Sotto il cielo di Berlino
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Anteprima del libro
Sotto il cielo di Berlino - Paulo Ribeiro
Paulo Ribeiro
Sotto il cielo di Berlino
Romanzo
© Bibliotheka Edizioni
Via Val d’Aosta 18, 00141 Roma
tel: +39 06.86390279
info@bibliotheka.it
www.bibliotheka.it
I edizione, Marzo 2017
Isbn 9788869342271
È vietata la copia e la pubblicazione, totale o parziale, del materiale se non a fronte di esplicita autorizzazione scritta dell’editore e con citazione esplicita della fonte.
Tutti i diritti sono riservati.
Disegno di copertina: Paolo Niutta
www.capselling.it
Paulo Ribeiro
Paulo Roberto Da Silva Ribeiro è nato a Rio de Janeiro. Alla fine degli anni ’90 si trasferisce con la famiglia in Italia, a Roma, dove tuttora vive.
Con il suo romanzo d’esordio ci conduce in un viaggio ricco di emozioni, con una delicatezza tale da toccare profondamente il nostro animo.
Prologo
Mi chiamo Thomas Schulz. Nato a Berlino nella primavera del 1948. Padre: Han Schulz. Madre: Brigida Schulz.
Non ho mai raccontato questa storia a nessuno. Quelli che la conoscono, ne sono a conoscenza poiché erano presenti. Benché sia riluttante a parlare di un periodo che, tuttora riesce a far sussultare il mio cuore e a far scendere lacrime sul mio viso marcato dal tempo, ho deciso di lasciarvi la mia testimonianza. Prima che questo cuore malconcio smetta di battere.
Con mano malferma, stringo la penna per tracciare la mia storia sopra questo pezzo di carta.
La storia di un ragazzo e del suo più grande nemico: un muro.
Capitolo 1
Guerra fredda e lentiggini
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, si creò uno squarcio nel cuore delle persone.
La seguente opposizione ideologica e militare tra occidente e oriente, divise il paese in
due fazioni; impegnate negli anni successivi in una grottesca sfida su chi fosse più dotato in diversi settori: militare, spaziale, tecnologico, ideologico e così via. Sviluppando in questo modo la cosiddetta: Guerra Fredda.
Tale tensione non si concretizzò in un conflitto militare vero e proprio. La disponibilità di armi nucleari da ambedue le parti, avrebbe potuto mettere la parola fine al genere umano.
Nel frattempo, a subirne le conseguenze eravamo noi.
Berlino divenne il simbolo della divisione. Divisa a metà dopo la caduta della Germania, fu spartita e frammentata. La parte ovest fu occupata dalla Francia, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti d’America. La parte est fu occupata interamente dall’Unione Sovietica.
Proprio a est, vi era un palazzo alto sei piani. Quel palazzo, uno dei pochi sopravvissuti ai bombardamenti durante la guerra, ospitava all’ultimo piano, in un piccolo appartamento, la mia famiglia.
Abitavamo nel quartiere di Mitte, a pochi passi dalla Porta di Brandeburgo.
Su ogni piano c’erano quattro appartamenti. Non tutti erano abitati.
Gli adulti odiavano quel posto. Non appena potevano, si trasferivano. Li sentivo sbraitare parole a me sconosciute, come comunismo e capitalismo. Li ignoravo.
Sì, dovevo ammettere che fosse alquanto fatiscente il palazzo, sia all’esterno che all’interno. Poteva capitare di avere dei brutti incontri con i ratti, o che i corridoi restassero totalmente al buio, eppure mi piaceva.
In casa eravamo in tre: papà, mamma ed io. Non avevo fratelli. Questo condizionò tutta la mia infanzia. Mi sentivo solo. Soprattutto quando il mio miglior amico, Mario, andava a trascorrere l’estate nella fattoria dei suoi nonni.
Assomigliavo più a mio padre che a mia madre: capelli bruni a caschetto, occhi azzurri e di statura alta. Mia madre, al contrario, era snella, bionda e di bassa statura. Mio padre possedeva delle braccia forti e robuste per via del suo lavoro in fabbrica. Mia madre lavorava in casa; possedeva una di quelle macchine per cucire su cui spendeva gran parte del suo tempo. Sebbene si sforzassero, non riuscivano a darmi le attenzioni di cui sentivo il bisogno. Trascorrevano gran parte della loro giornata a lavorare.
Di bambini nel palazzo non ce n’erano più. Si erano tutti trasferiti con le loro famiglie nella parte ovest della città. Se ne andavano durante la notte. Il giorno prima, giocavano con me. Quello dopo, i loro appartamenti erano vuoti.
Negli anni ho visto la città svuotarsi rapidamente. Temevo che Mitte diventasse un quartiere fantasma. Soltanto nel palazzo dove vivevo, si erano liberati ben undici appartamenti. Percorrevo il corridoio di ogni piano e li contavo. Ogni volta che arrivava una nuova famiglia, ero il primo a saperlo. Divenne un gioco per me. Bussavo alle porte degli appartamenti vuoti, sperando che ci fosse una nuova famiglia con figli dodicenni come me.
Provavo un certo astio per la parte ovest della città. L’ovest mi aveva rubato tutti gli amici, fuorché uno: Mario. Che però era dai nonni. Accadeva che mia madre domandasse a mio padre se non fosse il caso di trasferirci a ovest. Il cuore mi saltellava nel petto. Immaginavo che a ovest esistesse un vasto prato verde dove tutti i bambini rubati all’est giocavano sorridenti; una volta sognai quel prato e mi svegliai infastidito. Mio padre però era del tutto contrario. La sua risposta era sempre la stessa: «Perché dobbiamo andarcene? Possediamo una casa e un lavoro. Al Governo non piace l’esodo in corso. È pericoloso! Togliti quell’idea dalla testa, Brigida.»
In tal modo vissi l’estate del 1960. In solitudine, bramando compagnia.
Giunse l’ultimo weekend prima dell’inizio della scuola. A differenza degli altri ragazzi della mia stessa età, lo attendevo con impazienza. L’inizio della scuola significava la fine della mia solitudine e il ritorno in città di Mario.
Un urlo acuto squarciò la notte e il mio sonno. Il grido disperato proveniva dalla Porta di Brandeburgo. In quei giorni, episodi analoghi accadevano spesso. Non riuscii più a prendere sonno. Guardai le lancette dell’orologio che segnavano la mezzanotte. Tediato, mi trascinai giù dal letto. Mio padre dormiva profondamente. Mia madre, ingobbita e illuminata solamente da una lampada, lavorava alla sua macchina per cucire. Il suo corpo in quella posizione aveva una strana forma, simile alle creature che popolano i libri di fiabe. Le passai vicino e lei neppure se ne accorse. Di soppiatto, aprii la porta e uscii nel corridoio. Fuori era buio e deserto. Alla fine del corridoio trovai alla cieca le scale. Riuscivo a malapena a vedere i profili dei gradini. Salii. Come di solito la porta del terrazzo era chiusa. Sapevo però, dove nascondevano le chiavi. Sollevai il mattoncino accanto alla porta e le presi. Il cigolio della serratura ruppe il silenzio della notte. L’aria fresca mi travolse, procurandomi dei brividi. La vista da lassù era magnifica a quell’ora. Le stelle sopra Berlino rendevano la città incantevole, come fosse un dipinto. Illuminavano la quadriga sopra la Porta di Brandeburgo guidata dalla dea. Un rumore improvviso proveniente dalle scale mi fece sussultare. Se mia madre mi avesse trovato lì a quell’ora, mi avrebbe tirato l’orecchio fino a farlo diventare rosso. Chiusi rapidamente la porta alle mie spalle. Nascosi le chiavi e sentii delle voci provenire dai piani inferiori. Fui tentato di scendere e controllare a chi appartenessero, ma esitai per il timore di trovarmi dinanzi a dei balordi. Non potei fare altro che attendere l’indomani per scoprire se quelle voci appartenessero a una nuova famiglia in arrivo.
«Non alzarti finché non hai finito», ordinò mia madre puntando l’indice sul pane sopra il tavolo.
Quel pane era diventato un supplizio. Pur sommergendolo nel latte, mandarlo giù era sgradevole. Lottai contro l’ultimo pezzo stantio e quasi mi strozzai. Tossendo, pulii le mie labbra e posai le stoviglie nel lavabo della cucina.
«Posso andare?»
Lei controllò se la tazza fosse vuota, poi agitò il capo su e giù. Mia madre non tollerava lo spreco di cibo.
Corsi giù per le scale. Come d’abitudine, partii dal primo piano. Lì, c’erano due appartamenti, occupati entrambi da persone anziane. Ho sempre pensato che la signora Margot, visto i problemi fisici che la costringevano a restare perlopiù seduta sopra il divano, avesse scelto di vivere al primo piano per non salire tutte quelle scale. Non tutti riuscivano a capire le parole biascicate che uscivano dalla sua bocca, ma io stavo attento e mi concentravo ad ascoltarle. Spesso mi chiedeva di comprarle della frutta o del latte. Ricevevo sempre una ricompensa quando tornavo con la spesa: che fosse frutta, biscotti o le caramelle al miele che adoravo.
Margot viveva da sola, al contrario della coppia di anziani che viveva nell’altro appartamento: il signore e la signora Volmar.
La signora Volmar era la tipica anziana che, per qualche strana ragione, si era dimenticata di essere stata, una volta, bambina anche lei. Con il capo fuori dalla finestra, lanciava occhiatacce ai bambini che a suo parere erano troppo chiassosi.
A differenza di sua moglie, il signor Volmar era un tipo simpatico. A volte lo osservavo trafficare con il capo dentro il cofano della sua auto, un rottame che non si metteva mai in moto. Mi piaceva osservarlo. Era divertente vederlo imprecare ogni qual volta il suo cappello scivolava nel vano motore.
Transitai di fronte alla porta dei Volmar e li sentii blaterare ad alta voce. Quei due erano duri d’orecchio. Adagio, accostai il mio orecchio alla loro porta e sentii la voce ovattata del signor Volmar lamentarsi di quel rottame di automobile. Ridacchiai. Poi sussultai quando lo scricchiolio della porta annunciò la sua apertura. Per fortuna era la signora Margot che abitava nell’appartamento accanto.
«Thomas, andresti comprare del latte e delle patate a questa povera vecchietta?»
In realtà non scandì così bene le parole. Mi aveva persino sputacchiato in faccia quando provò a dire vecchietta. Come vi ho detto, stavo attento a quello che usciva dalla sua bocca. Feci segno di sì con il capo e misi le mani a coppa. Sapevo che sarebbe arrivata la cascata di pfennig(1). Misi le monete nella tasca dei pantaloncini sostenuti dalle bretelle e la salutai. Dovevo fare in fretta, volevo controllare gli appartamenti vuoti prima dell’ora di pranzo.
Corsi via tra le strade di Berlino simulando una corsa con un’auto immaginaria. I passanti si spostavano per farmi transitare. Alcuni erano inorriditi dal rumore del motore che riproducevo con la bocca. Altri erano divertiti. Mi sono sempre domandato perché alcuni adulti dimenticano di essere stati una volta bambini.
Prima di entrare nel negozio di Gustav, frenai. Neppure a lui piacevano i bambini. Spesso rubacchiavano delle caramelle dal suo negozio di generi alimentari. Gustav abitava al sesto piano del nostro palazzo, nell’appartamento accanto al nostro. Non gli avevo mai rivolto parola. Entrai nel negozio e lui mi lanciò un’occhiataccia di avvertimento. Tenni ben in vista le mani in modo che potesse vederle. Presi prima le patate, poi un litro di latte. Esitante, raggiunsi la cassa con occhi bassi e feci scivolare i pfennig nelle sue mani. Lui mi scrutò per alcuni secondi con il respiro affannato, sebbene non fosse sotto sforzo. Alzai lo sguardo, adocchiando il suo doppio mento e la sua pancia che sporgeva.
«Lo sai cosa succede a chi ruba nel mio negozio?» boccheggiò.
Feci segno di no con il capo.
«Se non vuoi scoprirlo, è meglio che quelle tasche siano vuote.»
Tirai fuori le tasche dei pantaloncini. Lui soffiò con il naso sopra un foulard. Feci una smorfia di disgusto.
«Che hai da guardare? Fila via!»
Saltai dentro la mia auto immaginaria e pigiai il pedale dell’acceleratore fino all’appartamento di Margot.
Tre caramelle al miele. Non potevo chiedere di più. Ne mangiai solamente una. Le altre le misi in tasca e le conservai per dopo. Era ora di parcheggiare l’auto immaginaria e iniziare il gioco del: scopriamo se in uno degli appartamenti vuoti è arrivata una nuova famiglia con bambino. Inalai una boccata d’aria, ero eccitato. Il cuore mi batteva forte.
Bussai alla porta dei due appartamenti vuoti del primo piano: nessuna risposta. Salii al secondo piano. Lì, avevo tre possibilità su quattro.
Un fatto curioso del palazzo in cui vivevo, era che ogni piano si poteva riconoscere dall’odore che emanava. Mentre il primo era contraddistinto da un odore stantio, il secondo era facilmente riconoscibile per il forte odore di cibo per gatti. Difatti, lì viveva Agnes la gattara, così chiamata da mia madre, brava donna, per carità, ma con il difetto di appioppare soprannomi, a volte cattivi, alle persone.
A darmi il benvenuto al secondo piano fu Luna: una gatta grigiastra del colore della Luna piena. Transitò tra le mie gambe, facendomi le fusa. Di tanto in tanto miagolava. Mi chinai e lisciai la sua testa. Lei chiuse gli occhi e si buttò a terra con aria soddisfatta. Mi alzai e andai a bussare alla porta dell’appartamento di fronte a quello di Agnes: nessuna risposta.
Passai alle porte accanto e trovai altri due gatti a cui avevo affibbiato i nomi di Tigre e Pipistrello. Nella porta in cui era sdraiato Pipistrello, non ebbi difficoltà a bussare. Lui si alzò spaventato e corse via. Quel gatto aveva paura persino della sua stessa ombra! Neppure lì rispose qualcuno.
Non fu semplice bussare nella porta dov’era sdraiato Tigre. Quel gatto era sempre arrabbiato. Rizzò la sua pelliccia e soffiò non appena mi avvicinai.
«Sciò! Sciò! Gattaccio.»
Gli soffiai di ritorno. Cosa che lo fece infuriare ulteriormente. Mi allontanai pensoso. Dovevo farmi venire un’idea per allontanarlo. Presi la rincorsa con le braccia sollevate e una boccaccia che pensavo fosse spaventosa: ringhiai. Ma Tigre non si mosse, guardandomi con occhi annoiati. Non ne voleva sapere di spostarsi.
La porta dell’appartamento di Agnes scricchiolò, la donna si affacciò incuriosita. I gatti si alzarono per introdursi nel suo appartamento. Agnes chiuse la porta senza dire una parola.
Nessuna risposta neppure dall’appartamento dov’era disteso Tigre.
Il terzo piano era quello con l’odore peggiore. Il tanfo di pipì, alcol e sostanze chimiche invasero le mie narici, facendomi lacrimare gli occhi. Mi era severamente proibito sostare in quel piano. Poiché, a occupare due dei quattro appartamenti, erano Adrian l’ubriacone e due ragazzi che si drogavano. Potete immaginare i modi in cui mia madre chiamava gli inquilini del terzo piano. Portai la mano sul naso e camminai adagio, controllando se ci fossero frammenti di vetro a terra.
Un lamento simile a quello di un animale, proveniente da uno degli appartamenti, mi procurò dei brividi lungo la schiena. Bussai contemporaneamente alle porte dei due appartamenti vuoti. Attesi un paio di secondi e corsi via. Dubitavo che qualcuno potesse scegliere di vivere in quel piano. L’entusiasmo che provavo si stava smorzando. Pensai che probabilmente a fare rumore la notte precedente fosse stato Adrian l’ubriacone.
Giunto al quarto piano, potei finalmente respirare a pieni polmoni. Adoravo l’odore di caffè che emanava l’appartamento dello scrittore Gerrit. Mi era proibito berlo, pertanto restavo assorto a immaginare il suo gusto. Accostai l’orecchio alla sua porta e riuscii a sentire il picchiettare delle sue dita sui pulsanti della macchina per scrivere. Per me Gerrit era una figura fiabesca. Lo immaginavo durante la notte davanti a una tazza di caffè, intento a scrivere le avventure che vivevano i suoi personaggi. Trovavo affascinate la sua abilità di trasformare delle semplici pagine bianche in mondi pieni di colori e vita.
In quel piano viveva anche Maximilian, un ex soldato impazzito durante la guerra. La sua presenza non influiva molto sull’odore del piano. Nessuno sapeva cosa gli fosse accaduto. Sebbene tutti lo evitassero, era innocuo. Sì, era fastidioso quando predicava la parola del comunismo e imprecava contro: Quegli sozzi capitalisti
. A me non importava, volevo solo giocare.
Oltrepassai la sua porta e mi fermai a odorare il profumo di rose che proveniva dall’appartamento degli sposini francesi.
Mia madre, durante le nostre cene, faceva molte congetture sul motivo per il quale una coppia di sposini francesi avesse deciso di trasferirsi a Berlino Est, proprio in quel periodo storico. «Sarà di sicuro per qualche motivo scabroso» ripeteva di continuo. Non sapevo neppure cosa significasse la parola scabroso!
Le probabilità che trovassi qualcuno in quel piano erano basse, un appartamento su tre. Infatti, non vi fu risposta nemmeno lì. Prima di andarmene, appoggiai l’orecchio alla porta e ascoltai il suono dell’affascinante idioma francese.
Esclusi i due appartamenti all’ultimo piano, ero sicuro che fossero vuoti. Poiché se qualcuno si fosse trasferito lì, mia madre sarebbe stata la prima a saperlo. Pertanto, restavano solamente i due appartamenti del quinto piano.
L’odore che dominava il quinto piano, come ripeteva Lenz il mondezzaio, l’altra persona che vi abitava, era l’odore di donna.
Naturalmente non mi piaceva come mia madre chiamava il povero Lenz. Per me Lenz era un ricercatore di tesori. Vagava per la città con il suo carrello in cerca di oggetti di tutti i generi.
Ma i nomignoli peggiori erano affibbiati a Helena, l’altra abitante di quel piano.
Il nomignolo migliore che usava nei suoi confronti era: la donna di facili costumi.
Mi era severamente vietato parlare con Helena. Non potevo neppure nominare il suo nome a casa. Per anni non compresi l’astio che mia madre aveva verso di lei. Con il trascorrere degli anni, la curiosità verso l’altro sesso mi portò a capire: mia madre si sentiva minacciata. Era consuetudine vedere Helena transitare con i tacchi alti, il rossetto rosso come il sangue e gli abiti stretti che ne mettevano in risalto le sue curve. Usciva sempre di notte. Questo dava motivo a mia madre di sparlare su quale fosse il suo lavoro. In realtà ero affascinato da Helena. Spesso mi nascondevo lungo le scale in attesa che passasse, lasciando la sua scia di profumo pungente. Osservavo quella creatura, forse la prima che svegliò in me un certo interesse verso le donne. Scrollai il capo tentando di mandare via la sua immagine dalla testa.
Bussai alle due porte rimaste: nulla. Sconsolato, m’incamminai nel corridoio sbuffando. Lo scricchiolio di una chiave nella serratura mi fece voltare di colpo. Corsi dinanzi all’appartamento da cui proveniva il rumore e attesi trepidante. La porta si aprì. Di fronte a me apparve una bambina dal viso lentigginoso con due enormi trecce rosse che le scendevano sulle spalle. Ci fu un lungo silenzio, prima che girassi i tacchi e corressi via.
(1) Vecchia moneta tedesca, esistita dal IX secolo fino all’introduzione dell’euro nel 2002.
Capitolo 2
Disegni osceni e tesori
Non riuscivo a spiegare a me stesso il mio comportamento. Avevo atteso per tutta l’estate l’arrivo di un bambino. Appunto! Di un bambino! Non ero preparato a trovarmi dinanzi a quella creatura dal viso lentigginoso. Dio! Cosa m’importava che fosse una ragazza? Ero smarrito. Quella notte mi girai e rigirai nel letto. Non riuscivo a pensare ad altro. Chiusi gli occhi solo quando un raggio di luce entrò nella mia stanza annunciando l’arrivo del mattino. Non durò molto il mio sonno. Sognai una delle peggiori giornate della mia vita.
Ero a scuola, seduto al solito posto accanto a Mario.
Lui era intento a seguire la lezione. Osservava la lavagna con gli occhi deformati sotto le lenti a fondo di bottiglia. Un dolore acuto mi colpì alla vescica facendomi trattenere il respiro.
«Signora Steiner, posso andare al bagno?» chiesi con la mano sollevata.
Lei si voltò