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Là fuori - Un delitto, crimini, amori, passioni nel nulla oltre le cose
Là fuori - Un delitto, crimini, amori, passioni nel nulla oltre le cose
Là fuori - Un delitto, crimini, amori, passioni nel nulla oltre le cose
E-book204 pagine2 ore

Là fuori - Un delitto, crimini, amori, passioni nel nulla oltre le cose

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Info su questo ebook

In una Torino dove nulla è quel che sembra, l’avvocato Cristina Visconti vuole vedere oltre all’apparente spiegazione di un femminicidio. Non è una detective, lei. Perché lo fa, allora? Alla base di tutto c’è il suo spiritello inquieto a spingerla “là fuori”, oltre gli schemi della quotidianità.

Tutto però è già lontano dagli schemi in questa città multietnica eppure insofferente verso i nuovi migranti. Qui giungono due di essi, un siriano e una peruviana, alla disperata ricerca di un’alternativa di vita che li porta a farsi trascinare in un ben congegnato tentativo di truffa ai danni della fondazione non profit per cui Cristina lavora e nell’omicidio di uno dei complici, una spregiudicata archeologa. Ad essere accusato del delitto è il marito, un sindacalista con torbide frequentazioni dei centri sociali, nella cui inquieta vita affettiva Cristina si è fatta imprudentemente coinvolgere per evadere dalla noia. Un brigadiere e un commissario cercano allora di sbrogliare la matassa tra falsi profughi, centri sociali, danarosi mecenati, seguendo piste inusuali con un sottile umorismo, poco inglese e molto subalpino.
LinguaItaliano
Data di uscita3 dic 2020
ISBN9791220301305
Là fuori - Un delitto, crimini, amori, passioni nel nulla oltre le cose

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    Anteprima del libro

    Là fuori - Un delitto, crimini, amori, passioni nel nulla oltre le cose - Angela Gallo

    sogno

    Prima parte ‒Il viaggio

    Berlino

    Al centro di Postdamer Platz il più vecchio semaforo d’Europa proiettava un’ombra sottile sul lastricato a cubetti della piazza. L’uomo vestito di grigio uscì con passo atletico dalla stazione della U-bahn e iniziò a lanciare sguardi un po’ ansiosi ai passanti che scivolavano in fretta verso l’edificio della Sony.

    Quanto è cambiata Berlino negli ultimi anni, pensò l’uomo osservando i nuovi edifici spuntati come funghi.

    L’ultima volta che era stato lì c’era il muro e i tedeschi non avevano ancora deciso se accettare o no il fatto di esser stati nazisti, un tempo.

    Accettare. Accettare e forse pentirsi. Accettare e andare oltre. Ma perché non potevano accettare e basta? O accettare ed esserne fieri?

    Non poteva pretendere tanto, lo sapeva.

    Ma questo non aveva importanza ora. Erano le dieci.

    Erano le dieci e lei non arrivava.

    Ci aveva forse ripensato? Non era così facile per una dilettante. Non lo era nemmeno per lui. Ma la posta era alta. E poi c’era il gusto del gioco, della scommessa. Non era per i soldi, questo era vero. Non erano i soldi, non solo, almeno. C’era la sfida oltre al denaro.

    L’uomo fece scivolare le lunghe dita sul cappotto grigio griffato Armani. Con un gesto atletico si chinò per raccogliere la copia di Der Spiegel che un improvviso vortice di vento aveva trascinato sulla valigetta in pelle marrone appoggiata per terra.

    Come in un flashback, vide all’improvviso la stessa scena nel passato, ambientata a qualche chilometro di distanza da lì: in uno studio polveroso un vecchio si chinava a raccogliere un foglio ingiallito dal tempo.

    Tutto intorno colori, matite, scalpelli, calcinacci e un vago odore di muffa, cemento e carta rattrappita. I due fratelli, copie più giovani dell’uomo, lo stavano chiamando dall’altra stanza. Il vecchio aveva posato lo scalpello sul tavolaccio per asciugare l’angolo bagnato di un bassorilievo. Erano arabi.

    Lo stavano chiamando per la preghiera della sera.

    La sera era diventata notte già da un pezzo a Berlino e lei non arrivava. Porca miseria, donna. Non poteva far fallire tutto adesso. C’era anche lei, nella posta del gioco. C’era anche lei, la sua ossessione.

    L’unica ossessione di una vita.

    L’unica che contava.

    Nell’ultimo rigurgito di persone infreddolite che la metropolitana aveva appena vomitato fuori dal condotto buio finalmente la vide.

    Era vestita di scuro, tacchi bassi. Con una mano si stava aggiustando il bavero del cappotto mentre si avvolgeva la sciarpa grigia intorno al collo. La piega del colletto era così alta che le nascondeva parte del viso.

    Va bene un po’ di segretezza, ma la disinvoltura dove la mettiamo? Pensò l’uomo avvicinandosi all’angolo con Eberstrasse. Sembrava la sorella giovane di Mata Hari. Più carina però, su questo non c’era niente da dire.

    ‒ Eccomi qua! Sono puntuale?

    ‒ Si, certo. Immagino tu non possa far di meglio con tutta la roba che ti sei messa addosso. Allora, te lo chiedo per l’ultima volta, ti ricordi di tutto? Anche di cosa devi fare prima di tornare in Italia?

    ‒ Ma certo. Per prima cosa, ovviamente, recuperare il documento d’origine. Non ti preoccupare. Ho ripassato la lezione più di una volta.

    ‒ E lui? Non ci farà scherzi?

    ‒ No, tranquillo. Al siriano basta fargliela vedere, anche di sfuggita, e non capisce più niente. Circondata da un bel po’ di soldi, poi.

    ‒ Bene. Ce ne saranno tanti per tutti. Soprattutto per te. Potrai riempirti la casa con le tue macerie. Ecco, tieni.

    L’uomo estrasse delicatamente dalla valigetta in pelle un dossier di cuoio pieno di fogli chiusi da un lucchetto e lo porse con cura alla donna. Dai bordi alcune foto spuntavano tra i documenti.

    ‒ Resisterai senza guardare il pacco? Quello vero? Me lo consegneranno domani ed è meglio se lo porto io in Italia. Tu viaggerai leggera, solo con la valigetta dei documenti.

    ‒ Certo. Lo so che i pacchi si scartano solo alla fine!

    L’uomo la osservò scivolare veloce con il contenitore sotto braccio verso le vetrine dell’Arkaden.

    È davvero un gran pezzo di figa, pensò. E ci sarebbe stata di sicuro, l’aveva capito già dal primo incontro.

    Ma non era lei la donna giusta. Quella che voleva. Si concesse un leggero sorriso e, senza fretta, si mescolò ai passanti diretti alla stazione sotterranea.

    Tre anni prima, l’inizio del viaggio

    La traversata era stata terribile. E lunga, lunghissima. Ad Hamed era sembrata durare ancor più del viaggio compiuto da Maometto quando dalla Mecca era giunto alla Moschea della Roccia di Gerusalemme, per poi arrivare al Cielo.

    Certo, il Profeta non aveva sofferto come loro. C’erano stati momenti in cui Hamed e Jamal erano stati sul punto di farsi prendere dalla disperazione. Quando Aisha e suo figlio erano morti di sete. O quando uno dei trafficanti di uomini aveva urtato un vecchio alawita coperto di stracci e l’aveva fatto cadere in mare, senza degnarlo di uno sguardo.

    Ma, per quanto strano possa sembrare, per Hamed tutto questo non aveva avuto molta importanza. Lui aveva la lettera. E la sua rabbia.

    E la protezione del Profeta.

    Per prudenza il suo comportamento durante il viaggio era stato molto simile a quello di Jamal: sembravano entrambi due straccioni, laceri e abbattuti che si lasciavano alle spalle la guerra e una terra amatissima che aveva ormai perso la speranza.

    La regressione dal loro status sociale di militari e l’identificazione con gli altri disperati sdraiati sul barcone era stata completa. Avevano imparato a parlarsi solo con gli occhi e con parchi gesti d’intesa quando, per correre meno rischi, si passavano non visti la lettera in modo che finisse nella tasca di quello dei due che, in quel momento, correva meno pericoli. Tuttavia gli occhi di Hamed brillavano d’orgoglio quando nessuno lo osservava e lui poteva toccare di soppiatto la missiva. Lui era il vero portatore della lettera. Gli era stata affidata quella volta, quando avevano ottenuto il perdono.

    Se lo ricordava bene quel giorno.

    Deir-El-Zor era stata appena liberata dalla morsa dei cani di Al Baghdadi che vi erano penetrati un mese prima. Più di trecento civili avevano decapitato, quegli esaltati assetati di sangue, e in quell’inferno, con il sangue che scorreva a fiumi nella piazza centrale dove si era insediato il boia, lui e Jamal erano stati due vigliacchi.

    Dovevano usarlo quel cazzo di esplosivo.

    Facevano parte dell’esercito regolare di Assad ed erano stati mandati lì per quello: imbottiti di plastico dovevano farsi saltare in aria per distruggere il comando dell’Isis da poco insediato.

    Così la vittoria sarebbe arrivata subito e senza troppe perdite. Ma non avevano avuto il coraggio e così i loro fratelli alawiti avevano dovuto combattere casa per casa per liberare la città. Il conteggio dei morti e dei feriti alla fine era stato spaventoso.

    La vittoria tardiva non aveva portato conforto alcuno.

    ‒ Cosa me ne faccio di due pecore? Di due animali spregevoli? ‒ Così, turbati com’erano e pieni di paura, li aveva apostrofati il loro comandante quando i cani erano stati respinti sulle montagne.

    ‒ Nella viltà risiede l’infamia. Ecco cosa dovrei farvi incidere sulla fronte prima di farvi saltare con le mie stesse mani. La scritta che il Profeta portava sulla spada.

    Questo aveva detto, pieno di rabbia repressa.

    Hamed, con crescente apprensione, aveva visto i suoi capi parlare a lungo tra di loro. Poi, inaspettato, era arrivato il perdono: il generale Yussuf era dello stesso villaggio di Hamed e li aveva fatti liberare.

    Tuttavia per riscattarsi avevano dovuto accettare una nuova missione. Come potevano rifiutare?

    Sembrava un compito facile: dovevano consegnare una lettera alla cellula sciita di Parigi, senza aprirla e senza parlarne con nessuno.

    Era ben diverso che farsi saltare in combattimento.

    Avrebbero viaggiato con i profughi siriani che si imbarcavano a migliaia per l’Europa per sfuggire alla guerra. Più di quattro milioni sino ad allora.

    Per non destare sospetti, dovevano rendersi il più possibile simili a loro e non manifestare in alcun modo la loro appartenenza alle forze governative.

    Hamed sapeva che la Francia appoggiava da tempo le forze ribelli che avevano come riferimento politico la coalizione nazionale siriana, i loro nemici. Erano tanti quelli che li avversavano. Tanti, ma fortunatamente divisi tra loro: sunniti, integralisti religiosi, sostenitori del vecchio regime, terroristi e l’esercito del califfato nero - l’Isis come tutti chiamavano i cani che avevano appena scacciato da Deir-El-Zor, - tutti spinti da motivazioni diverse, con obiettivi discordanti e oscuri.

    Ma dopo gli attentati di Parigi, la rabbia dei francesi si era finalmente scatenata anche sull’Isis e la Francia aveva iniziato a bombardarne le postazioni, affiancando gli aerei americani a Raqqa.

    Forse nella lettera c’era qualcosa di importante che avrebbe spinto ancor di più la Francia dalla parte dei governativi fedeli ad Assad in quella stupida guerra dove tutti erano contro tutti.

    O forse c’erano i progetti per reclutare altri foreign fighters. Chissà. Loro non potevano sapere.

    Potevano solo riscattarsi.

    E avere fede.

    Cristina

    Passati i vent’anni dell’entusiasmo, dei problemi esistenziali, della contestazione. Passati i trenta della maturità, del posto fisso, della famiglia, della maternità. Arrivata ai quaranta, Cristina Visconti era ancora una bella donna.

    Torino era la sua città, da sempre.

    L’unica in cui potesse vivere.

    I problemi esistenziali si erano allontanati a poco a poco da lei con l’andar degli anni. Non si può dire che fossero spariti. Semplicemente, avevano smesso di occupare un posto fisso: nella giornata o, più spesso nei sogni notturni, oppure nei momenti vuoti tra un fine settimana e l’altro.

    Le giornate adesso erano troppo piene di cose da fare e non c’era più tempo per interrogarsi sul senso della vita. Anche perché c’era chi da lei voleva risposte, e subito. Daniele era nato tredici anni prima. Aveva le ciglia lunghe e folte della madre e i suoi capelli biondi.

    Gli occhi verdi erano come quelli del padre.

    C’è un momento, nella vita di una donna, in cui l’esistenza sembra ingessata. Le decisioni non portano più con sé dubbi, entusiasmi, angoscia. Tutto scorre su binari rigidi come transenne. C’è un momento in cui si sa, coscientemente, di avere tutto: amore, famiglia, lavoro, casa, posizione economica.

    E anche un cane. E anche la casa al mare e un po’ di soldi in banca. E c’è un momento, il momento dopo, in cui tutto questo non basta più.

    Cristina sentiva la vita fluire, giorno dopo giorno, e avrebbe dato cento, mille dei suoi giorni per sentire il suo cuore urlare di nuovo. Innamorarsi? Intendiamoci, non era nulla di fisico. O solo di fisico. Era la voglia di sognare, di fare cose folli, di essere scemi e liberi.

    Scemi e liberi.

    ‒ Le donne, dopo i quarant’anni, non hanno più nulla da perdere! ‒ Le tornava spesso in mente quella frase, detta da una collega, che citava una battuta da macho del marito.

    Lei, si diceva, di cose da perdere ne aveva sin troppe. Per una scopata, sicuramente troppe.

    Per un brivido di emozione poche, sicuramente poche.

    Aveva sempre evitato di dare corda agli ammiccamenti e ai goffi tentativi di portarla a letto di alcuni colleghi. Per non parlare del commesso del supermercato o degli sconosciuti che le facevano proposte, più o meno esplicite, a base di sesso.

    Erano situazioni un po' squallide. Non c’era alcuna luce, nessun brivido in quelle che non erano neppure avventure.

    Quella sera, però, uscita dal lavoro, non poteva smettere di pensare al racconto di Lucia, una ex collega che aveva lavorato con lei in banca. Spesso si vedevano nella pausa di lavoro per il pranzo al solito bar di Via Corte d’Appello, dove entrambe avevano l’abitudine di consumare un pasto veloce. Tra un pettegolezzo e l’altro, Lucia le aveva chiesto a bruciapelo:

    ‒ Cristina, ti ricordi di Luca Casciani?

    ‒ Chi, quel collega del sindacato di base che era con noi in agenzia?

    ‒ Sì, lui. Pare sia andato di testa. La moglie l’ha mollato. Da una settimana non si presenta in ufficio. Non è in ferie. Non è in mutua. Nessuno l’ha più visto.

    ‒ Ma la moglie non era quella bella ragazza che faceva l’archeologa? Roberta, mi pare.

    ‒ Proprio lei ‒. Lucia aveva alzato le spalle.

    ‒ L’ha lasciato. Non so perché. Era da un po’ che litigavano di brutto, lo sapevano tutti.

    Cristina si ricordava benissimo di Luca. Alto, occhi neri e profondi dietro due occhiali da intellettuale di sinistra. Un viso aperto, tondeggiante. Capelli neri, quasi sempre spettinati, e l’immancabile sigaretta tra le dita.

    Insieme ad altri due amici irriducibili della sinistra sindacale, Luca aveva fondato BASTA! un sindacato di base che rompeva le scatole, in ugual misura, alla direzione della banca e ai sindacati di categoria, giudicati troppo morbidi per sostenere autentiche rivendicazioni.

    Luca l’aveva incuriosita, quando lavoravano insieme, per il suo carattere deciso e per l’infinita dolcezza che in rari momenti faceva capolino, quando meno te l’aspettavi. L’aveva invitata una sera a una proiezione nel circolo culturale del quartiere. Un circolo di sinistra di cui era presidente che portava con disinvoltura il pomposo nome di Circolo Aurora, evocando reminiscenze leniniste e nuovi orizzonti di socialismo.

    Risaliva a quel periodo l’ennesimo viaggio di suo marito in India. Viaggi sempre più frequenti e più lunghi nel corso degli anni. Distanze

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