Amira: Da Damasco in viaggio verso la verità
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Anteprima del libro
Amira - Elisabetta Vanni
soprattutto.
Preambolo
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Nella stiva non c’era neppure lo spazio per allungare un braccio, una accanto all’altro da ore interminabili, settantacinque persone che non si conoscevano costrette a dividersi la poca aria viziata che si riciclava con sofferenza. Tutte stivate su un vecchio peschereccio che non avrebbe potuto sopportarne trenta, di persone. Non si vedeva il boccaporto da dove ci trovavamo e se non fosse stato per la puzza di pesce marcio avrei perfino dubitato di trovarmi in mare; non assomigliava nemmeno a un mezzo di trasporto reale quel legno senza vie di uscita, ma a un vascello immaginario che conduce verso l’ignoto. Per quante parole mi sforzi di cercare deve essere chiaro che noi non eravamo destinati all’immortalità come coloro che cento anni fa salirono sul Titanic, noi eravamo semplicemente persone destinate alla fuga, soltanto se fossimo riusciti a scampare la morte. Eccolo qui, il senso di questo viaggio, racchiuso nell’assurdità di quella misera nave in mano alla provvidenza. Ciascun passeggero immerso nei propri incubi pronto a sussultare ad ogni onda, senza più la forza di provare speranze. Io e mia cognata avevamo deciso di raggiungere l’Europa in questo modo perché mia nipote Amira, a differenza nostra, non aveva i documenti per l’espatrio e questo viaggio si faceva per lei, andava fatto a tutti i costi, non si poteva più rimandare; quella era l’unica via di fuga che eravamo riuscite a trovare. «Se ce l’hanno già fatta centinaia di siriani e iracheni di cui direttamente o indirettamente siamo venute a conoscenza, perché non dovremmo farcela noi?» Abbiamo pensato io e Sarah. Non siamo certo ingenue e indifese donne. Ce la potevo fare, dovevo aiutare Amira a sbarcare su un nuovo futuro. Pensavo che lei meritasse di conoscere un periodo di pace, a qualsiasi costo, anche se non ce lo aveva mai chiesto.
Il viaggio era iniziato ormai da molte ore e io mi guardavo intorno con insistenza. Mi chiedevo se fra i nostri compagni ci fossero anche imprenditori, scrittori, artisti o comunque persone che come me avessero già in mente il momento in cui questa avventura si sarebbe trasformata in un racconto da tramandare. Forse però erano solo miserabili, tutta gente incapace di trovarsi un ruolo in patria, sotto le bombe a grappolo di Assad, tra gli spari dei ribelli, non avevano trovato la forza di combattere. Li ho contati uno ad uno, c’erano cinquantadue uomini, diciotto donne adulte e cinque ragazze, la più giovane avrà avuto meno di dodici anni. In quel tempo infinito qualcuno si era sentito male e alcune donne avevano anche vomitato, una dietro l’altra come in un gioco di specchi. Osservavo spesso Amira e mi inorgogliva vedere come mia nipote si imponesse di rimanere tranquilla, di non mettersi ad urlare nonostante ormai le fosse chiaro di aver subito un inganno, ne sono certa, la vedevo, contavo ogni saliva che deglutiva, ogni volta che la buttava giù compiva un atto di repressione su se stessa. Portata fuori dalla sua casa di Damasco con la scusa di un breve viaggio, adesso si ritrovava su una barchetta di migranti disperati che probabilmente non sarebbero mai arrivati a destinazione. Non comprendeva la ragione di quell’infernale traversata verso l’Europa, si arrovellava di domande, ma non poteva neppure immaginarlo il vero motivo, sempre che di vero ci fosse qualcosa oltre alla fame e all’asfissia. Ogni minuto che passava il caldo diventava più soffocante, non c’era abbastanza aria per tutti, sentivo il sudore che mi colava dal ventre giù lungo l’inguine fino a strofinarmi sulle gambe. Ma su tutto, ciò che mi dava più fastidio era un odore che non riconoscevo più come mio. Tutti si sforzavano di trattenere le urine, una donna era svenuta e il marito cercava di farle aria controvoglia. Amira si concentrava su quello che le diceva sempre suo padre e cioè che il corpo non ha ragioni: «L’unica cosa che conta è la mente e con i pensieri si può cambiare la realtà, pensa alla vasca da bagno del grande Hammam di Damasco, alla musica delle gocce d’acqua che vi si gettano» ripeteva sottovoce come fosse una preghiera «le menti non sudano». Con il passare delle ore ciascuno cercava di parlare il meno possibile per risparmiare un po’ di forze. Amira quasi sollevata non sentiva più la dolce voce di sua madre cercare di raccontarle storie per rassicurarla. L’ultima volta che l’aveva vista era accanto a lei, aveva uno sguardo disperato e, seduta con la testa fra le mani, fissava il fondo della barca. Subito dopo la prima notte passata tra quei corpi ammucchiati i miei occhi avevano cominciato a dare una forma, un colore e un carattere alle dovute differenze. C’erano maschi che non riuscivano a toglierci gli occhi di dosso, c’erano giovani che si concentravano più sul corpo delle donne mature, in particolare sul mio perché mi comporto sempre come se non conoscessi timidezze, fingendo bene, e questo li rassicurava. Ce ne erano molti, la maggioranza, che avevano le pupille così ferme da sembrare ciechi, stavano morendo di paura. «La barca della morte» ripetevano «siamo sulla barca della morte» come se dirlo cancellasse la possibilità che ci accadesse il peggio. Era un rito, giocavano con le parole e si davano coraggio sostenendo la propria voce con ritmo, cantando una ninna nanna macabra che nessuno aveva voglia di ascoltare ma che rassicurava. C’erano donne che non smettevano di strusciare le gambe una contro l’altra e piagnucolare. E poi ce n’era una che invece non si è era mai mossa di un millimetro in ventiquattro ore di viaggio fino all’attimo in cui sussultò per vomitare un liquido bianco e giallo di odore nauseabondo. Infine, c’era un tizio, particolarmente alto e magro ma con la voce perentoria, che faceva di tutto per attirare l’attenzione parlando a voce alta. Si sentiva un leader e io conoscevo bene quella sensazione di persona insicura che si maschera dietro l’adrenalina. Non smetteva di ripetere che lui era già stato in Europa molte volte e che se avessimo seguito alla lettera quello che diceva tutto sarebbe andato bene: «L’importante è la prudenza» affermava «fidatevi e vedrete che nessuno morirà i primi giorni». Avrei tanto voluto prenderlo a calci per farlo tacere, non sopportavo di vedermi allo specchio sotto spoglie maschili, lo trovavo superbo, orgoglioso e inutile. Nel silenzio che dopo lui mi circondava, oltre a sognare atti rivoluzionari, mi lasciavo andare ad immaginare la faccia di chi, in quel preciso momento, stava guidando la barca. Noi abbiamo fatto tutto tramite il padre di Khan, perché suo figlio maggiore aveva fatto lo stesso viaggio poco più di un anno prima. Adesso si trovava a Parigi e da lì cercava di far entrare anche suo fratello, ma il vecchio non voleva. «Cosa rimane a me, allora?» ci aveva gridato quando andammo a parlargli e Sarah aveva tentato di sostenere che quello era un misero pensiero egoista e ignorante e gli aveva proposto di farlo venire con noi. Lui si era rifiutato però ci aveva dato una mano facendo tutto il possibile per farci acquistare tre cari posti su quella nave da pesca. Chissà gli altri come avevano fatto a trovare i soldi? Li guardavo, i miei sconosciuti compagni di viaggio, avrei voluto fare loro molte domande, ma ormai il silenzio regnava sovrano e un unico nome ricorreva instancabilmente su tutte le bocche, Allah
. Solo lui poteva aiutarci.
Stavamo per arrivare, ormai eravamo quasi alla fine di quella estenuante traversata. Inaspettatamente iniziavo a prendere in considerazione che quelle potevano essere le mie ultime ore di vita, allora, per orgoglio, ho cercato di raccogliere le energie rimaste e mi sono rivolta ai miei compagni di sventura: «Sicuramente saremo accolti con coperte e qualcosa di caldo da bere, non è poi vero che in Europa fa tanto freddo» dissi, fingendo come mio solito.
Quel poco che sapevo era quello che ricordavo del racconto di mia cognata, una delle poche donne ad aver viaggiato sul treno Baghdad- Berlino, poco prima che la ferrovia fosse bombardata. Ah, la mia amatissima cognata, che altri non è che la madre di Amira; erano passate ore da quando era salita sul ponte insieme ad altri adulti senza far ritorno. Mi rivolgevo a mia nipote e le ripetevo di non preoccuparsi che quando la nave si fosse fermata, ormai dovevamo pur essere vicini a gettare l’ancora, l’avrebbe potuta riabbracciare. Amira adesso aspettava, contava i minuti che la separavano dall’approdo in quel porto sconosciuto.
Era la prima volta che mia nipote si trovava per così tanto tempo vicino a questa donna di fama indiscutibile, che poi ero io davanti ai suoi occhi. Aveva sentito parlare spesso di me in tutte le riunioni di famiglia, per lei fino a quel momento mi dovevo essere formata più come un mito che come una persona in carne e ossa. A Damasco ci si incontrava raramente e tutte le volte dopo un breve saluto, io mi rinchiudevo in qualche stanza per parlare in pace con sua madre, l’amica con la quale riesco sempre a lasciarmi andare senza ritegno. Tu non l’hai conosciuta ma Sarah è una donna di una complessità interessante con la quale mi ha sempre fatto piacere parlare e confortarmi. Quella sua aria mite la rende perfetta per tutte le più recondite fantasie che si abbia voglia di svelare. Particolarmente piacevole era ascoltarla parlare dei suoi sogni, come se esistesse veramente la possibilità di concretizzarli. Lei li raccontava con un’ingenuità pura e allo stesso tempo disarmante che non mi annoiava mai. Uno di quei sogni si stava realizzando su quella barchetta, rischio affondamento, e solo adesso mi rendo conto della sua assurdità.
«Amira deve conoscere la verità, Ban, aiutami, vieni con noi questa volta.»
Quando, finalmente, qualcuno gridò terra
, sentii il mio corpo rilassarsi di colpo, senza lasciarmi la