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Il mistero del dipinto di Cristo
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E-book396 pagine5 ore

Il mistero del dipinto di Cristo

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Info su questo ebook

Una storia capace di scavare nelle profondità dei misteri della fede per spingersi oltre i confini del mondo conosciuto

Mentre sulla Terra calavano le tenebre in pieno giorno e il Figlio dell’uomo, crocifisso, tornava alla casa del Padre, Ponzio Pilato, responsabile dell’esecuzione, commissionava a Theophanes la realizzazione del più prezioso dei dipinti: l’unico quadro che, attraverso gli occhi dei contemporanei, avrebbe tramandato ai posteri l’immagine del volto di Cristo. Più prezioso del Santo Graal e più potente dell’Arca dell’Alleanza, il dipinto di Cristo ha attraversato le epoche della storia passando tra le mani di oscure congreghe: oggetto benedetto e terribile, in grado di dispensare la morte tra chi lotta per possederlo ma anche di elargire il dono della vita eterna a colui che può vantarsi di averlo tra le mani. Per questa ragione, intorno a un castello affacciato sul lago di Lucerna, un pugno di personaggi senza scrupoli fanno convergere i propri destini, ingaggiando una lotta che non prevede prigionieri…

Un thriller teologico ricco di azione e dall’inaspettata profondità psicologica

«Un thriller meraviglioso. La distinzione tra buoni e cattivi è costantemente messa in discussione, fino al colpo di scena finale.»
Paul Doherty, autore de Gli assassini del Graal

«La tensione è talmente alta che bisogna ricordarsi di respirare. Non potrete chiudere il libro prima di averlo letto fino all’ultima pagina.»
Readers Club


Craig Smith
scrittore e studioso di filosofia, vive a Lucerna. Con la Newton Compton ha pubblicato Il mistero del dipinto di Cristo e I custodi del talismano. Autore di thriller di grande successo, è stato candidato anche al prestigioso Ian Fleming Steel Dagger Award.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854155596
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    Anteprima del libro

    Il mistero del dipinto di Cristo - Craig Smith

    La Svizzera centrale oggi.

    Capitolo 1

    Lago di Lucerna, Svizzera

    5 agosto 2006

    Kate scivolò nel lago senza produrre alcun rumore. Ancora sotto la superficie, si allontanò dalla poppa dell’imbarcazione, scomparendo in un lungo e oscuro passaggio che serpeggiava tra le altre barche. Ethan la seguì circa un minuto dopo, riemergendo nell’ombra silenziosamente come si era immerso.

    Si guardò intorno per controllare se qualcuno li avesse notati, ma tutti erano intenti ad ammirare le vaporose strisce di luce dorata che svanivano nel cielo notturno. Nessuno sulle centinaia di imbarcazioni che li circondavano si curava di ciò che stava avvenendo nelle acque nere sotto di loro.

    Oltre le barche, il lago era increspato. Dalle Alpi soffiava una fredda brezza estiva. Il tenue chiarore della pallida luna era troppo debole per permettergli di individuare Kate. La vide solo quando il cielo fu illuminato da un bagliore bianco, una sagoma contro la superficie ondeggiante dell’acqua.

    Quando la raggiunse, lei si era già infilata la muta e si stava tingendo il viso per mimetizzarlo. Agitava pigramente le gambe per tenersi a galla, sembrava una splendida gentildonna davanti allo specchio. Mentre si toglieva i vestiti, Ethan studiò i suoi lineamenti. Aveva un volto che colpiva, un piacevole accostamento di soavità femminile e aristocratica arroganza. Le sopracciglia, il naso e la mascella erano pronunciati ma eleganti.

    Era un viso che le telecamere amavano. La curva delle palpebre e la tenera, tonda pienezza delle labbra la rendevano quasi bella. Nella sua risata si avvertiva malizia e musica. La passione la rendeva dolce, ma quando era in collera diventava una furia. Discendente da rami bastardi della famiglia reale britannica da parte sia di madre che di padre, vedova di un lord inglese, era alta e bionda, brillante e aveva molte conoscenze, amava il rischio e le esperienze nuove. Poteva tramare con la perseveranza di una donna respinta, e poi prendere ciò che voleva con la rapidità di un monello di strada.

    Si erano conosciuti qualche anno prima per pura combinazione, o così gli era sembrato allora. In seguito, aveva imparato che Kate era una donna che sapeva esattamente ciò che voleva e non lasciava nulla al caso. Si trovava sulle Alpi insieme ad altri due scalatori. Avevano trasportato il loro equipaggiamento ai piedi di uno sperone roccioso piuttosto difficile, con l’intenzione di trascorre la giornata scalandolo. Kate era arrivata sola, con nient’altro che una borraccia d’acqua e una felpa legata intorno alla cintola. Si era avvicinata mentre loro stavano ancora preparando le corde e i chiodi. Senza dire una parola, dopo aver lanciato un’occhiata di distratta ammirazione al corpo asciutto e muscoloso di Ethan, aveva cominciato ad arrampicarsi. Lui l’aveva osservata per un attimo, prima di seguirla.

    Era la sua prima ascensione senza corde, ma l’idea del pericolo che correva non l’aveva nemmeno sfiorato. In realtà, l’unica cosa che lo interessava era la donna che saliva la roccia sopra di lui con l’agilità di una leonessa. Anche se pensava di essere nelle migliori condizioni fisiche, non riusciva a starle dietro.

    «Fa spesso scalate senza corde?», aveva chiesto lei, quando finalmente l’aveva raggiunta sulla cima.

    Ethan si era passato la mano tra i corti capelli neri, sorridendo imbarazzato. «È la prima volta».

    All’epoca, lui parlava con uno spiccato accento del Tennessee. Invece di urtarla, come avveniva con molti europei, gli era parso che la cosa non le dispiacesse. «E sarà l’ultima?», aveva chiesto lei con curiosità e una leggera aria di sfida. Ethan ricordava ancora di aver scosso la testa sogghignando. «Spero di no».

    «Kate Kenyon», aveva detto stringendogli la mano.

    Il mattino dopo si erano diretti verso le Alpi tirolesi, facendo l’autostop quando potevano, oppure prendendo un pullman o un treno. Un pomeriggio, mentre erano aggrappati a una piccola sporgenza rocciosa a circa trecento metri sopra una morena, Kate gli aveva domandato: «Pensi che potremmo guadagnarci da vivere così?». Ethan si era messo a ridere, credendo che intendesse come scalatori professionisti. Lei avrebbe potuto farlo, ma lui era ben lontano dal suo livello. Tra qualche giorno sarebbe ripartito alla volta degli Stati Uniti per cominciare gli studi alla facoltà di legge della George Washington; tutto questo e Kate Kenyon sarebbero stati solo un piacevole ricordo. Ma lei non stava parlando di rocce. Uno scherzo, gli aveva detto quella notte, mentre erano a letto insieme. Ma era uno scherzo destinato a durare. Perché doveva tornare per rivederla? Poteva venire via con lui, le aveva proposto. Per fare cosa? Qualunque cosa. «Potremmo farla qui», aveva replicato Kate. Due sere prima del suo volo, dopo quella che doveva essere la loro ultima ascensione, stavano camminando sotto un muro di cinta in una via di Como quando lei aveva detto ridendo: «Andiamo!».

    Un istante dopo, era scomparsa all’interno di una residenza immersa nel buio. Ethan sapeva cosa aveva intenzione di fare. Sapeva anche che la cosa più intelligente da parte sua sarebbe stata andarsene, ma questa non era veramente una scelta. L’aveva seguita, sperimentando la più grande emozione della sua vita quando avevano rubato la collana di una nobildonna e fatto l’amore tra le lenzuola di seta di una sconosciuta.

    Da allora, aveva continuato a scavalcare muri con Kate. Nulla la spaventava. Diventava più audace ed efficiente quando anche il più coraggioso avrebbe esitato. Amava il rischio come altri amavano il potere, il denaro o la fama. Se una cosa era possibile, tentava. Se non lo era, cercava di trovare un modo per renderla tale. Fisicamente, la sua agilità e resistenza continuavano a stupirlo.

    Una palma dorata si stagliò nel cielo nero, e il fuoco d’artificio mantenne la sua forma finché l’ultima scintilla si spense. Subito dopo, si udì il rimbombo di una serie di forti esplosioni intervallate. Dalle imbarcazioni raggruppate al centro del lago, sentirono levarsi un mormorio collettivo di ammirazione. «Pronto, Ragazzo?».

    Ultimata la mimetizzazione del viso e mettendo da parte i ricordi di quelle prime settimane con Kate, Ethan lasciò andare il barattolo e si infilò il cappuccio. «Pronto, Ragazza».

    Non era che un altro lavoro.

    Solo la sommità delle loro teste affiorava in superficie, mentre nuotavano verso la scura penisola. Di tanto in tanto, Kate si girava silenziosamente per guardarsi alle spalle, senza mai smettere di avanzare. L’unica volta che Ethan fece altrettanto, vide il fanale di una motovedetta della polizia che si muoveva lungo una delle rive lontane. Una volta oltrepassata la penisola, sguazzarono attraverso un basso acquitrino. Nascosto tra il fango e le canne, recuperarono il canotto gonfiabile, un Sea Eagle 9.2. Era esattamente dove l’avevano lasciato la notte precedente, ben mimetizzato e carico del loro equipaggiamento. Lo avevano rubato sei settimane prima, perché era leggero, facilmente manovrabile e abbastanza veloce da portarli all’estremità opposta del lago e ritorno.

    Mentre Kate lo ripuliva dalle alghe, Ethan gonfiò la chiglia e controllò la pressione negli altri compartimenti. Afferrando i penzoli, lo trascinarono verso l’acqua profonda, saltando a bordo appena uscirono dall’acquitrino. Ethan abbassò in posizione il motore da dieci cavalli e premette il pulsante di accensione. L’Honda si animò con un ronzio quasi impercettibile, e lui diresse il canotto lontano dalla riva. Nei minuti successivi, passarono davanti a tre grandi proprietà. Le residenze erano al buio, apparentemente disabitate, bersagli facili, ma quella notte poco interessanti. Proseguirono, giungendo infine a una piccola altura boscosa, in cima alla quale si ergeva una villa solitaria e abitata. Su entrambi i lati della tenuta, per circa quattrocento metri in ciascuna direzione, non vi erano altre costruzioni, né luci, né strade. Quando la profondità cominciò rapidamente a diminuire, approdarono silenziosamente.

    Kate saltò a terra per prima e trascinò il canotto su una striscia di ghiaia, mentre Ethan scaricava l’equipaggiamento. Tornando a immergersi nel lago con l’attrezzatura in una sacca impermeabile, nuotarono per un’altra cinquantina di metri, arrivando a una scogliera grigia che si levava quasi verticalmente dall’acqua. Kate prese l’equipaggiamento e raggiunse la riva, Ethan si diresse verso la darsena privata, che era difesa da un alto muro di pietra e chiusa da una cancellata. Offriva spazio per molte imbarcazioni ed era costruita come una replica della villa. A una delle due banchine era ormeggiato un lussuoso Fountain 48 Express Cruiser, all’altra un Pantera 28, il motoscafo più veloce del lago, al quale erano assicurati due acquascooter. Non si vedevano luci nella darsena o sulle banchine. Il perimetro era protetto elettronicamente. Il minimo movimento avrebbe fatto scattare un allarme e accendere le luci di sicurezza. Afferrata la catena da bicicletta che portava assicurata intorno alla vita, Ethan aprì il lucchetto e si immerse. Giunto vicino all’entrata della darsena, allungò una mano cercando alla cieca finché toccò le sbarre d’acciaio coperte di muschio. Dopo aver chiuso il lucchetto, lasciò cadere la chiave e si allontanò dalla cancellata.

    Tornato in superficie, nuotò per raggiungere Kate, che aveva già tirato fuori l’equipaggiamento, dividendolo in due pile ordinate. Per prima cosa, lui prese una salvietta e cominciò ad asciugarsi. Senza togliersi la muta, indossò un giubbotto antiproiettile Cobra, poi un paio di pantaloni neri e una casacca dello stesso colore. Infine, si infilò un paio di calzettoni sportivi neri e le scarpe da roccia. Sia i pantaloni che la casacca erano stati modificati da una sarta di Milano di cui Kate si serviva sempre per i suoi lavori.

    Tutti gli attrezzi che avrebbero usato avevano un’asola rinforzata per tenerli aderenti al corpo. Fece un rapido inventario man mano che li sistemava al loro posto, riesaminando i punti del piano di Kate: un fischietto a ultrasuoni, un paio di guanti di pelle sottile, manette, due pezzi di corda, un piccolo palanchino piatto d’acciaio, una Colt Navy calibro .45 semiautomatica con il silenziatore avvitato e un proiettile in canna, un coltello da combattimento, una minuscola torcia elettrica, una piccozza da roccia e una granata a concussione, nell’eventualità che le cose volgessero al peggio.

    Una volta indossati questi oggetti, raccolse un piccolo zaino con assicurato un fucile a dardi soporiferi. Lo zaino si adattava comodamente al corpo e presentava un cavetto di strappo accuratamente ripiegato. Uno strattone deciso, e si sarebbe aperto un paracadute. Poteva afferrare il fucile semplicemente allungando una mano dietro la testa. Finì di prepararsi con un cappuccio aderente, occhiali per la visione notturna e una cuffia dotata di microfono.

    Kate cominciò a riavvolgere il telo impermeabile legandolo con uno degli asciugamani. Trascinarono insieme il telo nell’acqua, lanciandogli dietro gli altri asciugamani. Mentre questi affondavano nell’oscurità, lei sussurrò nel proprio microfono: «Pronti, Due?».

    Ethan udì la risposta della seconda squadra, due voci che dicevano una dopo l’altra: «Pronti, Uno».

    Kate si voltò verso di lui. «Pronto, Ragazzo?».

    Ethan fece un lieve cenno con la testa. «Pronto, Ragazza».

    Lei si avvicinò alla scogliera e alzò lo sguardo per pianificare un’ultima volta la sua ascensione. Ethan fece altrettanto, benché avesse già studiato a lungo il percorso dal lago.

    La stratificazione della roccia era tipica della zona e offriva appigli per le mani e i piedi fino alla sommità. A circa quindici metri d’altezza, un buon terzo del totale, la parete si inclinava, fatto che gli avrebbe permesso di riposare se ne avesse avuto bisogno. Stava valutando la mossa di attacco, quando vide Kate iniziare la salita, superando i primi tre metri in cinque secondi.

    Ethan si era esercitato più di una dozzina di volte nelle stesse condizioni su una parete assai più difficile. Quando organizzava un lavoro, Kate curava tutti i particolari, ma per l’addestramento notturno avevano usato chiodi e corde. Per lui, quella era la prima ascensione libera al buio, e fin dall’inizio si sentì a disagio. Azzardando un’occhiata in direzione di Kate, notò che era già a metà strada. Tese l’orecchio e sentì il ritmo regolare del suo respiro. Improvvisamente imbarazzato dal proprio laborioso modo di avanzare, si costrinse a imitare la sua partner. Non era facile.

    Guardando verso il basso, si rese conto che la distanza era perfetta per ucciderlo: troppo corta perché avesse il tempo di tirare il cavo di strappo, troppo grande per sperare in una caduta senza conseguenze. Poteva scorgere lo spuntone su cui si sarebbe sfracellato. Preoccupato, aumentò l’andatura, ricordando a se stesso quanto fosse agevole quell’arrampicata. Salì rapidamente per qualche metro, lasciando una presa per afferrare la successiva senza nemmeno saggiarla, senza riflettere. Proprio come faceva Kate.

    Fermandosi infine per verificare i progressi compiuti, Ethan sentì che i nervi lo tradivano. Iniziò a sollevare una mano verso la presa seguente, ma poi esitò. Kate lo stava aspettando poco sotto la cima, osservandolo. Riusciva a vedere che era in difficoltà? Poteva capirlo dal suo respiro? Allungò una gamba, ma non trovò alcun appoggio adeguato. Ritirò il piede e provò di nuovo con maggiore attenzione. Nulla. Abbassò lo sguardo verso lo spuntone, e si accorse che le mani cominciavano a sudare. Gli tornò in mente un’ascensione in Val Bregaglia, alcuni anni prima. La parete lo aveva spaventato fin dall’inizio. Giunto circa a metà, dopo essere avanzato faticosamente un centimetro alla volta, le dita avevano lasciato improvvisamente la presa come se avessero avuto una volontà propria. A volte succede, quando uno scalatore è teso, frustrato o impaurito. Se indossi un’imbracatura, puoi lasciarti andare, penzolando tranquillamente fino a recuperare la concentrazione, ma in una scalata libera significa la morte.

    Per un momento, non riuscì ad aprire la mano sinistra. Esattamente come gli era capitato quel giorno. Prima gli si erano irrigiditi i muscoli, poi le dita avevano lasciato l’appiglio. Continuando ad afferrarsi alla roccia, Ethan sfiorò la pietra con la punta del piede fino a trovare una piccola fenditura. Non era sufficiente a sorreggerlo, solo a diminuire in parte lo sforzo sulle dita. Cercò un’altra sporgenza, e si rese conto che la mano sinistra cominciava a bloccarsi.

    Spostando il peso sulle punte dei piedi, riuscì finalmente a liberare la mano e tentò di riattivare la circolazione. Nel frattempo, allungò la gamba sinistra verso un nuovo appoggio, ma un crampo al fianco per poco non lo fece cadere. Quando arrivi a questo punto, di solito rinunci e ti lasci andare ridendo, confidando nella persona che ti assiste e nella robustezza della corda. Hai perso, ha vinto la montagna. Magari riprovi domani. O magari lasci perdere e ti dedichi alle escursioni.

    Udì la voce di Kate. «A sinistra. Hai una buona sporgenza a non più di tre metri». Lui cercò di vedere dove fosse. «Fidati, c’è. Muoviti ora. Prendi tempo, ma muoviti, non pensarci». A rincuorarlo non furono le parole, ma il fatto che lei fosse lì, che avesse capito che era in difficoltà.

    Ethan si concentrò sulla sua voce, con quel lieve accento britannico morbidamente femminile. Dimenticò i piedi, il crampo, le dita, perfino la morte. «Ci sei sopra con il piede sinistro, Ragazzo. Un po’ più su. Ottimo». Si sollevò, posando il piede su una stretta cornice e trovò un altro appiglio per le dita, nient’altro che una fessura nella pietra. Il crampo al fianco era scomparso, le mani avevano ripreso la loro agilità. Le scosse, ma solo per abitudine; il sangue aveva ricominciato a circolare, l’energia era tornata. E poi si trovò faccia a faccia con Kate, proprio sotto la sommità della scogliera.

    «Temevo di averti perso», bisbigliò lei.

    «Crampi».

    «Arrivano quando meno te lo aspetti. Stai bene ora?»

    «Sto bene».

    «Squadra Due, siamo in posizione. Ripeto. Siamo in posizione».

    Palace Hotel, Lucerna

    Dalla terrazza sul tetto del Palace Hotel, Sir Julian Corbeau distolse lo sguardo dall’esplosione di colori nel cielo sopra Lucerna per portarlo sulla contessa Claudia de’ Medici, una donna slanciata di mezza età ferma accanto al parapetto.

    Nonostante vivesse nel paese da quasi vent’anni, non aveva mai preso parte a un evento sociale di quel genere. Corbeau si chiese come mai avesse finalmente cambiato idea. Non perché le piacessero i fuochi artificiali, di questo era sicuro. I banchieri non mancavano mai di invitarla, ma era solo una questione di forma.

    La sua unica stravaganza era il ricevimento annuale che organizzava per un centinaio di membri dell’élite della società svizzera. Vi partecipavano tutti quelli che Corbeau conosceva. Era considerato il party dell’anno e vi si potevano incontrare luminari provenienti da ogni parte del mondo. Quando questi eventi erano cominciati, i problemi di Corbeau in America avevano creato una sorta di scandalo, e probabilmente era per tale ragione che lei lo aveva ignorato; più di recente, tuttavia, dopo essersi lasciato alle spalle le difficoltà americane, Julian Corbeau si era fatto un’ottima reputazione in Europa. In poche parole, era diventato nuovamente di moda. Eppure, lei continuava a non invitarlo.

    Certo, non poteva avvicinarla direttamente come un timido scolaretto ansioso della sua attenzione. Non intendeva darle quella soddisfazione. Si mescolò agli altri. Parlò di politica e società, come si usa in queste occasioni. Discusse brevemente anche di un’impresa finanziaria con una società francese. Alla fine, il nome della contessa venne fuori. I famosi ricevimenti che offriva. Vi aveva mai partecipato? No, rispose Corbeau. In realtà, disse, aveva avuto l’impressione che lei fosse ebrea.

    Un moto di sorpresa. Niente affatto!

    «Mi sono sbagliato», rispose Corbeau con un lieve sorriso, notando con soddisfazione il dubbio improvviso sul volto del suo interlocutore.

    «Vale non so quanti milioni», spiegò l’altro, come se questo potesse compensare i difetti del sangue.

    «Sicuramente non la famiglia de’ Medici?»

    «Ha sposato un cugino povero, credo». Un attento, meditabondo sorso di champagne. «In cambio ha ottenuto il titolo, per quanto ne so. Comunque, ritengo che sia stata lei a portare il denaro nel matrimonio».

    «Divorziata?»

    «A dire il vero, lo ignoro. È molto reticente sulla sua vita privata. Secondo me, lui è morto».

    «Ha idea di come abbia ottenuto il denaro?»

    «No, ma di una cosa sono certo, ne ha in abbondanza».

    Dal momento che l’uomo con cui stava parlando era un alto funzionario di una delle più importanti banche del Paese, Corbeau non aveva motivo di dubitare della bona fides della contessa. In realtà, gli era capitato raramente di vedere tanta convinzione negli occhi di un banchiere svizzero.

    «Tuttavia, non la si vede spesso», osservò, come se il fatto che lei rifuggisse dalla vita sociale lo sconcertasse.

    «Quasi mai, direi. Soprattutto perché odia la pubblicità. Quando ha accettato l’invito a questa serata, ha voluto essere sicura che non ci fossero telecamere».

    «Mi domando perché».

    «Se vuole crederlo, ritengo che sia realmente una persona riservata».

    «Pensavo che la riservatezza fosse passata di moda».

    Il banchiere rise educatamente. «Una donna straordinaria, sotto tutti gli aspetti. Posso presentargliela?».

    La contessa aveva occhi incantevoli, al punto che non si faceva caso al suo rifiuto di porgere la mano. «Ho sentito parlare molto di lei», disse in francese, benché non fosse nata in Francia. La carnagione scura e i freddi occhi neri suggerivano una razza assai più antica. Portava uno squisito rubino appeso al collo in una montatura che poteva essere un’ottima imitazione di un gioiello di epoca imperiale romana, se non addirittura un originale. Invece di una fede matrimoniale, la contessa de’ Medici indossava uno splendido anello con un cammeo, sul quale erano raffigurati due amanti che si tenevano per mano. Poteva trattarsi di una riproduzione barocca di una scena pastorale dell’Arcadia del valore di chissà quante centinaia di migliaia di franchi svizzeri, ma lui era incline a pensare che fosse un pezzo originale, più vicino al milione di franchi.

    La reazione di Corbeau alla cortesia di lei fu una scherzosa modestia, un’abilità che aveva appreso solo con grande fatica. «Non si dovrebbe mai stare a sentire le voci. Sono sempre così terribilmente accurate».

    «Le voci sono tutto ciò che posso permettermi. Vede, il mio lavoro mi tiene troppo occupata perché io abbia il tempo di frequentare molta gente».

    «Non deve essere schiava del suo lavoro. La vita va vissuta!».

    «Sono schiava della mia passione, Sir Julian, che è la cultura».

    «La contessa è una scrittrice di una certa fama», intervenne il banchiere in un buon francese scolastico che sembrava una pallida imitazione in confronto a quello della contessa.

    «The Forgotten Jerusalem», citò Corbeau, usando il titolo inglese. «Credo sia il miglior libro che abbia mai letto sull’occupazione romana nel primo secolo».

    «Ha letto molto di storia, Sir Julian?»

    «Poche opere davvero valide, temo, ma più della maggior parte delle persone, ne sono certo. Si dà il caso che la mia passione siano i libri. Naturalmente, riesco a trovare il tempo anche per qualche serata con gli amici, quindi non posso parlare di passione divorante, come dovrebbe essere».

    Recitando la sua parte, il banchiere spiegò che Corbeau possedeva quella che era generalmente considerata la più preziosa raccolta privata di letteratura occulta in tutta Europa.

    Con un leggero sorriso per attenuare il palese disgusto che provava per lui, la contessa chiese: «Allora è un mago?».

    Era una domanda che di solito lo irritava, ma sembrava che lei sapesse di cosa stava parlando. Indubbiamente, era una donna che conosceva la differenza fra i trucchi di un illusionista e il lavoro di un vero mago.

    «Non credo in queste sciocchezze».

    «Forse avrei dovuto dire adepto».

    «Questa è tutt’altra faccenda. Purtroppo, sono soltanto un dilettante. Mi piace leggere di uomini e donne con reali poteri occulti, ma oltre non vado. Non so cosa ordinerei a uno spirito, se mai riuscissi a evocarne uno!».

    «E io ho l’impressione che lei sia un uomo che sa esattamente ciò che vuole. E ora, volete scusarmi?»

    «Una donna straordinaria», commentò il banchiere, mentre la contessa si allontanava.

    Avvampando di collera, Corbeau non si prese il disturbo di rispondere a quell’idiota. Straordinaria lo era, ma in lei si intuiva anche qualcos’altro. Conosceva centinaia di persone straordinarie, faceva parte del suo lavoro! Ma quella donna era diversa. Quella donna non aveva alcun timore di lui.

    Lago di Lucerna

    Mentre aspettavano la risposta della seconda squadra, si infilarono i guanti. Per un momento non si sentì nulla, e Kate ripeté per la terza volta: «Squadra Uno in posizione. Voi siete pronti?».

    La voce di un uomo anziano rispose: «Ci siamo quasi, Ragazza». E dopo un attimo: «Sul bersaglio!».

    Kate ed Ethan cominciarono a muoversi. Un istante prima di lasciare la scogliera per raggiungere il muro di contenimento, l’intera proprietà venne invasa dalla luce dei riflettori. Il silenzio fu lacerato dall’urlo di una sirena, seguito da una serie di brevi segnali acustici e dal trillo dei campanelli d’allarme. Negli auricolari, Ethan udì una donna imprecare in un rozzo dialetto tedesco.

    «Chi ha messo questo cancello in mezzo alla strada?».

    L’uomo cercò di calmarla. «Abbiamo preso la direzione sbagliata, tesoro!».

    Parlavano ad alta voce con i finestrini abbassati, in modo da farsi sentire dal posto di guardia. «Non ho preso la direzione sbagliata!», replicò la donna con tono irritato. «Qualcuno ha messo il cancello sulla strada!». Si trattava di un copione provato e riprovato, due turisti austriaci ubriachi in una sera d’estate che finivano con la loro auto contro il cancello d’ingresso della tenuta di un milionario, protestando che la colpa dell’incidente era solo di quest’ultimo. Nel frattempo, Kate ed Ethan si erano allontanati dalla scogliera per nascondersi nell’ombra che avvolgeva il perimetro della proprietà, dirigendosi lui da una parte, lei dall’altra.

    Si sistemarono in posizione di sparo, un ginocchio a terra, i fucili a dardi pronti. Per qualche secondo non accadde nulla, e poterono studiare per la prima volta il luogo da vicino. La casa sembrava un castello in cima a un’altura, ma si trattava di un’illusione. Solo la torre dalla parte del lago era davvero medievale.

    La villa, benché vecchia di un secolo, era stata costruita per essere comoda. Una grande terrazza con porte a vetri si apriva al pianterreno. Sopra di essa, una balconata a colonne offriva un’altra vista sul lago. La proprietà era circondata da un elegante boschetto e protetta da alti muri di pietra tranne che sul retro, dove una parete verticale di roccia scendeva a strapiombo nell’acqua, impedendo l’accesso anche al più audace degli intrusi.

    Il prato si estendeva per circa settanta metri dalla casa al ciglio della scogliera. Al centro c’era una piccola piattaforma per elicotteri in cemento; per il resto, l’area era aperta e verde, e da essa si poteva ammirare un panorama del lago e dei monti circostanti. Lungo ciascun muro, un giardiniere si era divertito alcuni anni prima a piantare numerosi cespugli da fiore e bassi alberi da frutta ben curati che ora mantenevano la zona praticamente al buio anche quando le luci di sicurezza erano accese, fornendo uno schermo naturale contro chiunque guardasse dall’interno della villa o stesse controllando i monitor delle telecamere.

    Nessuno stava osservando il retro della proprietà. Con il suo copione, Kate aveva creato troppo interesse all’ingresso principale. Negli auricolari, Ethan sentì aprire e chiudere due portiere di automobile. La sirena si fermò bruscamente, mentre i riflettori rimasero accesi. «Immagino che abbia intenzione di starsene lì nella sua ridicola uniforme, dicendo che è colpa mia!». La donna anziana si stava rivolgendo a una delle guardie.

    Sapevano che il proprietario era in città, ospite di riguardo al ricevimento sulla terrazza del Palace Hotel durante l’annuale spettacolo pirotecnico della città. Se tutto stava andando come previsto, i cinque uomini della sua scorta dovevano essere con lui. Nella tenuta erano rimaste due guardie. Con una di esse sul viale d’accesso, la seconda stava probabilmente parlando al telefono con la polizia dicendo che per il momento non sembrava ci fosse alcun motivo per mandare gli agenti.

    Rimanevano i due cani a minacciare Kate ed Ethan. Erano usciti dalle cucce al primo allarme. Come le guardie, si erano concentrati sulla situazione al cancello.

    Quando Kate soffiò nel fischietto a ultrasuoni, si affacciarono su un lieve rialzo del terreno, cercando ansiosamente la fonte del richiamo. Non avrebbero voluto lasciare l’eccitazione all’ingresso per qualcosa di meno interessante, ma erano curiosi.

    «I cani stanno arrivando», bisbigliò Kate, continuando a soffiare. Ethan non poteva udire il fischio, ma entrambi gli animali lo sentivano e cominciarono a correre nello stesso istante, dapprima saltellando come per giocare, incerti su dove andare. Quando ebbero percorso circa la metà della distanza tra la casa e loro, sembrò che avessero individuato Kate e si appiattirono al suolo, pronti ad attaccare. Ethan soffiò nel suo fischietto, e il cane più vicino a lui cambiò direzione. Puntando il fucile contro la massa nera, Ethan premette il grilletto. Il dobermann vacillò, cadde, poi riuscì in qualche modo a rialzarsi scalciando furiosamente con le zampe posteriori, mentre lottava per proseguire l’attacco.

    Ethan lasciò il fucile e afferrò il coltello, mentre l’animale si lanciava contro di lui. Ma la droga aveva intorpidito le reazioni del cane, che gli crollò vicino con un grugnito, scivolando sull’erba bagnata; cercò ancora una volta di sollevarsi e alla fine, bofonchiando come un uomo nel sonno, si addormentò profondamente. Ethan guardò verso Kate, che aveva già afferrato il suo cane per la pelle del collo e lo stava trascinando tra il fitto fogliame. Rinfoderando il coltello, lui fece altrettanto, abbassò i visori sugli occhi e cominciò a camminare lungo il muro verso la casa.

    Intanto, la sceneggiata al cancello principale continuava. Volevano vedere il proprietario. Non se ne sarebbero andati finché la faccenda non fosse stata sistemata!

    Quando fu vicino all’edificio, Ethan udì la voce di Kate: «Pronto, Ragazzo?»

    «Pronto, Ragazza». Tagliarono attraverso il prato per raggiungere la terrazza. Lei aveva a tracolla un rotolo di corda da scalata come una bandoliera. Si incontrarono sotto la casa. Kate rallentò l’andatura, salì sulla coscia di Ethan e poi sulla spalla. Lo slancio le permise di afferrarsi alla grondaia sotto la balconata del primo piano, quindi fece oscillare le gambe e si arrampicò in posizione sicura. Da lì, lanciò la corda munita di grappino verso il tetto della torre. Nel frattempo, Ethan aveva il compito di neutralizzare il secondo custode, se la Squadra Due non fosse riuscita a farlo.

    Tirò fuori la Colt e si diresse verso l’angolo della casa dopo essersi guardato rapidamente intorno. Un uomo in uniforme uscì dal posto di guardia e si avvicinò lentamente al cancello. Ethan si ritirò nell’ombra. La Squadra Due aveva attirato entrambi gli uomini. La donna rilevò il fatto con voce impastata. «E lei! Cosa vuole lei? Ho detto che voglio parlare con il proprietario di questa baracca! Non desidero vedere altre uniformi!». Suo marito cercò di nuovo di calmarla. Stavano solo facendo il loro dovere, disse. Non doveva insultare quei poveretti.

    La seconda guardia parlava nello stesso aspro alto-tedesco del suo collega. Erano su una proprietà privata. Dovevano fare retromarcia e andarsene, altrimenti sarebbero stati arrestati. Volevano finire al commissariato? Trascorrere la notte in cella? Non vi fu risposta, ma solo il rumore indistinto dei dardi sparati simultaneamente da due pistole. Poi Ethan udì il tonfo di due corpi che cadevano sulla ghiaia. Ora, lui e Kate avevano una ventina di minuti a disposizione, più del doppio di quelli che lei riteneva necessari per portare a termine l’impresa.

    Alzando gli occhi, la vide scalare il muro della torre issandosi lungo la corda che pendeva dal tetto. Estrasse il palanchino dal fodero assicurato alla coscia e aprì con un unico movimento del polso una delle portefinestre della terrazza. Le luci all’interno erano accese. Rimise il palanchino

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