia

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Info su questo ebook


A soli ventisette anni, Tom Kalson è un ricco e famoso attore di Hollywood.
Grazie al sostegno dell’amico Jeremy Timos e del suo fidato agente Clark Stardan è riuscito a emergere e affermarsi in quel mondo di riflettori, macchine da presa, fama e gloria che tutti sognano ed ora, candidato all’Oscar come migliore attore protagonista, vede la sua carriera spiccare il volo.
La sua vita viene improvvisamente stravolta dall’incontro con Rain, una ragazza di diciannove anni con i capelli corvini e gli occhi di ghiaccio, della quale si innamora perdutamente.
La nuova storia d’amore non è però l’unica cosa che sconvolge l’intera esistenza di Tom: i fantasmi di un passato oscuro, un’accusa di omicidio e un detective determinato a risolvere il caso metteranno a dura prova la sua forza d’animo e lo costringeranno a fare i conti con un mondo tanto splendido quanto crudele…
 
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2021
ISBN9791220292528
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    Anteprima del libro

    Il ghiaccio e la pioggia - Giacomo Fusi

    sempre.

    1

    Un amaro sapore in bocca mi ricorda che sono sveglio e, soprattutto, che la notte scorsa ho bevuto parecchio. La testa inizia a pulsare e sono costretto ad alzarmi dal letto e a trascinarmi fino all’armadietto dei medicinali.

    Apro l’anta e cerco tra le numerose scatole: un mare di antidepressivi in pillole, fiumi di flaconi di psicofarmaci e antidolorifici sfilano tra le mie dita alla velocità della luce. Afferro contemporaneamente una confezione blu scuro e una bottiglia di vetro abbandonata nell’armadietto da chissà quanto tempo. Estraggo dal blister grigio brillante una pasticca bianca e la ingoio, accompagnandola con un lungo sorso di quella che potrebbe essere birra. Non riesco neanche a identificare il liquido che mi scende giù per la gola e va a mischiarsi con il piccolo involucro bianco nel mio stomaco.

    È incredibile quanta sete hai al mattino se la notte prima eri ubriaco marcio.

    Lascio la bottiglia sul tavolo della sala, un po’ di disordine in più non sarà un problema. La mia casa è già uno schifo dopo la festa di ieri sera. Striscio rasente al muro fino al bagno e accendo la doccia. Mentre aspetto che l’acqua si scaldi lascio un messaggio in segreteria a Nancy, la mia donna delle pulizie, una fantastica signora portoricana sulla cinquantina. Mi spoglio lasciando cadere i vestiti sul pavimento e mentre provo a entrare in doccia un conato di vomito mi sorprende. Mi catapulto sul water e ci sputo dentro tutto l’alcool della sera prima.

    «Vaffanculo» penso, mentre mi pulisco la bocca con il dorso della mano e con l’altra tiro lo sciacquone. Mi rialzo a fatica e arranco verso la doccia; riesco a entrarci e subito una cascata d’acqua bollente mi investe. Lascio che la mia mente inizi a vagare, nel vano tentativo di riuscire a ricordare cos’ho combinato la sera prima.

    Mi ritrovo a pensare agli inizi della mia carriera, ai primi passi nel mondo del cinema, ai numerosi provini fatti, a tutte le volte che mia madre mi scarrozzava in giro sulla sua Chevrolet rossa, la macchina che il nonno le aveva lasciato prima di morire.

    Al solo pensiero mi sale un altro conato di vomito.

    Mi insapono cercando di ricordare gli impegni che ho segnato in agenda per oggi e, missione ancora più difficile, quelli che ho segnato per tutta la settimana. 

    Dovrei avere un appuntamento con il sarto, anche se non ricordo quando, la notte degli Oscar si avvicina e devo ancora trovare un vestito decente per non sfigurare di fianco a quella massa di sorrisi rifatti dei miei colleghi attori. Oggi pomeriggio sono impegnato in un incontro con i giornalisti e questa sera sono invitato al Live Actor Show, uno stupido talk show dove ti bombardano con domande ridicole, o per lo meno ci provano. Non è facile far sentire in soggezione un attore. Primo, nella vita sfrenata della Hollywood notturna le situazioni imbarazzanti sono innumerevoli; secondo, nel caso in cui il presentatore sia più abile del previsto e riesca a fare una domanda poco desiderabile, riusciamo sempre a fare un’espressione neutra o divertita, giusto per non dargli la soddisfazione di essere riuscito a metterci i bastoni tra le ruote. Del resto siamo attori, è il nostro lavoro.

    Esco dalla doccia e, con una mano, afferro l’asciugamano mentre una pioggia di gocce investe il pavimento come un acquazzone primaverile.

    Avvolgo l’asciugamano intorno alla vita e mi ritrovo a fissare la mia immagine appannata per il troppo vapore sullo specchio. La condensa mi impedisce di vedere le borse nere sotto gli occhi, occhiaie che solo una nottata infinita di alcool e droga può provocare.

    Sospiro e con il palmo della mano tento di pulire la superficie lucida dello specchio, senza risultato.

    Resto immobile, ancora un po’ stordito, mentre la mia figura spettrale mi fissa. Osservo attentamente me stesso e la mia mente inizia a svuotarsi. Non riesco a pensare a niente e, per un secondo infinito, evado dalla realtà. Il mio cervello, disconnesso dal resto del mondo, vaga tra pensieri indefiniti in attesa che il treno merci che è la mia vita quotidiana mi investa, spappolandomi sui binari.

    Il mio secondo di infinito finisce scivolando via da me lentamente, strisciando, e torno a prendere coscienza del mio corpo, delle mie braccia, delle mie gambe, del mio stomaco, dei miei polmoni rovinati dal catrame delle sigarette. Inizio ad asciugarmi, non riesco a sopportare la sensazione di umidiccio sulla pelle e sul mio fisico forgiato dalla palestra e dall’attività fisica. Non si può vivere ad Hollywood e pensare di non essere in perfetta forma.

    Droghe a parte.

    Tolte le molte ore di lavoro, che richiedono una certa prestanza fisica e mentale, il vero problema è che si vive sempre in vetrina; dietro ogni angolo potrebbe nascondersi un paparazzo pronto a pubblicare un mio scatto sulla copertina del più influente giornale di gossip. Non essere in perfetta forma non è ammesso, come se nei contratti che firmiamo ci fosse una clausola, una di quelle scritte in minuscolo negli angoli più sperduti del foglio, che preveda che per poter lavorare bisogna avere un fisico perfetto.

    Mi infilo i boxer, non ho intenzione di indossare altro per il momento. Esco dal bagno, percorro il corridoio ed entro in cucina. Sento brontolii indistinti provenire dal mio stomaco e decido di prepararmi qualcosa, giusto per placare la fame. La sbornia della scorsa nottata mi ha lasciato con un certo, inspiegabile appetito. Apro il frigorifero e, cercando di capire quali delle pietanze riposte sugli scaffali siano ancora commestibili, opto per del latte.

    Recupero dalla credenza la mia vecchia tazza di Capitan America, un vecchio regalo che mi aveva comprato mia madre dopo essere riuscito a superare un provino, ottenendo il ruolo come comparsa in una serie televisiva che aveva spopolato in America quando avevo otto anni. Ricordo che la parte era molto semplice: dovevo solo starmene sdraiato, in mutande, su di un letto a baldacchino e interpretare il nipote malato di tisi di uno dei protagonisti. Un gioco da ragazzi. Tre puntate, neanche una parola. L’inizio di una grande carriera. L’importante è riuscire a entrare nel giro, conoscere le persone giuste, avere i contatti dei personaggi più influenti del settore. E mia madre in questo era una vera professionista. Chissà quanta gente ha dovuto scoparsi per farmi arrivare dove mi trovo ora, solo per potersi vantare del suo amato figlio. Perché se l’ha fatto per qualcuno, quel qualcuno non sono di certo io.

    Usciti dalle audizioni per la fantastica parte del bambino morente eravamo entrati in una gelateria, nel vecchio cinema vicino a casa, attrezzata anche con i vari gadget del film del momento. Gelato fragola e limone come ricompensa. E la tazza come bonus.

    Verso del latte freddo e ci aggiungo dei cereali che recupero dalla credenza. Abbandono la confezione di cartone e il latte avanzato sul tavolo, Nancy dovrebbe arrivare tra una ventina di minuti. Per quell’ora me ne sarò già andato e lei potrà riportare la casa al suo vero splendore.

    Mi lascio cadere sul mio divano da 235.000 dollari, rischiando di rovesciarci sopra parte del mio latte. Come se me ne importasse qualcosa.

    Accendo la tv e mi preparo ad assistere alla mia vita in formato 65 pollici, grigio e sottile come un foglio di carta. Tutta la mia essenza è racchiusa in pochi millimetri di plastica e protetta da uno schermo a LED ad alta definizione.

    Chiunque stia recitando in quella televisione sono io e io sono quel qualcuno. Stessa vita, stesse emozioni, stesse espressioni facciali, stesso ‘ciak si gira’. Stesso tutto.

    Mi infilo in bocca una cucchiaiata carica di calcio e fibre guardando distrattamente le immagini sullo schermo. Afferro il telecomando e cambio canale nel tentativo di trovare qualcosa di meglio. Lascio scorrere i canali fino a quando non trovo un programma sull’inizio della vita sul pianeta. Mi hanno sempre affascinato i documentari e, fin da piccolo, passavo intere serate appollaiato sul divano con lo sguardo incollato alla TV. Prima di andare a dormire, il divano era il mio rifugio. Mia madre mi preparava un bicchiere di latte bollente, prendevo la mia copertina preferita e mi sedevo a gambe incrociate, rapito dalle immagini che correvano sullo schermo del televisore. La differenza è che il divano non costava quella cifra esorbitante, la mia TV non era un sessanta pollici alta definizione e, soprattutto, il mio latte era caldo.

    Cellule di ogni forma e colore danzano sullo schermo del mio televisore mentre ascolto, concentrato, una voce profonda narrare come la nostra esistenza su questo pianeta sia dovuta a un gruppo di piccole diatomee, esseri unicellulari microscopici e apparentemente inutili, che hanno iniziato a cagare ossigeno nell’atmosfera circa cento milioni di anni fa. Resto incantato ad ascoltare l’uomo che prosegue spiegando come questo fatto, probabilmente unico nell’universo, abbia generato una reazione a catena quando vengo distratto dal suono del mio cellulare.

    Prendo l’apparecchio e guardo chi si è permesso di disturbare il mio piccolo momento di calma assoluta.

    È un messaggio di Angelica Filler.

    Una gran figa.

    La signorina Angelica era una delle donne più belle che si potessero trovare a Los Angeles. Non poteva essere considerata un homo sapiens sapiens, ma tutto quello che il buon Dio non le aveva dato in fatto di materia grigia l’aveva compensato dandole una bellezza mozzafiato. Angelica era il classico esempio di come un fisico perfetto e un briciolo di talento, nel novanta per cento dei casi, riesce a portarti a scalare l’Olimpo della fama. Se ci aggiungiamo un agente con i contro coglioni, non ti limiti a scalare la vetta del successo, hai un posto assicurato di fianco al potente Zeus.

    Il messaggio è semplice e coinciso.

    «Dopodomani h 22.00 party a casa mia! Non mancare! Ci conto!». Ogni singola lettera suona come un dovere morale, come se l’idea di non andare alla festa non fosse neanche lontanamente da prendere in considerazione. Aggiungo controvoglia l’impegno alla lista di quelli già presenti sul mio cellulare. Preferirei farmi sparare che andare a quella festa. Metà degli invitati saranno miei colleghi e l’altra metà un branco di oche starnazzanti che vogliono solo portarci a letto. Quest’ultima metà è composta, in parte, dalle amiche d’infanzia della bellissima Angelica; la venere di Hollywood è stata scovata in uno di quei ridicoli concorsi di bellezza per bambine viziate e da lì imbragata e trascinata fino al settore cinematografico. Senza passare dal via.

    Già me la vedo all’età di quattro anni sculettare come una cubista professionista sul palcoscenico di qualche stronzata tipo Little Miss California o Little Miss Ohio o miss di un qualunque altro stato. Ed è lì che ha conosciuto tutte le sue fantastiche e interessantissime amiche.

    Digito un «OK» di risposta, giusto per farle sapere che sarò entusiasta di partecipare al suo imperdibile party. Amo le feste ma non quando si tratta di passarle in compagnia di persone che quasi non conosco. Guardo l’orologio appeso alla parete, un altro pezzo di design acquistato per me da qualcuno per addobbare la mia vita.

    Sono le 11.30.

    Mi alzo e decido di preparami per uscire a pranzo. Jeremy mi aspetta al Just Food, uno dei miei locali preferiti. Abbandono la tazza nel lavello e, passando per la camera, entro nella mia cabina armadio. A occhio e croce potrebbe essere più grande dell’appartamento in cui vivevo da bambino. La mia vecchia cucina ora è l’angolo delle camicie, il bagno quello dei pantaloni, la camera è piena di maglioni e magliette, il ripostiglio è stato sommerso dalla biancheria intima e il soggiorno, se così si poteva chiamare quel locale di 6 metri quadri della mia vecchia casa, ospita le scarpe. Forse era veramente questo, il lusso, quello che mia madre voleva per me. Oppure l’ha fatto solo per un chissà quale senso di appagamento personale. Credo non lo saprò mai. Non ho un rapporto stabile con mia madre da anni, solo qualche telefonata ogni tanto, da quando ho deciso di vivere la vita a modo mio relegando lei e le sue opinioni lontano da me.

    Entro nel bagno-armadio ed esco indossando un paio di jeans stretti, scelgo una maglietta bordeaux e infilo i piedi nelle mie fidate Chuck Taylor. Da una mensola recupero i miei Ray-Ban, senza i quali le mie occhiaie sarebbero in mondovisione sulla copertina di ogni giornale scandalistico del pianeta.

    Mi sposto in cucina come un fantasma, le pillole aiutano ma non fanno passare un dopo sbornia così facilmente. Lascio un post-it sul tavolo della cucina con un messaggio per Nancy:

    «Nancy la casa è un disastro. So che al mio ritorno sarà come nuova. Un abbraccio. Tom.»

    Da un lato le penso veramente quelle parole.

    Dall’altro voglio solo guadagnarmi un qualche manicaretto per cena. Del resto la pago abbastanza per sistemare il casino della mia casa.

    Afferro al volo il cellulare abbandonato sul divano e me lo infilo in tasca. Cerco le chiavi di casa, in mezzo al disastro di vestiti, cibo avanzato e chissà cos’altro scovarle non è un’impresa da poco. Le trovo sotto il tavolo della cucina, solo Dio sa come abbiano fatto a finire lì. Smetto di provare a ricostruire il percorso compiuto dalle mie chiavi di casa, apro la porta ed esco sul pianerottolo. La mia reggia è al quinto piano di un palazzo residenziale. A Beverly Hills, ovviamente. Purtroppo non ho l’attico, quando hanno messo in vendita gli appartamenti grandi come le ville dei quartieri limitrofi una coppia di sceneggiatori me l’ha soffiato da sotto il naso. O per meglio dire, da sotto il portafogli.

    Chiudo la porta a due mandate. Sicuramente non ce n’è bisogno. C’è un solo ingresso per poter entrare nel palazzo e la guardia giurata che lo piantona mi sa tanto di ex detenuto. Alto un metro e novanta, spallato come un nuotatore e muscoloso come un toro. Ho la sensazione che non si farebbe problemi a piantare un colpo in testa a chiunque dovesse osare sfidarlo, tentando di superare l’ingresso del palazzo senza il suo consenso. Un po’ come Cerbero, il mitologico cane a tre teste a guardia dell’Ade, il regno dei morti per gli antichi greci.

    Infilo di nuovo le chiavi in tasca e mi giro, pigiando il tasto per chiamare l’ascensore. Mi specchio nel metallo lucido delle sue porte per controllare che non ci sia nulla fuori posto. L’immagine riflessa è quella di un bel ragazzo di ventisei anni, alto, bel fisico, con gli occhi azzurri e i capelli castani alla moda.

    Le porte si aprono scorrendo e la mia immagine viene sostituita con il riflesso dello specchio applicato alla parete interna dell’abitacolo. Entro aspettando che le lastre di metallo tornino al loro posto e, inondato dalla luce al neon dell’ascensore, schiaccio un tasto e inizio la mia discesa verso il piano terra.

    Mi appoggio alla parete e incrocio le gambe. Do un altro rapido sguardo allo specchio, sistemo la maglia e preparo il mio sorriso migliore per il mondo. Mentre la mia anima scende insieme all’ascensore al centro dell’inferno scrivo a Jeremy che sto uscendo di casa.

    Jeremy Timos: alto, bello, modello di punta di una famosissima casa di moda, conosciuto in ogni parte del mondo. Il mio migliore amico, da sempre.

    L’unico lato positivo del farsi sballottare tra un provino e l’altro da mia madre era che avevo conosciuto un bambino come me che odiava quella vita tanto quanto la detestavo io e che aveva una madre come la mia disposta a farsi mezzo mondo per farlo diventare qualcuno.

    Me stesso ancora più bello insomma.

    Eravamo subito diventati amici.

    La prima volta che avevo visto Jeremy ero seduto nella sala d’attesa di un capannone, a Hollywood. Stavo aspettando il mio turno ripassando a memoria le battute di un film scadente, una commedia su un collegio privato e le lotte tra professori e alunni, quando un bambino biondo con gli occhi verdi mi aveva vomitato addosso per la troppa tensione e, non contento, mi era collassato sopra, facendo rotolare entrambi a terra e sporcandosi anche lui con il suo stesso vomito.

    Alle nostre madri erano schizzati gli occhi fuori dalle orbite e avevano iniziato a strillare mentre ci trascinavano in bagno per cercare di renderci presentabili per il provino. Mia madre mi aveva tolto i pantaloni e la camicia sporchi di vomito, lasciandomi in mutande, al freddo, in mezzo a un bagno puzzolente. Ero terrorizzato all’idea che qualche altro candidato potesse entrare e vedermi in quelle condizioni; avevo iniziato a guardarmi intorno, impaurito, per controllare di essere effettivamente solo e avevo incrociato lo sguardo e la faccia cadaverica di Jeremy, anche lui abbandonato in mutande dalla madre. Mi aveva sorriso e aveva sussurrato delle scuse. Io avevo ricambiato il sorriso e gli avevo detto che non mi importava e che grazie al suo mal di stomaco avevo saltato il provino. Mentre io e Jeremy diventavamo migliori amici, le nostri madri si azzuffavano per terra, incolpandosi l’un l’altra per aver partorito un figlio tanto coglione da aver rovinato l’audizione all’altro.

    Da quel momento a ogni provino vedevo Jeremy e lui vedeva me. Il problema era che non potevamo nemmeno salutarci, dal momento che le nostre madri si detestavano. Ci scambiavamo sguardi furtivi carichi di emozioni, come quelli che si scambiano due amanti quando si incontrano per strada mano nella mano con il rispettivo coniuge.

    Siamo diventati amici senza dirci una parola e raccontandoci tutto con gli occhi allo stesso tempo. Forse è per questo che Jeremy è l’unica persona al mondo che mi capisce veramente, il solo in grado di scrutarmi l’anima rivoltandola da cima a fondo.

    Durante i nostri incontri silenziosi le nostre madri non perdevano occasione per sbattersi in faccia i nostri risultati, le parti da noi ottenute e quelle a cui eravamo candidati. A noi non interessava, eravamo troppo impegnati a guardarci per ascoltare i litigi infantili di quelle che avrebbero dovuto essere le nostre educatrici.

    All’età di dieci anni mia madre mi aveva regalato un telefono cellulare come premio per la mia finta costanza nel tentare di diventare il miglior attore del mondo e, non appena l’aveva saputo, la madre di Jeremy aveva fatto lo stesso. Al provino successivo il ragazzino, mentre io entravo nella sala delle audizioni e lui ne usciva, aveva finto di tirarmi una spallata e mi aveva infilato in tasca un biglietto di carta stropicciato con scritto sopra il suo numero di cellulare.

    Ho perso il conto delle notti passate sveglio a parlare con Jeremy dei nostri sogni, del mondo, dei provini, di me, di lui, di tutto, di niente. E provino dopo provino i nostri sguardi continuavano a incrociarsi e a comunicare cose mai dette.

    Poi di colpo alle audizioni ero rimasto solo.

    Jeremy e sua madre erano come scomparsi. A quanto pare lui era più bravo a uscire bene in foto che a recitare e lei non aveva perso occasione per strapparlo al mondo di Hollywood e scaraventarlo in quello della moda.

    Avevamo continuato a sentirci, protetti dalla segretezza dei nostri telefoni cellulare e dal rapporto inesistente che le nostre madri avevano con la tecnologia.

    Ci eravamo ritrovati anni più tardi, all’età di 17 anni, a dividere un minuscolo appartamento a Hollywood, quando le nostre carriere avevano iniziato ad affermarsi e noi a essere seguiti, invece che dalle nostre amate madri, da agenti disposti a vendere i propri figli pur di strappare un contratto qualunque a chiunque lavorasse nel mondo del cinema e della moda. Chiaramente la madre di Jeremy pensava che lui vivesse in un palazzo nella periferia di Los Angeles, ma era troppo impegnata a gettare la sua seconda figlia in pasto al mondo dello spettacolo e trascinarla a tutti i provini a cui aveva trascinato Jeremy per andarlo a trovare e scoprire che, in realtà, all’indirizzo che lui le aveva indicato c’era un benzinaio e non l’appartamento del suo amato e, quasi, famoso figliolo.

    La mia invece veniva a trovarmi, purtroppo, una volta ogni sei mesi e si fermava per un interminabile intero week end. Durante i giorni del terrore, così li avevamo soprannominati, Jeremy andava a stare da qualche amico e in questo modo riuscivamo a tenere mia madre all’oscuro della nostra convivenza.

    Nonostante la casa fosse piccola era dotata di due stanze da letto indipendenti e ogni volta che mia madre arrivava si stabiliva, pensandola inutilizzata, nella camera del mio migliore amico.

    Ci divertiva l’idea delle nostre genitrici ignare del fatto che condividessimo un appartamento pagato da loro e, soprattutto, buttare le lenzuola nelle quali aveva dormito mia madre non appena lei si imbarcava sul sacro aereo che la riportava lontana da me.

    Il leggero sobbalzo dell’ascensore che si arresta al piano terra mi riporta alla realtà. Mi scollo dalla parete di metallo ed esco avviandomi verso l’uscita mentre con un gesto volutamente disinvolto, che fa voltare le tre figlie adolescenti dei produttori che abitano al primo piano, indosso i Ray-Ban.

    2

    Mi dirigo verso l’ingresso e con un cenno della mano saluto Frank, l’uomo che si occupa del servizio bar e di tutte le necessita di noi condomini, compagno di tante serate e psicologo personale di tutte le anime che arrivano barcollando fino al suo bancone e, dopo aver ordinato qualche superalcolico di troppo, iniziano a sbiascicargli in faccia i loro problemi e le loro turbe mentali.

    Frank ricambia il saluto e mi fa l’occhiolino, contento di vedermi ancora vivo dopo che, probabilmente, la sera prima mi ha visto fare baldoria in compagnia di qualche amico.

    Il toro armato a guardia dell’ingresso mi apre la porta e mi sussurra a denti stretti un buongiorno che, pronunciato dalla sua voce da cavernicolo, fa quasi paura.

    Indossa un completo nero e una camicia troppo stretta per contenere i suoi muscoli che, dal colletto, lascia intravedere qualche tatuaggio malfatto. Ricambio il saluto con simpatia, non vorrei mai che non salutarlo bastasse a farlo innervosire e far finire il mio collo tra le sue tozze mani.

    Cammino per qualche isolato, mi fermo a un incrocio e, mentre aspetto che il semaforo diventi verde, sento il mio cellulare squillare. È Jeremy, mi scrive che è in ritardo di qualche minuto e sta uscendo ora di casa. Gli rispondo di non preoccuparsi, infilo il telefono in tasca e decido di guadagnare tempo allungando per la strada principale, quattro passi all’aria aperta possono farmi solo bene.

    Il verde scatta e io e la fiumana di gente, che come me stava aspettando, iniziamo a muoverci mentre gli automobilisti, nervosi, ci guardano passare con aria minacciosa, imbestialiti dai due minuti di ritardo che gli vengono imposti dal nostro passaggio. Imbocco una via sulla destra e sposto il mio sguardo verso il cielo, è una giornata stupenda, il sole risplende e non c’è una nuvola per chilometri, la calma prima e dopo la tempesta. Sento nuovamente un suono fastidioso provenire dal mio cellulare e vedo il nome di mia madre campeggiare sullo schermo. È giusto, penso, era un così bel momento di tranquillità che non poteva non essere rovinato. Mi costringo a rispondere, so che non smetterà finché non pigerò il tasto verde sul quadrante e non potrà raccontarmi tutto quello che le succede.

    «Ciao mamma, come va?» l’entusiasmo nella mia voce è palpabile, ma non riesco e non ho voglia di trattenermi. «Ciao tesoro!» grida la voce a seimila chilometri di distanza, tanto forte che sicuramente è stata sentita da tutte le persone che ho intorno. Va tutto bene, mi dice, il mese prossimo verrà a trovarmi, forse, perché Priscilla non si sente bene e potrebbe non essere in grado di affrontare il viaggio in aereo fino in California. Priscilla è l’orrendo pincher di mia madre, un minuscolo ratto che ogni volta che mi vede non smette di abbaiare, o meglio di squittire. Non ti preoccupare, le rispondo, capisco che il cane potrebbe risentirne troppo.

    Andiamo avanti così per un po’, continuando a riempirci di parole inutili e insensate, convenevoli di cui non possiamo fare a meno. Ancora non riesco a capire il vero motivo della telefonata, mia madre non mi ha mai chiamato solo ed esclusivamente per accertarsi che stessi bene, che mangiassi, avessi qualche lavoro in ballo o che non fossi morto. Mi sforzo di captare qualche segnale, anche il più minuscolo, qualsiasi parola troppo pesata che darebbe inizio alla rivelazione del motivo della chiamata.

    «Amore»

    Eccola. Sta per cominciare.

    Sono abbastanza curioso di sapere cosa voglia da me questa volta. Spero sia solo per avere dei soldi o qualcosa del genere, se fosse così riuscirò a chiudere la telefonata in meno di centoventi secondi e potrei tornare a guardare il mio cielo azzurro senza altre interferenze.

    «Priscilla sta seguendo delle cure veterinarie molto costose e, se le sommiamo al costo dello psicologo, lo sai quanto viene fuori? Roba da matti!»

    Roba da matti portare quel toporagno dallo psicologo.

    Evito di dirlo, non ho voglia di litigare e i secondi scorrono veloci.

    «Scusami mamma devo andare, sono pieno di lavoro. Ti faccio un bonifico appena arrivo a casa, non vorrei mai che Priscilla dovesse rinunciare al suo psicologo.»

    Sei un tesoro, mi dice, impegnati nel lavoro, continua, non mollare mai, sei bravo.

    E ti piacciono i miei soldi.

    Attacco sussurrando un ciao alla velocità della luce e torno a guardare il cielo. C’è una piccola, insignificante, maledetta nuvola comparsa da chissà dove a macchiare quella perfetta tela azzurra. Metto la mano in tasca alla ricerca delle sigarette e la trovo stranamente vuota. Non sono un fumatore accanito, mi piace godermi una bella sigaretta in santa pace ogni tanto. Chiaramente quando non esagero con l’alcool, in quelle occasioni solitamente va a finire che la mattina dopo non ho sigarette in tasca.

    Esattamente come sta accadendo ora.

    Vedo un distributore all’angolo, prendo il portafogli e frugo per trovare l’ammontare giusto di monetine. Le infilo una alla volta nella fessura del distributore, pigio il bottone con l’etichetta Lucky Strike e aspetto che il pacchetto voli giù fino al raccoglitore ai piedi del macchinario. Attendo il tonfo sordo dei miei cinque dollari in tabacco che colpiscono il metallo e, quando lo sento, infilo la mano nello sportello estraendo il pacchetto. Lo scarto subito e mi giro alla ricerca di un cestino in cui buttare la plastica strappata. Ne vedo uno a pochi metri di distanza e faccio per incamminarmi quando vengo assalito da due signore urlanti che mi si buttano addosso estraendo i cellulari pronte a scattarsi la foto del secolo con me da mandare alle amiche sedute comodamente sul divano di casa a fare l’uncinetto. Mi ricompongo in un nanosecondo dallo sgomento iniziale e inizio a sorridere. La signora scatta la foto e io vedo me e le due spasimanti stampati per sempre sui pixel del cellulare. Mi chiedono se posso fargli un autografo e mi sbattono in faccia un foglio di carta stropicciato e una penna mangiucchiata.

    «Non c’è problema -

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