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Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz
Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz
Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz
E-book485 pagine6 ore

Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz

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Info su questo ebook

Vienna, ottobre 1939.
Gustav Kleinmann, un tappezziere ebreo, e il quindicenne Fritz, suo figlio, vengono arrestati dalla Gestapo, caricati su un vagone merci e deportati a Buchenwald, in Germania. Picchiati, ridotti alla fame, costretti ai lavori forzati per costruire il campo stesso in cui sono tenuti prigionieri, riescono miracolosamente a sopravvivere alla brutalità nazista. Finché, tre anni dopo, Gustav non viene inserito nella lista dei prigionieri che saranno mandati ad Auschwitz.
Per Fritz è uno shock senza precedenti. Da tempo circolano voci inquietanti su quel lager e sulle sue speciali camere a gas dove si possono uccidere centinaia di persone alla volta. Il trasferimento laggiù significa una cosa sola...
Eppure l’idea di separarsi dal padre non lo sfiora neppure. I compagni di prigionia gli dicono di dimenticarsi di lui, se vuole vivere, ma Fritz si rifiuta di ascoltarli e insiste per accompagnarlo, pur sapendo che li aspettano altri anni di orrori e sofferenze, se possibile ancor più terribili. Ma a tenerli in vita, ancora una volta, saranno l’amore e un'incrollabile speranza nel futuro.
Basato sul diario di Gustav – un diario segreto di cui nemmeno suo figlio era a conoscenza – e sulle testimonianze dirette di parenti, amici e altri sopravvissuti, Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz non è soltanto la storia commovente di un legame, quello tra padre e figlio, che si è rivelato più forte della macchina dell’odio che ha cercato di schiacciarli. È anche una straordinaria testimonianza di coraggio e di resilienza, e un ritratto lucido e vivido del meglio e del peggio della natura umana.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2020
ISBN9788830509658
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    Anteprima del libro

    Il ragazzo che decise di seguire suo padre ad Auschwitz - Jeremy Dronfield

    gelida.

    PRIMA PARTE

    VIENNA

    Sette anni prima…

    1

    Quando il sangue ebreo gocciola dal coltello…

    אבא

    padre

    Le dita snelle di Gustav Kleinmann spinsero il tessuto sotto il piedino della macchina da cucire, dove l’ago scattò a mitragliare la stoffa, disegnando con il filo una lunga curva perfetta. Accanto al tavolo da lavoro c’era la poltrona da rivestire, uno scheletro di faggio con tendini di nastro rigido e viscere di crine di cavallo. Quando Gustav ebbe finito di cucire il pannello, lo infilò sul bracciolo. Picchiettando con il martelletto, conficcò i chiodi: semplici bullette per l’interno, borchie con teste d’ottone rotonde per il bordo esterno, in formazione compatta come una fila di elmetti militari.

    Era contento di lavorare. Le ordinazioni non erano sempre sufficienti per tirare avanti e la vita poteva essere precaria per un uomo di mezza età con moglie e quattro figli. Gustav era un bravo artigiano, ma non uno scaltro uomo d’affari, anche se in qualche modo se l’era sempre cavata. Nato in un minuscolo villaggio accanto a un lago nel regno storico della Galizia,a una provincia dell’Impero austroungarico, era arrivato a Vienna a quindici anni per fare l’apprendistato da tappezziere e poi si era stabilito in città. Chiamato alle armi nella primavera dell’anno in cui ne aveva compiuti ventuno, aveva combattuto durante la Grande guerra, rimanendo ferito due volte e ricevendo una medaglia al valore, e alla fine del conflitto era tornato a Vienna per riprendere la sua umile attività, impegnandosi così tanto da diventare maestro artigiano. Aveva sposato la sua ragazza, Tini, durante la guerra e insieme avevano allevato quattro figli belli e felici. Era così che procedeva la sua vita: modesta e faticosa. Se non poteva dirsi del tutto soddisfatto, quantomeno era incline a essere ottimista.

    Il ronzio degli aeroplani interruppe le sue riflessioni; aumentava e diminuiva come se i velivoli stessero girando in cerchio sopra la città. Incuriosito, Gustav posò gli attrezzi e uscì in strada.

    L’Im Werd era trafficata, echeggiavano il rombo dei camion e lo sferragliare dei carri trainati da cavalli, e l’aria puzzava di umanità, fumi e letame. Per un attimo, Gustav ebbe la sconcertante impressione che stesse nevicando benché fosse già marzo. Invece era una tormenta di foglietti che fioccavano dal cielo, posandosi sui ciottoli e sulle bancarelle del Karmelitermarkt. Ne raccolse uno.

    POPOLO AUSTRIACO!

    Per la prima volta nella storia del nostro paese, la leadership dello Stato richiede un impegno esplicito verso la patria…¹

    Propaganda per il voto di quella domenica. Tutto il paese ne parlava, e tutto il mondo aspettava con il fiato sospeso. Per ogni uomo, donna e bambino austriaco era un evento importante, ma per Gustav, un ebreo, era della massima rilevanza: un voto nazionale per decidere se l’Austria dovesse restare indipendente dalla tirannia tedesca.

    Da cinque anni la Germania nazista guardava avidamente oltre il confine, verso i territori austriaci. Adolf Hitler, che era nato in Austria, era ossessionato dall’idea di annettere la sua patria al Reich tedesco. Benché i nazisti austriaci volessero l’unificazione, quasi tutta la popolazione era contraria. Il cancelliere Kurt Schuschnigg subiva pressioni affinché concedesse posizioni governative ai membri del Partito nazista, con Hitler che minacciava gravissime conseguenze se si fosse rifiutato di obbedire. Schuschnigg sarebbe stato costretto a dimettersi e sostituito da un fantoccio nazista. L’annessione avrebbe avuto luogo e l’Austria sarebbe stata fagocitata dalla Germania. I 183.000 ebrei del paese tremavano al solo pensiero.²

    Il mondo era impaziente di sapere come sarebbe andata a finire. Con un’ultima mossa disperata, Schuschnigg aveva annunciato un plebiscito – un referendum – con cui gli austriaci avrebbero deciso da soli se conservare l’autonomia oppure no. Era stata un’iniziativa coraggiosa; il suo predecessore era stato assassinato durante un putsch nazista fallito, e in quel momento Hitler era pronto a fare quasi qualunque cosa pur di impedire il referendum. La data era stata fissata per domenica 13 marzo 1938.

    Gli slogan nazionalisti – Sì all’indipendenza! – erano affissi e dipinti su ogni muro e marciapiede. Quel mattino, quando mancavano soltanto due giorni al voto, gli aerei stavano inondando Vienna con la propaganda di Schuschnigg. Gustav tornò a concentrarsi sul volantino.

    … per un’Austria libera e germanica, autonoma e sociale, cristiana e unita! Per la pace, il lavoro e pari diritti per tutti coloro che dimostrano fedeltà al popolo e alla patria.

    … Il mondo vedrà la nostra volontà di vivere; perciò, popolo austriaco, alzati come una sola persona e vota SÌ!³

    Quelle parole toccanti racchiudevano significati contraddittori per gli ebrei, che avevano una concezione tutta loro del germanesimo. Gustav, immensamente orgoglioso di aver combattuto per il suo paese durante la Grande guerra, si considerava prima austriaco e poi ebreo,⁴ ma non rispecchiava l’ideale germanico cristiano di Schuschnigg. Aveva anche qualche riserva sul governo austrofascista del cancelliere. Un tempo era stato un organizzatore del Partito socialdemocratico austriaco. Con l’ascesa degli austrofascisti nel 1934, il raggruppamento era stato represso con la forza e dichiarato fuori legge, insieme a quello nazista.

    In quel momento, tuttavia, per gli ebrei austriaci qualunque cosa sarebbe stata preferibile alle innegabili persecuzioni in atto in Germania. Quel mattino, il giornale ebreo Die Stimme aveva pubblicato un titolo a tutta pagina: Noi stiamo dalla parte dell’Austria! Tutti alle urne!⁵ L’ortodosso Jüdische Presse aveva lanciato lo stesso appello: Non è necessario insistere affinché gli ebrei austriaci vadano a votare in massa. Sanno qual è la posta in gioco. Tutti devono fare il proprio dovere!

    Attraverso canali segreti, Hitler aveva assicurato a Schuschnigg che, se non avesse annullato il plebiscito, la Germania sarebbe entrata in azione per impedirlo. In quel preciso istante, mentre Gustav leggeva il volantino, le truppe tedesche si stavano già riunendo al confine.

    אמא

    madre

    Con un’occhiata allo specchio, Tini Kleinmann si lisciò il cappotto e, prendendo sporta e borsetta, lasciò l’appartamento e scese rapida le scale nel picchiettio cristallino dei piccoli tacchi. Trovò Gustav davanti al laboratorio, situato al pianterreno del palazzo. Teneva in mano un volantino. La via ne era disseminata: sugli alberi, sui tetti, ovunque. Tini guardò il foglietto e rabbrividì. Aveva un brutto presentimento che Gustav, perennemente fiducioso, non riusciva a condividere. Pensava sempre che le cose sarebbero andate per il meglio. L’ottimismo era insieme il suo punto debole e di forza.

    Tini attraversò spedita la strada verso il mercato. Molti venditori erano contadini che arrivavano ogni mattina per offrire i loro prodotti accanto ai colleghi viennesi, parecchi dei quali erano ebrei. Anzi, più di metà delle attività commerciali cittadine era gestita da ebrei, soprattutto in quel quartiere. I nazisti sfruttavano questo fatto per fomentare l’antisemitismo tra gli operai colpiti dalla depressione economica, come se non ne risentissero anche gli ebrei.

    Gustav e Tini non erano particolarmente religiosi. Andavano alla sinagoga forse un paio di volte l’anno per gli anniversari e le commemorazioni e, come quasi tutti gli ebrei viennesi, i loro figli avevano nomi germanici anziché ebraici, ma seguivano le usanze yiddish come tutti gli altri. Da Herr Zeisel, il macellaio, Tini comprò il vitello tagliato sottile per le Wiener Schnitzel. Aveva degli avanzi di pollo per preparare la zuppa della cena di Shabbat,b e alle bancarelle acquistò patate e insalata fresche; poi pane, farina, uova, burro… Proseguì lungo l’affollato Karmelitermarkt, con la sporta che diventava sempre più pesante. Nel punto in cui la piazza del mercato incontrava la Leopoldsgasse, la strada principale, notò le donne delle pulizie disoccupate che cercavano lavoro davanti alla pensione Klabouch e alla caffetteria. Le più fortunate sarebbero state scelte dalle signore facoltose delle vie circostanti. Quelle che portavano con sé un secchio di saponata ricevevano la paga intera di uno scellino.c Ogni tanto Tini e Gustav faticavano a pagare i conti, ma se non altro lei non si era ridotta a quello.

    Gli slogan indipendentisti erano dappertutto, dipinti sui marciapiedi in grandi lettere a stampatello, come segnaletica orizzontale: l’appello a favore del plebiscito – Diciamo sì! – e, ovunque, la croce potenziata austriaca.d Dalle finestre aperte si diffondeva il suono delle radio che trasmettevano allegra musica patriottica a tutto volume. D’un tratto ci furono un’esplosione di acclamazioni e un rombo di motori quando una colonna di camion scese lungo la strada, piena di adolescenti della Gioventù austriaca in uniforme, intenti ad agitare striscioni con i colori nazionali – rosso e bianco – e a distribuire volantini.⁷ Gli spettatori li accolsero agitando i fazzoletti, togliendosi i cappelli e urlando: «Austria! Austria!».

    Tutto faceva credere che l’indipendenza stesse per trionfare… purché si facesse finta di non vedere le facce torve tra la folla. I simpatizzanti nazisti. Quel giorno erano stranamente taciturni… e stranamente pochi, il che era curioso.

    La musica vivace tacque di colpo e, crepitando, le radio diedero un annuncio urgente: tutti i riservisti celibi dovevano presentarsi subito a rapporto. Lo scopo, spiegò l’annunciatore, era assicurare l’ordine per il plebiscito di domenica, ma il suo tono era lugubre. Perché avrebbero dovuto aver bisogno di altre truppe?

    Voltandosi, Tini tornò indietro attraverso il mercato affollato, dirigendosi verso casa. Qualunque cosa succedesse nel mondo, e per quanto il pericolo potesse essere vicino, la vita andava avanti, e cosa si poteva fare se non viverla?

    בן

    figlio

    Dall’altra parte della città, i volantini invadevano i parchi, le strade e il canale del Danubio. Nel tardo pomeriggio, quando Fritz Kleinmann uscì dalla scuola aziendale nella Hütteldorfer Strasse, ai confini occidentali di Vienna, i foglietti tappezzavano la via e pendevano dagli alberi. Dalla strada arrivavano rombanti colonne di camion zeppi di soldati diretti al confine tedesco, duecento chilometri più in là. Fritz e i suoi compagni guardarono emozionati, come farebbe qualunque ragazzo, mentre file di teste coperte dagli elmetti sfrecciavano loro accanto, le armi imbracciate.

    A quattordici anni, Fritz assomigliava già a suo padre: gli stessi zigomi cesellati, lo stesso naso, la stessa bocca dalle labbra piene che si curvavano come ali di gabbiano. Tuttavia, mentre l’espressione di Gustav era dolce, i grandi occhi scuri del ragazzo erano penetranti come quelli di sua madre. Fritz aveva lasciato le superiori e, negli ultimi sei mesi, aveva iniziato l’apprendistato da tappezziere per seguire le orme del padre.

    Incamminandosi verso casa, lui e i suoi amici notarono che nelle vie del centro si respirava un’atmosfera nuova. Alle tre di quel pomeriggio, la campagna governativa a sostegno del plebiscito era stata sospesa a causa della crisi in atto. Non c’erano notizie ufficiali, soltanto dicerie sui combattimenti lungo il confine austrotedesco, sulle sollevazioni naziste nelle cittadine di provincia e, cosa più preoccupante di tutte, sulla concreta possibilità che, se si fosse arrivati a uno scontro, la polizia viennese si sarebbe schierata con i nazisti locali. Bande di uomini entusiasti avevano cominciato a vagare per le strade, alcuni urlando: «Heil Hitler!» e altri rispondendo in tono di sfida: «Heil Schuschnigg!». I nazisti, più chiassosi e più sfrontati, erano prevalentemente giovani privi di esperienza e pieni di ideologia.

    Questi fatti si susseguivano sporadicamente da giorni e c’erano stati episodi di violenza contro gli ebrei,⁹ ma ora la situazione si era aggravata. Quando Fritz raggiunse la Stephansplatz, nel cuore della città, dove i nazisti di Vienna avevano il loro quartier generale segreto, l’area antistante la cattedrale brulicava di persone che gridavano e vociavano; lì si udivano solo gli Heil Hitler!, senza controcanti.¹⁰ Poco lontano, i poliziotti guardavano la scena parlottando tra loro, senza muovere un dito. Tra coloro che osservavano in disparte, preferendo non dare nell’occhio, c’erano i membri segreti della Sturmabteilung austriaca, le SA, il reparto d’assalto del Partito nazista. Disciplinati, avevano istruzioni ben precise; il loro momento non era ancora arrivato.

    Evitando i capannelli di dimostranti, Fritz attraversò il canale del Danubio in direzione di Leopoldstadt, raggiunse il palazzo e, con gli stivali che rimbombavano sulle scale, salì fino al numero 16. Casa, calore, famiglia.

    משפחה

    famiglia

    In cucina, il piccolo Kurt era in piedi su uno sgabello, intento a guardare la madre che preparava le striscioline di pastella per la zuppa di pollo, il tradizionale pasto di Shabbat. Era una delle poche usanze che i Kleinmann rispettavano. Tini non accendeva le candele e non recitava la benedizione, ma Kurt era diverso. Pur avendo solo otto anni, cantava nel coro della sinagoga in centro e stava diventando molto devoto. Aveva fatto amicizia con una famiglia ortodossa che viveva sull’altro lato del pianerottolo e si era assunto il compito di aiutarla con l’accensione dei lumi nelle sere di Shabbat.

    Essendo il più piccolo, era il più viziato. I Kleinmann erano molto uniti, ma Kurt era il cocco di Tini. Amava aiutare la madre a cucinare.

    Mentre la zuppa sobbolliva, il bambino, con le labbra socchiuse, guardò Tini che sbatteva l’uovo fino a ottenere un composto schiumoso e poi lo friggeva in dischi sottili. Era una delle sue ricette preferite. Le migliori in assoluto, però, erano le Wiener Schnitzel. Sua madre batteva delicatamente le fette di vitello sino a renderle fini e morbide come velluto. Le immergeva nel piatto di farina, uovo sbattuto e latte, poi le passava nel pangrattato. Quindi le disponeva a due a due nella padella di olio denso e gorgogliante, e il loro ricco aroma si spandeva nell’appartamentino mentre le cotolette si doravano, gonfiandosi e raggrinzendosi. Quella sera, tuttavia, a prevalere era il profumo di pollo e striscioline di omelette fritte.

    Dalla stanza accanto, che fungeva da camera e da salotto, giungevano le note di un pianoforte. Sua sorella Edith, diciotto anni, sapeva suonare e gli aveva insegnato un simpatico motivetto intitolato Cucù, che gli sarebbe rimasto impresso nella memoria per sempre. Kurt provava un’autentica adorazione per l’altra sorella, Herta; avendo quindici anni aveva un’età più vicina alla sua rispetto a Edith, che ormai era una donna fatta. In cuor suo, l’avrebbe sempre considerata l’incarnazione della bellezza e dell’amore.

    Tini sorrise notando la massima concentrazione con cui la aiutava ad arrotolare e ad affettare il disco di pastella, che poi lei versò nella zuppa.

    La famiglia si sedette a mangiare nella calda luce di Shabbat: Gustav e Tini, Edith e Herta, Fritz e Kurt. L’appartamento era piccolo, solo quella stanza e la camera in cui dormivano tutti – Gustav e Fritz insieme, Kurt con la madre, Edith in un letto tutto suo e Herta sul divano –, ma era casa loro ed erano felici.

    Fuori, un’ombra si stava allungando sul mondo. Quel pomeriggio era arrivato un ultimatum scritto in cui la Germania insisteva per l’annullamento del plebiscito, per le dimissioni del cancelliere Schuschnigg e per la sua sostituzione con il politico di destra Arthur Seyss-Inquart – un membro segreto del Partito nazista – alla guida di un gabinetto compiacente. Hitler si era giustificato dicendo che il governo di Schuschnigg reprimeva i tedeschi dell’Austria; nella sua mente, tedesco era sinonimo di nazista. Infine, l’esiliata Legione austriaca, una forza di trentamila nazisti, sarebbe dovuta tornare a Vienna per mantenere l’ordine nelle strade. Il governo austriaco aveva tempo fino alle 19.30 per obbedire.¹¹

    Dopo cena, Kurt dovette correre alla sinagoga per la funzione serale di Shabbat. Ogni volta che cantava nel coro, gli davano uno scellino – sostituito da una tavoletta di cioccolato il sabato mattina – dunque era un dovere tanto economico quanto religioso.

    Come sempre, Fritz lo accompagnò. Era il fratello maggiore ideale: amico, compagno di giochi e protettore. Quella sera le vie erano affollate, ma il frastuono era diminuito, lasciandosi dietro una sensazione di ostilità latente. Di solito, Fritz portava Kurt fino alla sala da biliardo sull’altra sponda del canale del Danubio – «Sai continuare da solo, vero?» – e poi andava a tirare di stecca con gli amici, ma quella sera era diversa e andarono insieme fino allo Stadttempel.

    Nell’appartamento, la radio era accesa. Il programma fu interrotto da un annuncio. Il plebiscito era stato posposto. Fu come una sinistra pacca sulla spalla. Poi, poco dopo le sette e mezzo, la musica tacque e una voce dichiarò: «Attenzione! Tra qualche istante seguirà un importantissimo aggiornamento». Ci fu una pausa vuota, sibilante, che durò ben tre minuti, quindi Schuschnigg prese la parola. La voce gli tremava per l’emozione: «Uomini e donne austriaci, questa giornata ci ha messi in una situazione tragica e decisiva». Nel paese, chiunque si trovasse vicino a una radio ascoltò attentamente, molti con paura, alcuni con entusiasmo, mentre il cancelliere riassumeva l’ultimatum tedesco. L’Austria avrebbe dovuto eseguire gli ordini della Germania o andare incontro alla distruzione. «Ci siamo arresi alla forza» disse, «perché non siamo disposti a versare sangue germanico nemmeno in queste terribili circostanze. Abbiamo deciso di ordinare alle truppe di non opporre alcuna…» Esitò. «… alcuna resistenza seria.» Con la voce spezzata, si preparò a pronunciare le ultime parole: «Così mi congedo dal popolo austriaco, con un addio tedesco che viene dal profondo del cuore: che Dio protegga l’Austria».¹²

    Gustav, Tini e le loro figlie ammutolirono mentre la radio iniziava a suonare l’inno nazionale. Nello studio radiofonico, dove il popolo non poteva vederlo né sentirlo, Schuschnigg scoppiò in singhiozzi.

    בן

    figlio

    Le frasi soavi e rapite dell’Alleluia, guidate dalla voce tenorile del cantore e sostenute da quelle del coro, riempirono il grande spazio ovale dello Stadttempel, con i suoni armoniosi che si diffondevano tra i pilastri di marmo e gli ornamenti dorati delle balconate sovrapposte. Dalla sua posizione nel coro, sul livello più alto dietro l’arca,e Kurt abbassò lo sguardo sulla bimahf e sulla congregazione. La sinagoga era molto più affollata del consueto, piena come un uovo, perché l’incertezza spingeva le persone a cercare conforto nella fede. Ignaro delle ultime notizie, il dottor Emil Lehmann, uno studioso di religione, aveva pronunciato parole toccanti su Schuschnigg, elogiando il plebiscito e concludendo con lo slogan del cancelliere: Diciamo sì!¹³

    Dopo la funzione, Kurt scese dalla balconata, ritirò il suo scellino e trovò Fritz ad aspettarlo. Fuori, l’angusto vicolo acciottolato era invaso dai fedeli appena usciti. Dall’esterno, quasi nulla indicava la presenza della sinagoga, che si inseriva in una fila di palazzi. Il corpo principale era dietro la facciata, stretto tra quella strada e la successiva. Benché all’epoca il quartiere ebraico fosse Leopoldstadt, quella piccola enclave nel vecchio centro della città, dove gli ebrei vivevano fin dal Medioevo, era il cuore culturale della loro vita a Vienna. La loro presenza aleggiava negli edifici e nei toponimi – Judengasse, Judenplatz – e il loro sangue scorreva sui ciottoli e nelle crepe della storia, nelle persecuzioni e nel pogrom medievale che li avevano indotti a trasferirsi a Leopoldstadt.

    Di giorno, la stretta Seitenstettengasse era perlopiù isolata dal baccano della città, ma ora, nel buio della sera di Shabbat, Vienna si stava animando. Poco lontano, nella Kärtnerstrasse, una lunga strada dalla parte opposta dell’enclave nazista sulla Stephansplatz, si stava radunando una folla. Le camicie brune delle SA, ormai libere di tirare fuori le armi nascoste e di infilarsi intorno al braccio le fasce con la svastica, si erano messe in marcia, affiancate dalla polizia. I loro camion sfilavano lungo le vie; uomini e donne ballavano e urlavano alla luce delle torce fiammeggianti.

    In tutta la città echeggiava a piena gola il grido: «Heil Hitler! Sieg Heil! Abbasso gli ebrei! Abbasso i cattolici! Un popolo, un Reich, un Führer, una vittoria! Abbasso gli ebrei». Le voci aspre dei fanatici intonarono Deutschland über alles, aggiungendo: «Oggi abbiamo tutta la Germania, domani avremo il mondo!».¹⁴ L’inferno ha aperto le porte e sputato fuori i suoi spiriti più vili, più turpi e più orrendi scrive il drammaturgo Carl Zuckmayer. Ciò che lì si è scatenato è stata la rivolta dell’invidia, della malevolenza, del rancore, della vendetta cieca e malvagia.¹⁵ Un giornalista britannico che assistette agli eventi definisce la processione un indescrivibile sabba delle streghe.¹⁶

    L’eco raggiunse la Seitenstettengasse, dove gli ebrei si stavano disperdendo davanti allo Stadttempel. Fritz guidò Kurt lungo la Judengasse e dall’altra parte del ponte. Nel giro di qualche minuto furono di nuovo a Leopoldstadt.

    I nazisti stavano arrivando, insieme a orde di nuovi simpatizzanti opportunisti, invadendo le vie del centro a decine di migliaia, diretti verso il quartiere ebraico. La fiumana si riversò oltre i ponti su Leopoldstadt, inondando la Taborstrasse, la Leopoldsgasse, il Karmelitermarkt e l’Im Werd. Centomila uomini e donne che cantavano e urlavano, pieni di trionfo e di odio. «Sieg Heil! A morte gli ebrei!» I Kleinmann rimasero in casa, ascoltando i dimostranti e aspettando che facessero irruzione dalla porta.

    Ma non accadde. La folla imperversò per ore, tutta furia e frastuono, senza però causare veri danni. Alcuni ebrei sfortunati furono colti di sorpresa sulle strade e riempiti di insulti. Coloro che sembravano ebrei furono picchiati, i sostenitori di Schuschnigg aggrediti, alcune case e negozi invasi e saccheggiati, ma quella notte la tempesta della distruzione non si abbatté su Vienna. Sbalorditi, alcuni si domandarono se la leggendaria pacatezza dei viennesi sarebbe riuscita a frenare anche la violenza dei nazisti.

    Era una vana speranza. La ragione di quella moderatezza era semplice: al comando c’erano le SA, che erano disciplinate, decise a derubare e a distruggere le loro prede metodicamente anziché con una sommossa. Occuparono gli edifici pubblici insieme alla polizia – che ora portava intorno al braccio le fasce con la svastica. Illustri membri del partito al governo furono catturati o costretti a fuggire e Schuschnigg fu arrestato. Ma era soltanto l’inizio.

    L’indomani mattina, le prime colonne di soldati tedeschi avevano ormai attraversato il confine.

    Le potenze europee – Gran Bretagna, Francia, Cecoslovacchia – contestarono l’invasione di un territorio sovrano da parte della Germania, ma Mussolini, il presunto alleato dell’Austria, si rifiutò di prendere in considerazione l’intervento militare. Non avrebbe neppure condannato i tedeschi. La resistenza internazionale si sgretolò prima ancora di formarsi. Il mondo lasciò l’Austria alle canaglie.

    E l’Austria diede loro il benvenuto.

    אבא

    padre

    Gustav fu svegliato dal rumore dei motori. Un ronzio sommesso che gli entrò nel cranio, furtivo come un cattivo odore, crescendo di intensità. Aeroplani. Per un attimo fu come se fosse sulla strada davanti al laboratorio. Era ancora il giorno prima; l’incubo non si era materializzato. Era troppo presto per la colazione. Gli altri – a eccezione di Tini, il cui tenue acciottolio giungeva dalla cucina – erano ancora a letto, ancora sprofondati nei sogni.

    Mentre si alzava e si vestiva, il ronzio diventò più forte. Dalle finestre non si vedeva nulla a parte i tetti e una striscia di cielo, così Gustav si mise le scarpe e scese al pianterreno.

    Nella via e nel Karmelitermarkt non c’era quasi traccia degli orrori di quella notte, solo alcuni volantini con la scritta Vota sì!, calpestati e spazzati negli angoli. I venditori stavano montando le bancarelle e aprendo i negozi. Tutti alzarono gli occhi verso il cielo quando il rombo aumentò, facendo tremare le finestre e soverchiando i suoni delle strade. Non era affatto come il giorno prima. All’orizzonte si profilava una tempesta. Gli aerei diventarono visibili sopra i tetti. Decine di bombardieri in formazione compatta, con caccia che sfrecciavano liberi sopra di loro. Volavano così bassi da permettere di riconoscere i contrassegni tedeschi e di vedere gli sportelli dei vani bombe che si aprivano.¹⁷ La piazza del mercato fu percorsa da un fremito di orrore.

    Dal cielo, tuttavia, non piovvero ordigni esplosivi, bensì un’altra nevicata di foglietti svolazzanti. Il clima politico produceva davvero fenomeni meteorologici. Gustav raccolse un volantino. Il messaggio era più breve e più semplice di quello del giorno precedente. In cima spiccavano l’aquila nazista e una dichiarazione:

    La Germania nazionalsocialista saluta l’Austria nazionalsocialista e il suo nuovo governo.

    Unite da un insolubile legame di fedeltà!

    Heil Hitler!¹⁸

    Il rumore era assordante. Non passarono soltanto i bombardieri, ma anche più di cento aerei da trasporto. Mentre i primi si inclinavano girando in tondo, gli altri si diressero verso sudest. Nessuno lo sapeva ancora, ma a bordo c’erano truppe destinate all’aerodromo di Aspern, appena fuori città, la prima avanguardia tedesca nella capitale austriaca. Gustav mollò il volantino come se fosse avvelenato e rientrò.

    Quel mattino, la colazione fu deprimente. Da quel giorno, uno spettro avrebbe aleggiato su ogni mossa, parola e pensiero di ogni ebreo. Tutti sapevano cosa era accaduto in Germania nell’ultimo quinquennio, ma non immaginavano che in Austria non ci sarebbe stato un inizio graduale. Avrebbero vissuto il terrore di cinque anni in un’unica ondata irrefrenabile.

    La Wehrmacht stava arrivando, le SS e la Gestapo stavano arrivando, e si mormorava che addirittura il Führer in persona avesse raggiunto Linz e presto sarebbe stato a Vienna. I nazisti della città erano folli di entusiasmo e di trionfo. La maggior parte del popolino, che voleva soltanto stabilità e sicurezza, cominciò a seguire l’onda. I negozi ebrei a Leopoldstadt venivano saccheggiati sistematicamente da squadre delle SA, mentre le case degli ebrei più ricchi iniziarono a essere prese d’assalto e rapinate. L’invidia e l’odio contro gli ebrei che lavoravano nel commercio, nell’artigianato e nelle professioni legali e mediche si erano esacerbati durante la depressione economica e stavano per esplodere violentemente.

    Secondo un luogo comune, non era nell’indole dei viennesi condurre la politica attraverso sommosse e scontri di piazza. Il vero viennese, dicevano sgomenti mentre i nazisti riempivano le vie di furia e di rumore, discute delle sue divergenze al tavolino di un caffè e va alle urne come un essere civile.¹⁹ A tempo debito, tuttavia, il vero viennese sarebbe andato come un essere civile incontro al suo destino. Ormai erano i selvaggi a governare il paese.

    Nonostante ciò, Gustav Kleinmann, ottimista di natura, credeva che la sua famiglia sarebbe stata al sicuro. Dopotutto, erano più austriaci che ebrei. Certamente i nazisti avrebbero perseguitato soltanto i praticanti, gli israeliti dichiarati, gli ortodossi… vero?

    בת

    figlia

    Edith Kleinmann camminava a testa alta. Come suo padre, si considerava più austriaca che ebrea. Non si interessava molto alla politica. Aveva diciotto anni, studiava per diventare modista e sognava di disegnare cappelli; nelle ore libere si divertiva, usciva con i ragazzi, ascoltava musica e ballava. Era anzitutto una giovane donna, con le pulsioni e i desideri della gioventù. I ragazzi che frequentava erano raramente ebrei, cosa che metteva a disagio Gustav. Essere austriaci andava benissimo, ma era convinto che si dovesse restare fedeli alle proprie origini. Se questo ragionamento conteneva una contraddizione, lui non la vedeva.

    Era passato qualche giorno dall’arrivo dei tedeschi. Erano entrati in città domenica, quando si sarebbe dovuto tenere il plebiscito. Quasi tutti gli ebrei erano rimasti a casa ma Fritz, sempre temerario, si era avventurato fuori per dare un’occhiata. All’inizio, aveva riferito, alcuni viennesi coraggiosi avevano lanciato sassi alle truppe tedesche, ma ben presto erano stati sopraffatti dalla moltitudine che acclamava Hitler. Quando le forze tedesche al gran completo avevano fatto il loro ingresso trionfale in città, guidate nientemeno che dal Führer, le colonne di veicoli erano parse interminabili: file di limousine luccicanti, motociclette, automobili blindate, migliaia di uniformi grigio scuro, elmetti e stivali pesanti. Le bandiere scarlatte con la svastica erano ovunque, tenute alte dai soldati, appese agli edifici, fissate alle auto. Heinrich Himmler era atterrato in segreto e aveva cominciato a prendere il controllo della polizia.²⁰ I saccheggi ai danni degli ebrei benestanti proseguirono e ogni giorno si segnalavano nuovi suicidi.

    Edith procedeva spedita. All’angolo tra la Schiffamtsgasse e la Leopoldsgasse, dove una folla numerosa si era radunata vicino alla centrale di polizia, era in atto una sorta di tafferuglio.²¹ Udì risate e acclamazioni. Fece per attraversare la strada, ma rallentò notando un volto familiare tra la calca: Vickerl Ecker, un ex compagno di scuola, i cui occhi luminosi ed entusiasti incrociarono i suoi.

    «Laggiù! Eccone una!»²²

    Le facce si girarono verso di lei, sentì più volte la parola ebrea e alcune mani la afferrarono per le braccia, spingendola verso la folla. Edith vide la camicia marrone di Vickerl, la fascia con la svastica intorno al suo braccio. Poi si ritrovò oltre la ressa, al centro di un cerchio di visi beffardi e sogghignanti. Cinque o sei uomini e donne – tutti ebrei, tutti ben vestiti – erano inginocchiati con spugne e secchi, impegnati a strofinare il marciapiede. Una donna, disorientata, stringeva il cappello e i guanti in una mano e una spazzola nell’altra, con il cappotto impeccabile che strisciava sulle pietre bagnate.

    «In ginocchio.» Qualcuno infilò una spazzola tra le dita di Edith e la costrinse a mettersi in ginocchio. Vickerl indicò le croci austriache e gli slogan Diciamo sì! «Cancella quella schifosa propaganda, ebrea.» Gli spettatori esultarono quando Edith cominciò a sfregare. Tra la moltitudine riconobbe alcuni volti: vicini, conoscenti, eleganti uomini d’affari, mogli compite, rozzi operai e operaie, tutti parte del tessuto del suo mondo, trasformati in una marmaglia gongolante. Nonostante i suoi sforzi, la vernice non venne via. «Un lavoro adatto per gli ebrei, eh?» urlò qualcuno, e ci furono altre risate. Un membro delle SA raccolse un secchio e lo rovesciò addosso a un uomo, inzuppandogli il cappotto di cammello. Gli spettatori applaudirono.

    Dopo un’ora circa, le vittime ottennero una ricevuta per il loro lavoro e il permesso di andarsene. Edith tornò a casa con i collant strappati e i vestiti sporchi, faticando a trattenersi, piena di vergogna e di umiliazione.

    Nelle settimane successive, questi Reibpartien – giochi di strofinamento – diventarono all’ordine del giorno nei quartieri ebraici. Gli slogan patriottici si rivelarono indelebili e spesso le SA aggiungevano acido all’acqua per bruciare la pelle delle vittime e riempire loro le mani di vesciche.²³ Per sua fortuna, Edith non fu più presa di mira, ma Herta si ritrovò tra coloro che dovettero ripulire le croci austriache dal pilastro dell’orologio nella piazza del mercato. Altri furono costretti a dipingere slogan antisemiti sui negozi e sulle aziende ebree in rosso e giallo livido.

    La fulminea metamorfosi della garbata Vienna aveva dell’incredibile, come quando il morbido tessuto di un divano comodo si lacera rivelando molle e chiodi aguzzi. Gustav si era sbagliato: i Kleinmann non erano al sicuro. Nessuno lo era.

    משפחה

    famiglia

    Si misero in ghingheri prima di lasciare l’appartamento. Gustav indossava il completo della domenica; Fritz i pantaloni alla zuava della scuola; Edith, Herta e Tini i loro vestiti più belli e il piccolo Kurt una giubba alla marinara. Nello studio fotografico di Hans Gemperle fissarono l’obiettivo come se stessero guardando il loro futuro. Edith fece un sorriso stentato, posando la mano sulla spalla della madre. Kurt aveva un’aria soddisfatta – a otto anni non capiva molto bene cosa potessero implicare i cambiamenti avvenuti nel suo mondo –, Fritz ostentò la disinvoltura noncurante di un adolescente sfrontato e Herta – che, a quasi sedici anni, era già una giovane donna – appariva radiosa. Quando premette l’otturatore, Herr Gemperle – che non era ebreo e la cui attività avrebbe prosperato negli anni seguenti – immortalò il timore di Gustav e lo stoicismo negli occhi scuri di Tini. Ormai avevano capito tutti, persino il fiducioso Gustav, quale strada avesse imboccato il mondo. Era stata l’insistenza di Tini a condurli nell’atelier. Aveva il presentimento che la famiglia non sarebbe rimasta unita ancora per molto e voleva catturare l’immagine dei suoi figli finché era ancora in tempo.

    Il veleno sulle vie iniziò a scorrere dagli uffici governativi e della giustizia. Con le leggi di Norimberga del 1935, gli ebrei austriaci furono privati della cittadinanza. Il 4 aprile Fritz e i suoi compagni ebrei furono espulsi dalla scuola aziendale e il ragazzo perse anche il posto da apprendista. Edith e Herta furono licenziate, e Gustav non poté più lavorare perché il laboratorio fu confiscato e chiuso. Alle persone si raccomandava di non acquistare nulla dagli ebrei; coloro che venivano sorpresi a farlo erano costretti a restare immobili con il cartello SONO ARIANO, MA SONO UN MAIA­LE. HO COMPRATO IN QUESTO NEGOZIO EBREO.²⁴

    Quattro settimane dopo l’Anschluss,g Adolf Hitler tornò a Vienna. Pronunciò un discorso alla stazione ferroviaria Nordwestbahnhof, a poche centinaia di metri dall’Im Werd, davanti a ventimila membri delle SA, delle SS e della Gioventù hitleriana. «Nella vita» tuonò, «ho dimostrato di saper fare più degli inetti che hanno condotto questo paese alla rovina. Tra cent’anni il mio nome rappresenterà quello del grande figlio di questa nazione».²⁵ Il pubblico si abbandonò a un’esplosione di assordanti Sieg Heil! che, ripetuti senza sosta, echeggiarono in tutta Leopoldstadt.

    Vienna era tappezzata di svastiche, i giornali zeppi di fotografie che glorificavano il Führer. L’indomani si tenne il tanto atteso plebiscito sull’indipendenza. Gli ebrei, naturalmente, non poterono votare. Gli scrutini furono controllati e monitorati severamente dalle SS e, come era prevedibile, il risultato fu favorevole all’Anschluss per il 99,7 per cento. L’esito ha superato le mie aspettative, dichiarò Hitler.²⁶ Le campane delle chiese protestanti di tutta la città suonarono per quindici lunghi minuti e il capo della Chiesa evangelica ordinò funzioni di ringraziamento. I cattolici rimasero in silenzio, non sapendo ancora se il Führer volesse riservare loro lo stesso trattamento inflitto agli ebrei.²⁷

    I giornali stranieri furono messi al bando. Le spillette a forma di svastica comparvero ovunque e si guardava con sospetto qualunque uomo o donna non ne portasse una sul bavero.²⁸ Nelle scuole, il saluto Heil Hitler diventò un rito quotidiano dopo le preghiere mattutine. Ci furono roghi rituali di libri e le SS presero il controllo dell’Israelitische Kultusgemeinde, il centro ebraico di affari culturali e religiosi vicino allo Stadttempel, umiliando e tormentando i rabbini e gli altri funzionari che vi lavoravano.²⁹ Da allora in poi, l’IKG sarebbe diventata l’organo governativo deputato a gestire il problema ebreo e avrebbe dovuto versare un indennizzo allo Stato per l’occupazione dei propri locali.³⁰ Il regime confiscò proprietà ebree per un valore complessivo di 2.250.000.000 di Reichsmark, senza contare i cavalli e gli appartamenti.³¹

    Gustav e Tini faticavano a sbarcare il lunario. Gustav aveva alcuni buoni amici ariani che lavoravano nel settore della tappezzeria e gli davano lavoro nei loro laboratori, ma accadeva di rado. Quell’estate, Fritz e sua madre furono assunti dal proprietario della Niederösterreichische Molkerei per consegnare il latte nel distretto confinante la mattina presto, quando i clienti non si sarebbero accorti che i fattorini erano ebrei. Guadagnavano due pfennig per ogni litro distribuito, totalizzando un marco al giorno, una paga da fame. La famiglia viveva dei pasti della mensa ebrea per i poveri in fondo alla strada.

    Non c’era modo di sottrarsi ai tentacoli del nazismo. Gruppi di camicie brune e di membri della Gioventù hitleriana marciavano lungo le vie cantando:

    Quando il sangue ebreo gocciola dal coltello,

    noi cantiamo e ridiamo.

    I versi celebravano l’impiccagione degli ebrei e la fucilazione dei sacerdoti cattolici. Tra quelle persone c’erano alcuni vecchi amici di Fritz, che erano diventati nazisti con sorprendente rapidità. Alcuni erano persino entrati a far parte dell’89ª Standarte, l’unità locale delle SS. Gli uomini delle SS erano ovunque e, orgogliosi e compiaciuti delle loro uniformi ben stirate e del loro potere assoluto, chiedevano i documenti a chiunque passasse. Infettarono ogni cosa. La parola Saujud – maiale ebreo – si sentiva dappertutto. Sulle panchine dei parchi comparvero cartelli che dicevano Riservato agli ariani. Fritz e i pochi amici che gli erano rimasti non potevano più allenarsi nei campi sportivi né usare le piscine. Un duro colpo per il ragazzo, che amava nuotare.

    Con il passare delle settimane, le violenze antisemite diminuirono, ma le sanzioni ufficiali rimasero in vigore e la pressione si accumulò sotto la superficie. Cominciò a circolare un nome spaventoso. Tieni la testa bassa e la bocca chiusa, si dicevano l’un l’altro gli ebrei, altrimenti finisci a Dachau. Le persone iniziarono a scomparire: prima i personaggi illustri – politici e uomini d’affari –, poi

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