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L'uomo dell'Haganah
L'uomo dell'Haganah
L'uomo dell'Haganah
E-book332 pagine4 ore

L'uomo dell'Haganah

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Info su questo ebook

L'appuntamento di Zeev Merismanne, membro dell'Haganah, corpo speciale del governo israeliano, è saltato. L'ufficiale in arrivo da Tel Aviv che aveva in programma di incontrare, sembra essersi sparato un colpo in testa, ma dietro l'apparente suicidio sembrano esserci ragioni ben più misteriose...Nel corso della sua lunga carriera nell'Haganah, Zeev ha assistito a molti avvenimenti misteriosi, e questo non è da meno. Bisogna vederci chiaro, scoprire i motivi del gesto. Dalle prime ricostruzioni, infatti, qualche particolare sembra non tornare. Che ci sia qualcuno che abbia voluto ostacolare quell'incontro?-
LinguaItaliano
Data di uscita5 set 2023
ISBN9788728522967
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    Anteprima del libro

    L'uomo dell'Haganah - Franco Enna

    L'uomo dell'Haganah

    Immagine di copertina: Midjourney

    Copyright ©1977, 2023 Franco Enna and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728522967

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    AVVERTENZA

    Attorno a un evento reale è stata costruita una vicenda di pura fantasia. Eventuali accostamenti o riferimenti a personaggi esistiti o esistenti, quindi, sono da attribuirsi unicamente al caso.

    L’Autore

    CAPITOLO I

    Il 30 agosto 1973, alle 12,05 ora italiana, il signor Zeev Merismann, cittadino israeliano, spiccò il volo da Tel Aviv a bordo di un Boeing 707 dell’Alitalia alla volta di Roma. Sarebbe arrivato tre ore più tardi. Nella tasca interna della giacca aveva un passaporto britannico intestato a Lewis Egan-Scott, nato a Liverpool il 16 settembre 1931, cittadino inglese, di professione giornalista. Effettivamente Zeev Merismann era nato a Liverpool in quella stessa data da genitori ebrei originari della Polonia e con loro si era trasferito nel 1952 in Israele, dove aveva assunto la cittadinanza israeliana in virtù del diritto sancito dalle leggi di quel paese a vantaggio di tutte le persone di religione ebraica. Il passaporto quindi risultava solo parzialmente falso ed era giustificato dall’attività che da tempo lui svolgeva in seno all’Haganah, ¹ col grado di maggiore. Alle ore diciotto di quello stesso giorno Zeev Merismann si sarebbe dovuto incontrare al bar Rosati, in Piazza del Popolo, col capitano dei carabinieri Flavio Caminiti, in servizio presso l’Ufficio «D» del SID, il quale però, forse per la prima volta nella sua carriera, avrebbe mancato un appuntamento. Infatti pochi minuti prima (esattamente alle 12,01), mentre le campane di San Giovanni in Laterano cominciavano a battere i rintocchi di mezzogiorno, la pistola d’ordinanza dell’ufficiale italiano aveva esploso un colpo. Non era stato necessario esploderne un secondo perché il proiettile aveva perforato la tempia sinistra di Caminiti, fuoruscendo dalla scatola cranica e conficcandosi in una parete. La vecchia signora Morabito, che occupava l’appartamento vicino, aveva avvertito un forte tonfo e come al solito aveva imprecato contro i ragazzi dell’appartamento di fronte che sbattevano sempre le porte ma che in quel momento si trovavano al mare in vacanza. Per i pochi altri inquilini del palazzo di Via Biancamano 38 non vi era stato nulla di insolito da registrare perché lo scampanìo copriva ogni rumore. Alla scoperta del cadavere il commissario di Pubblica Sicurezza Gargiulo avrebbe avuto un piccolo enigma da risolvere a causa di quella ferita alla tempia sinistra, poiché il capitano Caminiti, oltre a non essere mancino, aveva l’indice e il medio della mano sinistra anchilosati. Difficilmente quindi si sarebbe potuta sostenere la tesi del suicidio, anche se sull’arma la perizia dattiloscopica avrebbe riscontrato soltanto le impronte digitali del morto. È risaputo comunque che in un delitto non esiste soluzione più razionale di quella imposta dalle autorità di governo. L’unico che avrebbe potuto fare esaurienti rivelazioni sul caso era il generale Vinicio Muralto, capo dell’Ufficio «D» del SID, ma certamente lui non avrebbe aperto bocca sull’argomento. D’altronde la sua coscienza era del tutto tranquilla: il segreto militare e le precise istruzioni ricevute dal dottor Mario Saputo, della segreteria particolare del Presidente del Consiglio, gli imponevano il silenzio.

    Quasi nello stesso momento, in un’altra zona della città, e precisamente nel quartiere dell’EUR, nell’ufficio del direttore generale della società per azioni «Eilath Import-Export», per il settanta per cento a capitale israeliano, la signora Sara Elazar, trentunenne, di corporatura slanciata, occhi verdi e capelli rossi raccolti a chignon, stava facendo firmare la corrispondenza del giorno prima al dottor Guido Ramatti. La giovane donna, nonostante l’aria condizionata e il leggero abito di seta azzurro senza maniche, si sentiva in preda a una specie di febbre che la faceva sudare abbondantemente. Piegata sulla scrivania per porgere al direttore generale le lettere da firmare, liberava dalla sua pelle dorata un penetrante profumo, di sudore umano misto a colonia Vivara, che dava le vertigini all’uomo. Ogni volta quel cerimoniale era atteso con impazienza e apprensione dal dottor Ramatti, il quale nutriva una passione profonda e sragionata per la bella israeliana. Per lei sarebbe stato disposto ad abbandonare la moglie, le due figlie e la cospicua fortuna, ma sapeva di non avere speranze: madre natura non era stata prodiga di fascino virile con lui, anzi al contrario, e inoltre la giovane donna sembrava immune da qualsiasi tentazione di carattere amoroso. Quel giorno Sara Elazar annaspava in un vaporoso delirio perché sapeva che di lì a poco sarebbe arrivato a Roma il maggiore Merismann, che lei ben conosceva e di cui era innamorata — all’insaputa dell’interessato, purtroppo.

    «C’è qualcosa che non va?» le chiese il dottor Ramatti senza trovare il coraggio di guardarla.

    «No, perché?» rispose la giovane donna.

    «Così… Mi era parso che fosse nervosa».

    «Sarà il caldo… Ha ancora bisogno di me?».

    «No, grazie. Non c’è altro, vero?».

    «No, dottore».

    L’uomo spostò di qualche centimetro la poltrona mobile all’indietro e con una paffuta manina diafana accese una sigaretta. Tutto nel suo essere lo spingeva a chiedere a Sara di uscire con lui quella sera ma la coscienza della propria bruttezza lo fermò ancora una volta. In ogni caso non avrebbe potuto concedersi certe libertà con quella donna, sia perché rappresentava il capitale straniero, sia perché sembrava avvolta da una corazza di totale indifferenza.

    Sara aveva fretta di uscire perché aveva molti acquisti da fare con l’intenzione di rendere più accogliente il suo appartamento.

    «Oggi non vengo, dottore» disse mentre raccoglieva le carte, «e forse neppure domani. Mi sostituirà la signorina Guidotti».

    «D’accordo, signora».

    La donna uscì con quell’andatura altera che dava un rimescolìo nel sangue al dottor Ramatti, e solo allora lui trovò il coraggio di guardarla. Quando la porta si fu richiusa, si sentì spregevole e infelice.

    Pochi minuti più tardi, il signor Martin Meyer, cittadino americano, cinquantun anni, centosette chili alla bilancia mattutina, calvo e ingordo della cucina italiana, scendeva nell’accogliente salone del ristorante del Jolly Hotel col preciso proposito di fare una scorpacciata di tagliatelle verdi al forno e di cernia bollita con maionese, di cui aveva letto l’annuncio nel menu del giorno affisso nell’ascensore. Sapeva che di lì a poco Zeev Merismann sarebbe arrivato nello stesso albergo e lo aspettava. L’israeliano però non lo conosceva neppure di nome, ignorava che faceva parte della CIA, né poteva prevedere che in un prossimo futuro Meyer sarebbe entrato di prepotenza nella sua vita privata.

    Quel giorno di fine estate Roma sembrava tutta un altare pagano innalzato alle divinità solari, e San Francesco d’Assisi, dritto sul suo piedistallo al di qua dei fornici delle mura aureliane, era intento ad ascoltare i pettegolezzi di un nugolo di rondini. Ancora per due giorni la città sarebbe stata deserta per le ferie estive, poi col primo settembre il traffico sarebbe esploso di nuovo tra le antiche mura riportando il tasso di anidride carbonica e di decibel a livelli intollerabili.

    Il Boeing 707 dell’Alitalia arrivò all’aeroporto Leonardo da Vinci con puntualità cronometrica. Confuso tra i numerosi passeggeri, Zeev Merismann si mise in fila e, dopo avere esaurito le formalità doganali, si fece portare a Roma da un tassì. Il tenente dei carabinieri Luciano Bardella, che aspettava un segnale dal sottufficiale addetto al controllo dei passaporti, ritenne che l’israeliano non fosse arrivato con quel volo e ne diede comunicazione al generale Muralto. Evidentemente non lo aveva sfiorato l’idea che Zeev Merismann si fosse potuto munire di un passaporto falso.

    L’israeliano aveva prenotato una camera al Jolly Hotel, situato poche decine di metri oltre la cinta delle mura pinciane, al limite di Villa Borghese. L’addetto al ricevimento gli diede il benvenuto in inglese e registrò le sue generalità nell’apposita scheda destinata al controllo della polizia. In quell’occasione il maggiore Merismann dimostrò di essere perfettamente padrone della lingua italiana, studiata in Israele per esigenze di servizio e più tardi approfondita nei suoi continui viaggi in Italia e soprattutto nel corso degli otto anni vissuti al fianco della moglie italiana.

    Gli fu assegnata la camera 416, dove salì accompagnato dal fattorino che gli portava i bagagli. Quando fu solo, spalancò le doppie finestre dai vetri affumicati con l’intenzione di respirare un po’ d’aria fresca, ma dovette richiuderle in fretta a causa della calura che saliva dall’asfalto. Si limitò quindi a portare al minimo il termostato dell’aria condizionata. Erano le 16,20. Gli restava ancora del tempo prima di recarsi all’appuntamento.

    Prese dal frigobar una bottiglietta di birra e ne bevve una metà. Col bicchiere in mano rimase a osservare gli immobili cavallucci di un Luna Park situato all’interno di Villa Borghese, in uno slargo tra due viali deserti. Il silenzio del parco, il vento leggero che sollevava sbuffi di polvere rossiccia dai prati aridi, l’assenza di persone, facevano dell’insieme uno spettacolo piuttosto malinconico, che tuttavia giungeva dolce al suo cuore perché gli ricordava il paesaggio che circondava il suo kibbutz. ² Non si udiva alcun rumore, né voce umana, a eccezione di un cigolìo intermittente provocato con tutta probabilità dal dondolarsi di un cavalluccio mosso dal vento. Inopinatamente si chiese che cosa stesse facendo in quell’albergo italiano comodo e semivuoto, in una giornata di fine agosto, mentre Israele veniva soffocata dall’odio dei paesi arabi circostanti. Aver voluto la pace, aver lottato ogni istante per inculcarne il principio e il tornaconto nei nemici, non era servito a niente. Gli uomini avevano la libidine del sangue: uccidere, distruggere, morire, per loro significava forse trovare il senso reale della vita.

    Attraverso la vetrata poteva scorgere parte delle mura pinciane con il più antico dei sei fornici e uno dei torrioni innalzati da Belisario in occasione della guerra contro i Goti. Roma gli era rimasta particolarmente cara, dopo che vi aveva sostato alcuni giorni, nel sessantadue, con la moglie Ada, durante il loro breve viaggio di nozze. Era stato un tempo felice, anche se fuggevole, che entrambi avevano rievocato spesso dopo le pesanti giornate di lavoro nei campi. Allora si erano voluti illudere che tutto potesse restare bello e tranquillo nel loro futuro come in quei momenti, invece la realtà gli apprestava altri disinganni. E oggi che Ada si era fermata per sempre nel piccolo cimitero del kibbutz di Freyma, vittima ignara di un attacco a sorpresa di fedayin, lui continuava a lottare perché tra Israele e i paesi arabi si stabilisse finalmente la pace. La sua forza gli veniva da Menachem, l’unico figlio che Ada gli aveva lasciato e che oggi, a undici anni, viveva con la nonna paterna nel kibbutz di Beersheba. Zeev sapeva che, mettendo piede a Roma, non gli sarebbe stato possibile sfuggire a quei ricordi, ma ad essi aveva voluto andare incontro quasi per provocare un contatto ideale con la sposa perduta.

    Lo squillo del telefono lo fece sussultare.

    Sorpreso, andò a rispondere; era convinto che si trattasse di un errore. All’altro capo del filo una voce femminile leggermente rauca lo apostrofò in ebraico: «Shalom, Zeev! Ma nish mah?».

    Nel giro di un istante Zeev rivide gli occhi verdi e la lunga chioma rosso-rame di colei che, circa tre anni prima, nel settanta, aveva combattuto al suo fianco per due giorni nella valle del Giordano contro un forte distaccamento di fedayin appoggiato da truppe giordane.

    «Shalom, Sara!… Mi fa uno strano effetto ascoltare la tua voce dopo tanto tempo. Mi ripromettevo di telefonarti più tardi».

    «E io ti ho preceduto. Ti dispiace?».

    «Puoi pensarlo davvero?» disse Zeev in tono grave.

    Si sorpresero un po’ impacciati di fronte a quell’incontro immateriale che li teneva ancora nel territorio della memoria. L’immagine di Sara era venuta spesso nei suoi ricordi, come una talpa in un giardino abbandonato, ma lui non le aveva mai permesso di sostarvi a lungo, per motivi che non aveva mai voluto accertare.

    «A che ora hai l’appuntamento, Zeev?».

    «Alle sei».

    «Dove?».

    «Al bar Rosati, in Piazza del Popolo».

    Seguì un breve silenzio, poi la giovane donna riprese: «Dopo… ci vediamo?».

    «Me lo auguro, Sara. Spero solo che non mi trattengano. In tal caso ti telefonerò».

    «Grazie. Ma ricorda che andrà bene qualsiasi ora. Debbo parlarti a lungo della situazione».

    Zeev sapeva che Sara faceva parte del controspionaggio israeliano e che il suo lavoro alla «Eilath Import-Export» costituiva una copertura. Lei si trovava a Roma da circa due anni, dopo aver prestato servizio nel corpo del Nahal ³ col grado di tenente, partecipando prima alla guerra dei Sei Giorni e successivamente in numerose altre battaglie della cosiddetta guerra di usura.

    «D’accordo, Sara» disse Zeev.

    Ebbe l’impressione che la giovane donna fosse tentata di dirgli qualcosa che non osava.

    «Che c’è, Sara?» le chiese con tenerezza.

    «Niente, Zeev. Niente d’importante, ecco… Sai, ho pensato molto spesso a te in questi tre anni… Ti hanno detto che l’anno scorso sono venuta al kibbutz di Beersheba?».

    «Sì, me l’ha detto mia madre».

    «Tu eri all’estero. Ho conosciuto anche tuo figlio… Mi pare che si chiami Menachem, vero?».

    «Sì, Menachem. Mio padre si chiamava così».

    «Che bel bambino! Non avevo mai visto un bambino bruno con gli occhi verdi…». Una lunga pausa, piena di impaccio. Poi la domanda che tanto doveva starle a cuore: «Sua madre aveva gli occhi verdi, vero?».

    «Sì, infatti».

    «Menachem mi ha parlato tanto di lei… Poi mi ha fatto visitare il vigneto, le altre colture, la fabbrica di motociclette… Hanno fatto un lavoro magnifico laggiù».

    S’interruppe bruscamente. Zeev tremò nell’intuire la profonda commozione di Sara, se ne sentì colpevole senza alcun motivo apparente, o forse lo volle, chi sa per quali sotterranee voci dell’inconscio.

    «Anch’io ho pensato a te molto spesso, Sara».

    «Dici davvero?».

    «Certo».

    «Grazie, Zeev. Sono proprio felice di saperti qui. A presto, allora. A stasera, spero. Shalom, Zeev!».

    «Shalom, Sara!».

    Due donne con gli occhi verdi, entrambe con i capelli a chignon — Ada e Sara. — L’una sua moglie, la madre di Menachem, bruna tenera e dolce. E l’altra? Indubbiamente diversa, di una bellezza più pastosa, simile a certe madonne botticelliane che sembrano sospese a mezz’aria tra le regioni dei sensi e le quiete lande dello spirito, ma fiera in certi scatti, talvolta aggressiva o tale in apparenza per certi toni della voce un po’ rauca, le labbra carnose spesso tirate da una smorfia che poteva essere di ironia e anche di timidezza; pareva sempre sulla difensiva, anche quando attaccava, ma nel sorridere aveva il potere di dischiudere un mondo magico e misterioso in cui avresti voluto tuffarti a qualsiasi costo, pur vendendo l’anima al diavolo. Quegli occhi verdi e quei capelli rossi, a trecce annodate sulla nuca, facevano da cornice a un volto dai lineamenti asimmetrici, dagli zigomi alti, che Ingres o Delacroix non avrebbero esitato a prendere a modello per rappresentare l’eterno femminino. Così la ricordava Zeev. Durante quella battaglia sul Giordano, l’aveva notata soltanto quando gli si era presentata al limite delle sue forze, urlando: «Mi sono finite le munizioni! Trovami altre munizioni, comandante, presto, presto!». Per un momento lui non aveva saputo come reagire alla furia di quella ragazza in uniforme, sporca e sudata, lo chignon disfatto a metà e una lunga treccia sparpagliata sulle spalle; poi si era sorpreso a rivolgere a chi sa chi una preghiera mentale: «Mio Dio, se sei davvero giusto, fa’ che questa donna non debba mai cadere viva nelle mani dei nostri nemici!». Quando le aveva trovato le munizioni, Sara aveva ripreso a sparare con accanimento, semiaffondata in una trincea di sabbia, la guancia appoggiata al calcio della mitragliatrice. Niente di eroico in lei, ma la certezza che anche dal suo coraggio dipendeva la salvezza del popolo di Israele. Nel giugno del sessantasette, durante la guerra dei Sei Giorni, aveva perduto il padre e il marito. C’era forse una famiglia in Israele che non avesse perduto un congiunto in battaglia?

    Zeev guardò ancora l’orologio.

    Le cinque meno due minuti.

    Aveva il tempo di fare una doccia.

    Rimase a lungo sotto il getto d’acqua fredda. Indossò un abito chiaro che non portava da quando Ada era ancora in vita e che avevano comprato insieme in Bond Street, a Londra. Non volle analizzare il perché di quella scelta. Un omaggio alla memoria della moglie? Decise che fosse così; in realtà sapeva che gli donava.

    Stava per fare il nodo a una cravatta azzurra, quando squillò il carillon dell’appartamento.

    «Avanti» disse a voce alta.

    La porta si aprì e in fondo al breve andito apparve un uomo largo, goffo, calvo, in maniche di camicia, una giacca chiara stretta sotto il braccio e un largo fazzoletto intriso di sudore nella sinistra. La sua stazza doveva essere notevole perché a causa dei pochi passi fatti nel corridoio boccheggiava.

    «Chiedo scusa, signor Scott» disse una voce stridula, «mi chiamo Meyer, Martin Meyer, e vengo da parte di un comune amico, il senatore Galford del Connecticut… Posso parlarle un momento?».

    Si eprimeva in un americano stretto, farfugliante, e non cessava un momento di asciugarsi il sudore dal collo e dalla faccia. All’invito di Zeev, richiuse la porta e avanzò a brevi passi, come se invece di camminare rotolasse. L’israeliano lo osservava incuriosito, ma anche cosciente di provare una certa diffidenza per l’intruso.

    «Come sta Willie Galford?» s’informò più per opportunità che per vero interesse.

    «Bene, bene, immagino bene» rispose Meyer svagato. «Posso sedermi, vero? Grazie… Oh, finalmente! Mi sento come arrivato in porto. Non ha qualcosa di fresco da bere? Birra, soprattutto birra, ma non quell’acquetta italiana. Puah, che ignobile intruglio!… Ah, Galford!… In realtà non lo conosco, non l’ho mai visto e non ho nessuna intenzione di fare la sua conoscenza… Ho accennato a lui perché so che è un suo vecchio amico. Ama molto gli israeliti, il senatore Galford. In un certo senso anch’io…».

    S’interruppe per dedicarsi all’assorbimento dei nuovi rigagnoli di sudore. Sprofondato nella piccola poltrona vicino alla vetrata, faceva pensare a un calabrone tra le spire di un serpente. In realtà era molto patetico, ma Zeev non si lasciò ingannare dalle apparenze. Dopo avere ordinato per telefono una mezza dozzina di bottiglie di birra tedesca gelata, si mise a sedere sulla sponda del letto.

    «Perché ha fatto il nome di Willie Galford, se non lo conosce?» chiese, mentre dava fuoco a una sigaretta.

    «Via, non vorrà farmi il formalista, ora! Non potevo restarmene sulla porta a cianciare dei nostri affari privati… In ogni caso, amico di suoi amici lo sono, e glielo dimostrerò tra poco, signor Scott…». Abbassò la voce e si chinò in avanti nel soggiungere: «O debbo dire signor Merismann?».

    Zeev non tentò di nascondere la sua irritazione.

    «Mi dia qualche informazione più precisa sul suo conto» disse. «Non ho molto tempo da dedicarle. Tra poco dovrò uscire».

    «Se pensa all’appuntamento col capitano Caminiti, può risparmiarsi la passeggiata fino a Piazza del Popolo».

    «Sa anche questo?» esclamò Zeev sempre più irritato.

    «Questo e altro» precisò Meyer fissandolo con i freddi occhi grigi affondati nelle pieghe degli zigomi.

    «Si vuole spiegare meglio?».

    «Sono qui per questo».

    «E allora?».

    Il carillon della portà fermò l’americano. Era il cameriere che portava la birra. Meyer si gettò avidamente sul suo bicchiere, mentre il cameriere se ne andava, lo vuotò d’un fiato.

    «Lei non mi tiene compagnia, signor Scott?».

    «Non ho sete».

    «Bene, bene!… Non si fida ancora di me, vero? Ma si ricrederà. Sono un amico. Per tranquillizzarla, signor Scott, le dirò che da circa sette anni sono in contatto con la sua organizzazione… Sì, l’Haganah. Provi a chiedere di me al suo capo, Aaron Hakoen. Saprà tutto». Emise un rutto poderoso, del quale non si scusò neppure, e perse un po’ di tempo a stappare la seconda bottiglietta di buona birra scura tedesca. «Ecco, vede, i tedeschi ci sanno fare con la birra, e anche con la meccanica. Per il resto, zero. Robot, ecco, privi di sentimenti. L’unica cosa che amano, anzi adorano, sono gli animali. Se gli ebrei fossero stati animali, non so, uccelli cani gatti cavalli, non sarebbero stati massacrati dai nazisti. Gli italiani invece non conoscono il segreto della fermentazione dell’orzo né il dosaggio del luppolo, ma in compenso sono degli eterni ragazzi, pieni di cuore e di ingenuità. Per questo si fanno fregare sempre. Come il capitano Caminiti, ad esempio».

    «Che cosa vuol dire?».

    Meyer ripose con gesto deciso il bicchiere e fissò l’israeliano in volto, rivelando una forza di carattere sorprendente.

    «Caminiti è morto» farfugliò sottovoce, «ucciso. Ma tutto è stato predisposto, anche se grossolanamente, perché si creda a un suicidio. I giornali della sera e il telegiornale daranno la notizia, che sarà avallata dalla polizia».

    Zeev ebbe l’impressione di avere ricevuto un pugno al plesso solare.

    «È sicuro di quanto afferma?» domandò ancora incredulo. «Ho parlato con Caminiti due giorni fa, per telefono, da Tel Aviv e…».

    «Formi il suo numero di casa» disse Meyer riprendendo il bicchiere, «sette cinque zero tre zero cinque. Lo conoscerà anche lei. Non le risponderà nessuno. La signora Caminiti e i bambini sono da fine luglio a Terni, in villeggiatura. Sarà un colpo per quella povera donna…».

    Zeev si sentiva svuotato di ogni energia. Benché fosse ancora diffidente, era indotto a prestar fede all’ambiguo Meyer. Si alzò per prendere una sigaretta, si mise a fumare con lo sguardo perduto tra le piante di Villa Borghese. Senza rendersene conto, trasse dal frigobar una boccettina di whisky, ne versò il contenuto in un bicchiere e ne bevve due sorsate.

    «Perché avrebbero ucciso Caminiti?» domandò voltandosi di scatto. «E chi lo avrebbe ucciso?».

    «Alla prima domanda è facile rispondere. Lo hanno eliminato perché non era disposto ad abbandonare le indagini sul gruppo terrorista arabo presente a Roma da qualche giorno. Era già a buon punto e voleva andare fino in fondo. Si è rifiutato di tradire la causa israeliana, ecco. Era un uomo leale e un poliziotto scrupoloso, ma indubbiamente era anche molto ingenuo. Avrebbe potuto agire con diplomazia, salvando così la pelle e mantenendo i contatti con voi. Invece ha voluto muoversi allo scoperto, intralciando i piani del governo che vuole evitare a tutti i costi di mettersi contro gli arabi produttori di petrolio».

    «Qual è il senso reale delle sue parole, signor Meyer? Vuol dire che Caminiti sarebbe stato eliminato dai suoi stessi superiori?».

    L’americano parve gongolare, mentre era intento a stappare una terza bottiglietta di birra.

    «Non materialmente, si capisce» rispose infine, dopo aver vuotato il bicchiere. «Non dimentichi, signor Scott, che l’attuale SID è formato dagli stessi elementi più o meno del disciolto SIFAR, il quale era capeggiato da quel generale De Lorenzo che era fermamente deciso a spingere gli italiani alla guerra civile».

    «Non lo dimentico affatto, signor Meyer» replicò Zeev, «come non dimentico che a quell’epoca gli Stati Uniti, tramite la CIA, diedero un considerevole appoggio allo stesso generale De Lorenzo».

    Meyer ripeté quei sobbalzi che, secondo le sue intenzioni, dovevano essere risatine soffocate.

    «Certo, certo» farfugliò, «chi non sbaglia in questo mondo? In ogni caso il SID, come il SIFAR, è un mare dove sboccano molti fiumi, e in uno di questi fiumi dev’essere annegato il povero Caminiti. Avrebbe dovuto imparare a nuotare, ecco, prima di fare il ribelle… Avrebbe dovuto sapere che gli arabi sono terribilmente permalosi e che per un nonnulla sarebbero capaci di bloccare le forniture di petrolio all’Italia, con le disastrose conseguenze che tutti possiamo immaginare…». Stappò un’altra bottiglietta di birra, riempì il bicchiere fino all’orlo evitando il formarsi della schiuma e ne bevve una lunga sorsata. «La settimana scorsa mi trovavo in Libia, in missione. A Tripoli ho avuto modo di scoprire, quasi per caso, che un commando di terroristi arabi era stato sguinzagliato a Roma pochi giorni prima. Non ho potuto accertare i suoi obiettivi ma non è

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