Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La ex moglie
La ex moglie
La ex moglie
E-book380 pagine5 ore

La ex moglie

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Perfetto per i lettori di La ragazza del treno e L’amore bugiardo

Natasha è fresca di nozze e la sua vita è praticamente perfetta: ha una casa da sogno, suo marito Nick è molto premuroso e ama alla follia la sua bellissima bimba di nome Emily. C’è solo una cosa che stride nel quadretto armonioso della sua vita: Jen, la ex moglie di suo marito. È una donna invadente e non sembra essersi affatto rassegnata all’idea di essere stata lasciata. Nick con lei è piuttosto accondiscendente, e Natasha finisce sempre per lasciar perdere perché si fida di suo marito e dei suoi sentimenti. Un giorno Natasha torna a casa e scopre che Nick e Emily sono svaniti nel nulla senza lasciare traccia. Persino le loro cose non ci sono più. Perché Nick avrebbe dovuto fare una cosa del genere? Le ore passano e l’angoscia attanaglia la giovane donna che, mettendo da parte tutto l’orgoglio pur di ritrovare la sua bambina, si decide a chiedere aiuto all’ultima persona al mondo da cui vorrebbe un favore: Jen. Nonostante l’abbia sempre considerata invadente e si trovi a disagio a parlare con lei, la disperazione le suggerisce che forse la ex moglie di Nick potrebbe essere l’unica a sapere qualcosa in grado di aiutarla. Ma Natasha può davvero fidarsi delle sue parole?

Un thriller in vetta alle classifiche inglesi

La vita perfetta di Natasha sta per essere sconvolta.
Suo marito e sua figlia scompaiono nel nulla.
L’unica che può aiutarla è Jen, la sua più grande nemica.

«Un’autrice che sa come giocare con la mente del lettore… Mi ha sconvolto!»

«Questo libro è bellissimo, ti tiene incollato alle pagine a forza di colpi di scena, mentre cerchi di risolvere il mistero.»

«La tensione è elettrizzante e la scrittura è magistrale. Da leggere!»

Jess Ryder
ha lavorato per anni come sceneggiatrice e la sua passione è guardare serie TV investigative. Ha pubblicato numerosi libri di successo, molti dei quali per bambini e adolescenti, ma la sua vera passione sono i thriller.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2019
ISBN9788822729309
La ex moglie

Correlato a La ex moglie

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su La ex moglie

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La ex moglie - Jess Ryder

    Prologo

    Al mio capezzale c’è un angelo, i capelli biondi tutt’intorno alla testa come un’aureola di luce. Da destra, mi arriva una musica celestiale – un ritmo di acuti bip. Fa caldo e l’aria ha un profumo insolito. Galleggio in una soffice nuvola bianca di dolore.

    È così bella, il mio angelo. Gli occhi luccicano di gioia. Non so chi sia, ma ha dei lineamenti familiari. Me la ricordo in un altro luogo, lontano nel tempo, forse perfino nel futuro.

    Emily?

    Emily.

    Pronuncio il suo nome, ma non esce alcun suono. Ho la bocca impastata e qualcosa mi ostruisce la gola. Nei miei sogni era un serpente che mi si infilava nello stomaco. Invece è solo un tubo.

    Il mio angelo ha una mano in grembo, la mia, suppongo. Sembra una cosa morta e molle, come se non mi appartenesse. La stringe con dolcezza, poi mi guarda, aspettandosi che ricambi la stretta. Se potessi lo farei, mia adorata. Ti racconterei tutto solo stringendola, se potessi.

    «Sei di nuovo tra noi», dice Emily. Ma non può essere Emily, a meno che non abbia dormito così a lungo da darle il tempo di diventare una donna.

    La luce eccessiva mi annebbia la vista. Sbatto le palpebre più volte e lei si china su di me, il viso si scioglie in lacrime. Due cerchi acquosi e la linea rosa del sorriso è tutto ciò che intravedo. Sento che è parte di me, sangue del mio sangue.

    Toglietemi il tubo, vi prego, vi prego, toglietemi il tubo. Ma le mie parole non hanno voce.

    Mi accarezza la fronte con la mano libera, scostando qualche ciocca. Da quanto tempo è seduta qui, a sprecare la sua preziosa vita aspettando e sperando che un giorno mi risvegliassi? Mi sono effettivamente risvegliato o è solo un altro sogno?

    Il mio angelo china il capo verso di me. Percepisco il suo dolce respiro sul collo mentre mi sussurra all’orecchio: «Che cosa ti hanno fatto?».

    Prima parte

    Capitolo uno

    Adesso

    Anna

    Di solito torno a casa per la strada più pittoresca, attraversando il fiume sul ponte di ferro e costeggiando quello che chiamano Rec, una distesa di terra suddivisa in campi sportivi. Questo fine settimana, però, c’è un festival di musica e il mio tragitto abituale è interrotto da recinzioni provvisorie e nastri di plastica, come quelli che si vedono sulle scene del crimine. Mi fermo all’altezza dello sbarramento e osservo i ragazzi in fila per il braccialetto di accesso. C’è anche una coppia hippy – tatuaggi colorati e capelli rasta – con una bambina su un passeggino zeppo di attrezzatura da campeggio.

    È ora di andare a casa – anche se non la sento ancora casa. È ora di rientrare, comunque.

    Non c’è modo di passare di qui, quindi ritorno sui miei passi e riattraverso il ponte per prendere la strada. Quando ci arrivo, però, è chiusa al transito, tranne che per gli spettatori del concerto. Uno steward con un gilet fosforescente mi dice di passare dal retro. Il retro di cosa, poi, non lo so.

    A differenza della maggior parte degli abitanti di questa cittadina, non sono nata qui. Ci vivo solo da un paio di mesi e i miei movimenti sono limitati al percorso di andata e ritorno dal lavoro e al tragitto in autobus verso il grande supermercato accanto al circolo di rugby. Margaret, dell’ufficio finanziario, mi ha promesso di portarmi a vedere una partita quando ricomincia la stagione. Peccato che non possa soffrire il rugby, nessun tipo di sport in effetti, ma Margaret mi ha preso sotto la sua ala e sarà difficile declinare. Devo cominciare a farmi dei nuovi amici, preferibilmente più vicini a me come età, ma non sono ancora pronta.

    A quanto pare passare dal retro significa attraverso il complesso industriale – un labirinto di capannoni perlopiù sfitti, con grate alle finestre ed erbacce a infestare le facciate di cemento. Le squallide strade sono fiancheggiate da recinzioni metalliche e dai cancelli pendono lucchetti arrugginiti. Oltrepasso telecamere di sicurezza, segnali di ATTENTI AL CANE e targhette d’ottone che assicurano un controllo H24. Tutte balle. I capannoni sono abbandonati e non c’è più niente da rubare.

    Quasi lo avessi chiamato, un uomo, a passeggio con un cane dall’aspetto aggressivo, svolta l’angolo e mi viene incontro. Guarda dritto davanti a sé, ma il cane tira il guinzaglio per darmi una bella annusata quando ci passiamo accanto. Giro l’angolo e quasi inciampo in un gruppo di ragazzini seduti contro il muro con le gambe distese in davanti. In due o tre girano in tondo sulle proprie biciclettine, spavaldi, con le mani lungo i fianchi e casacche da calcio sul corpo snello. Mi seguono per qualche centinaio di metri, poi tornano dagli altri.

    Non sarei dovuta passare di qua. Non l’ha fatto nessun altro. La gente del posto chiaramente conosce bene il complesso industriale e se ne tiene alla larga.

    Il pulsare sordo di un basso si diffonde nell’aria che sa di birrificio – il primo gruppo ha iniziato a suonare, da quanto sento. Cammino a tempo, 1-2-3-4, 1-2-3-4, e mi lascio avvolgere dal ritmo. Non è il genere di musica che amo ballare – troppo dura e insistente – ma mi fa sentire meno sola. Mi conforta.

    Dove mi trovo esattamente rispetto a casa mia? Tiro fuori il telefono e cerco di orientarmi sulla mappa. Sono una freccetta solitaria tra quadrati grigi e strade senza nome; l’unico elemento riconoscibile è la linea blu del fiume. Mmm… La prossima a sinistra, poi segui la curva della strada…

    L’odore dei birrifici si fa più intenso, anche se si trovano perlopiù a nord e io sto avanzando in direzione sud. Dipende da come soffia il vento, o almeno così dicono. A volte lo sento sui capelli, sui vestiti, nei recessi delle narici. «Non si preoccupi, ci si abituerà presto», mi ha detto il mio responsabile quando l’ho fatto notare durante il colloquio. È così che ho capito di essere stata assunta.

    Non è male come cittadina. Sarei potuta approdare in posti molto peggiori. C’è un piccolo centro commerciale con le solite catene di negozi, un cinema, un museo della birra e un laboratorio artistico ricavato da un impianto di imbottigliamento in disuso. Ho preso un volantino l’altro giorno e ho visto che organizzano dei corsi – ceramica, creazione di gioielli, disegno dal vivo, thai chi, Zumba. Le solite cose, ma a prezzi molto più bassi di quelli cui sono abituata. Dovrò provare qualcosa prima o poi. Non posso restarmene a casa tutte le sere da sola, altrimenti divento matta.

    Mi correggo. Sono già diventata matta. È la mia nuova normalità. Si suppone che debba imparare ad amarmi di nuovo, ma mi sembra impossibile.

    Man mano che la strada curva, appare un capannone rosso, bianco e blu e una porta di metallo con un cartello malandato: MORTON MECHANICS – REVISIONI IMMEDIATE. Ferma lì fuori c’è una BMW nera con i vetri oscurati e, dallo sportello del passeggero, spuntano due gambe nude sul sedile. Caviglie bianche e depilate. Una donna. Dai piedi sporchi pendono delle infradito gialle. È stesa di pancia e sembra avere la testa in grembo al guidatore.

    Dalle casse dell’autoradio ruggisce una porcheria aggressiva che soffoca il rassicurante ritmo del concerto, reclamando tutto lo spazio aereo disponibile. Un’altra ragazza, in pantaloni mimetici sformati e parka, è seduta a terra, di schiena contro la porta del garage. Vestita invernale nonostante sia giugno inoltrato, tracanna una lattina di Special Brew mentre rolla una canna. Poco più in là, rivolti verso il muro, ci sono due uomini, il capo chino su qualcosa. Uno è alto, magro come lo sono gli eroinomani, e indossa una tuta da jogging larga e una felpa abbondante. L’altro è più basso e sembra messo meglio – capelli troppo cresciuti, jeans sdruciti calati sui fianchi e una giacca macchiata di fango e vernice. Metto a fuoco l’intera scena. Allora è qui che porti quelle che rimorchi, nella simpatica cittadina commerciale di Morton on Trent.

    Non ti fermare. Non guardare. Vattene ma senza correre. Sguardo fisso in avanti e passo normale.

    Mentre mi avvicino al garage, la ragazza seduta a terra abbaia qualcosa e i due si girano. Subito i loro occhi vengono attirati dal mio cellulare come mosche dalla marmellata. Ce l’ho ancora in mano come una stupida, cercando di seguire la mappa – ormai è troppo tardi per metterlo via. Quello più basso si ritira nell’ombra, di nuovo verso il muro, ma l’altro si fa avanti.

    «Oh!», grida. «Dico a te! Che cerchi?». Mi si para davanti, bloccandomi la strada. Fa un cenno con la testa rasata e le mani sui fianchi ossuti.

    «Ti sei persa, ve’?», ghigna la ragazza in parka alzandosi in piedi barcollando.

    Ho la bocca asciutta, mi tremano le ginocchia. Mi sposto a destra, ma lui si sposta con me, vado a sinistra e fa altrettanto. Non posso attraversare la strada perché c’è la BMW parcheggiata; girarmi e scappare sarebbe inutile. Ho i tacchi da ufficio e, pur essendo un tossico, quest’uomo non avrebbe difficoltà ad acchiapparmi. Poi c’è la tizia ubriaca e quell’altro rintanato nell’ombra, per non parlare della proprietaria delle infradito sdraiata nella macchina e chiunque altro ci sia lì dentro. Non ho scampo.

    Il tizio allunga la mano davanti a sé. «Dai, facciamola facile».

    So che dovrei consegnargli tutto e via. Il telefono, la borsa, il portafoglio con le carte di credito e cinquanta dollari in contanti e, soprattutto, quella preziosissima foto che non potrò mai sostituire. Una voce dentro di me mi implora: Non protestare, non opporre resistenza, dagli tutto e basta. Ma non posso. Non ce la faccio proprio.

    «Non ne vale la pena, cazzo», urla quell’altro nell’ombra. «Ti ha visto in faccia, coglione».

    Annaspo e indietreggio come se qualcuno mi avesse dato uno spintone.

    Quella voce.

    La riconoscerei ovunque.

    Ma non può essere lui. Impossibile. È il cervello che mi gioca brutti scherzi. Lo stress del momento che riporta indietro tutto, mischia passato e presente. È una coincidenza, tutto qui. Non può assolutamente essere lui.

    «C’è il festival, no?», grida di nuovo quella voce. «Tutti quei cazzo di maiali in giro, bello».

    Dovrei essere terrorizzata, ma i miei sensi sono distratti. È la stessa voce roca. La stessa intonazione. Lo stesso ritmo lento. Scruto nell’ombra, ma vedo solo la sua nuca. No, ha i capelli troppo lunghi e non li terrebbe mai così sporchi. E i vestiti sono disgustosi. Non può essere lui. Non può essere caduto tanto in basso.

    Mi succhio le guance cercando di recuperare più saliva possibile per riuscire a parlare. «Non voglio problemi. Fatemi solo passare e vi giuro che non andrò alla polizia».

    Quella voce familiare si intromette di nuovo.

    «Falla passare, dai».

    Il tizio rasato si fa da parte bofonchiando. «E vattene, allora. Vaffanculo».

    Lo supero a testa alta. Tremo visibilmente, ma mantengo l’equilibrio e non accelero, nonostante il disperato istinto di togliermi le scarpe e mettermi a correre.

    Nessuno mi segue. Quando sono abbastanza lontana dal garage, la musica dell’autoradio sfuma e il ritmo del concerto riprende il sopravvento. Bum, bum, 1-2-3-4, 1-2-3-4. Dopo un altro centinaio di metri, finalmente giro l’angolo.

    Il modo reale torna a fuoco ripristinando la normalità. Emergo dal complesso industriale e attraverso al semaforo. Alla mia sinistra riconosco la rotatoria con al centro una sgargiante esposizione floreale per la fiera Morton in Bloom. Grazie al cielo sono solo a quattrocento metri da casa.

    Svolto su Ashby Lane, risalgo la collina, supero la piccola sfilata di negozietti e imbocco la terza a destra.

    Proprio al centro delle casette a schiera, c’è il mio appartamento al piano terra. È triste e sproporzionato: due stanze anguste e un bagno minuscolo. Il piano superiore non mi pare abitato – perlomeno non ho mai incontrato nessuno né ho sentito rumori. Ogni giorno arriva la posta indirizzata a dozzine di persone diverse e la ammucchio sul gradino più basso.

    Quando mi sono trasferita qui circa due mesi fa, la porta d’ingresso aveva una semplice serratura Yale. Ho aggiunto un lucchetto e due chiavistelli interni. Li inserisco sempre e tiro le tende sia sul fronte che sul retro. Ho lo stomaco troppo in subbuglio per mangiare qualcosa, quindi mi faccio una tazza di tè alla menta e me la porto a letto.

    C’è mancato un pelo. Se non si fosse messo in mezzo quell’altro, chissà come sarebbe andata a finire. Prendo la foto dal portafoglio e la bacio. La infilo sotto il cuscino. Non la porterò mai più al lavoro, niente più sguardi furtivi in bagno durante la pausa pranzo. Può starsene qui da ora in poi, al sicuro.

    Continuo ad avere in testa la voce del mio salvatore. La sovrappongo mentalmente a quella che ricordo. Coincidono davvero o me lo sto immaginando? Ci penso: era più magro ed era un drogato, di quelli che vivono per strada. Se solo fossi riuscita a vederlo bene in faccia avrai placato le mie ansie.

    È stato gentile a prescindere o perché mi ha riconosciuto? Forse sapeva già che sono qui ed è venuto a cercarmi. Accantono con forza il pensiero. Sii reale. Non ha senso. Nessuno sa dove sono. Mi trovo a più di trecento chilometri da dove è accaduto tutto. E poi, se fosse stato lui e mi avesse riconosciuto, avrebbe aizzato il compare, non certo cercato di salvarmi la pelle.

    Quindi non era lui, okay? Sbatto la tazza sul comodino e prendo il romanzo della sera, le dita esitano per un attimo sull’angolo piegato della pagina.

    E se invece fosse lui?

    Capitolo due

    Prima

    Natasha

    Mi accorgevo sempre se era lei al telefono, anche quando non sentivo la suoneria dedicata alle sue chiamate. Lo capivo dal modo in cui Nick appoggiava il telefono alla guancia per far sì che non sentissi la voce. E perché non interagiva mai, neanche con un Okay o un Mm-mm. Non che lei se ne sia mai accorta. Nick avrebbe potuto infilare il telefono sotto al cuscino, finire di cenare, lavarsi o farsi un caffè e lei non se ne sarebbe neanche resa conto. Parlava ininterrottamente, senza mai riprendere fiato. Interrompeva sempre le nostre serate. Il perché lo capivo e, in tutta sincerità, non gliene facevo una colpa. Al posto suo avrei fatto lo stesso. Ma per una volta, solo una, mi sarebbe piaciuto sentirgli dire «Non posso parlare ora, sono a cena», oppure «Sto guardando un film» o anche solo «Mi dispiace davvero, Jen, ma sono con mia moglie stasera».

    Riportai in cucina il piatto praticamente pieno, lo infilai nel forno ancora tiepido e richiusi. Rimasi per un attimo ad ascoltare il silenzio dalla sala da pranzo, chiedendomi cosa volesse stavolta. Aiuto per qualche urgenza domestica o aveva solo bisogno di sentire la sua voce? Era venerdì sera e chiaramente stava da sola, probabilmente anche già a metà di una bottiglia di gin. Era una situazione che andava avanti non so neanche più da quanto e non accennava a migliorare. Per quanto riguardava Jen, il tempo non era la medicina efficace che si diceva.

    Dato che la conversazione proseguiva, me ne andai in punta di piedi al piano di sopra dove mi affacciai cauta nella stanza di Emily. Si era già addormentata, il visetto screziato dai fiocchi di neve proiettati dalla giostrina luminosa. I capelli biondo fragola attaccati alle guance sudate, la Giraffa Gemma stretta tra le braccia come sempre. Mi chinai a baciarle la fronte, respirando il profumo di shampoo per bambini mai-più-nodi. Era la mia prima e unica, il mio tesoro più prezioso. Inimmaginabile la vita senza di lei. Quando ripensavo alle amiche che mi avevano voltato le spalle, al litigio con mia madre, alla disapprovazione della famiglia di Nick, alla storia infinita con Jen – quando insomma, diciamocelo, cominciavo ad avere rimpianti – tornavo sempre a Emily. Qualunque fosse stato il prezzo, mi dicevo, per Emily sarebbe sempre valsa la pena pagarlo.

    Dopo un piccolo gemito, tornò ai suoi sogni. «Ti amo», le sussurrai, prima di sgattaiolare fuori e richiudere la porta.

    Con mia grande sorpresa, la telefonata era già finita e Nick stava cercando di togliere il piatto dal forno senza guanti. Lo gettò sul piano di marmo imprecando e leccandosi le dita bruciate.

    «Scusa, pensavo durasse di più», dissi. Il record era di cinquantatré minuti; avevo cercato di non cronometrare le loro chiamate, ma era più forte di me. «Tutto bene?»

    «Sì, sì. Le stava venendo un’emicrania, poveretta, quindi ha dovuto chiudere».

    Tornammo a sedere in sala da pranzo, ma l’atmosfera romantica era ormai evaporata. Aleggiava una certa freddezza e il lume di candela era quasi ironico sui nostri visi tirati. Nick appariva stanco e l’alcol cominciava a darmi alla testa.

    Non chiedergli della telefonata, mi imposi. Nick era appena rientrato da una trasferta di lavoro e doveva essere una serata di bentornato. Mi ero impegnata un bel po’ per farmi carina per lui. Lenzuola pulite, luci soffuse e aromi esotici in camera da letto. Avevo adattato le spalline del reggiseno della lingerie di pizzo che mi aveva regalato a Natale. Era tutto pensato per una serata speciale. Non fartela rovinare da lei, mi dissi mentalmente, ma sapevo che il danno ormai era fatto. Percepivo il suo fantasma a tavola, che si tamponava gli occhi con un fazzoletto.

    Nick era concentrato sulla cena, ma io fissavo il mio piatto ricordando con quanto amore avessi sbucciato lo scalogno e fritto la pancetta nel burro, a come avessi sprecato una bottiglia di buon rosso su quel manzo vergognosamente costoso. Non ero una grande cuoca, ma facevo del mio meglio. I genitori di Nick non facevano che decantare la straordinaria abilità di Jen ai fornelli, come creasse piatti gourmet al semplice tocco di un cucchiaio di legno – pura verità, senza dubbio, ma lo dicevano apposta per ferirmi.

    «Delizioso, tesoro», disse Nick riempiendo di nuovo i bicchieri. «Ti sei davvero superata stasera, ma ho mangiato ottimi piatti in questi giorni, mi bastava anche un uovo al tegamino». Tanto lavoro per poi sentirmi dire così, pensai, ma non dissi nulla. I resti della nostra serata erano ormai appesi a un filo. Una parola sbagliata e si sarebbero frantumati a terra.

    «Indovina? Hayley farà battezzare Ethan», disse diversi bocconi dopo.

    «E perché? Non è religiosa. Gli altri non li ha battezzati, no?». Ethan era stata una sorpresa tardiva, risultato di una vasectomia sbagliata. A quarantatré anni, Hayley era considerata una madre geriatrica e avevano navigato a vista per l’intera gravidanza. Forse, pensai, voleva ringraziare Dio che fosse andato tutto bene. O più probabilmente voleva assicurargli un posto alla scuola privata di zona. Non andavo granché d’accordo con la sorella minore di Nick – nulla di sorprendente, dato che era la migliore amica di Jen.

    «Ci vuole come padrini», proseguì intingendo un pezzo di pane nella squisita salsa che avevo preparato.

    «Che cosa?». Risi e posai la forchetta. «Pensavo di essere una stronza destinata all’inferno».

    Nick abbassò gli occhi, arrossendo. «No, scusami, intendeva me e Jen». Fredda coltellata allo stomaco. «Jen non sta più nella pelle. Sai quanto ami i bambini. Sarà una madrina fantastica».

    «Scusa tanto, ma non va», dissi con voce rotta. «È inopportuno, Hayley dovrebbe saperlo». Tacqui, in attesa di una riposta, ma ci fu solo silenzio. «Cosa le hai detto quando te l’ha chiesto?»

    «Hayley? Non me l’ha chiesto ancora. Me l’ha detto Jen al telefono. Ha paura che possa metterti a disagio, ma spera che tu capisca».

    «Be’, no». Mi alzai sbattendo il tovagliolo sul tavolo. «Non è corretto, Nick. Hayley non può snobbarmi in questo modo. Sono tua moglie».

    «Lei e Jen sono amiche dai tempi della scuola. Non ha niente a che vedere con… insomma… il divorzio».

    «Tua sorella mi odia, e così i tuoi genitori».

    «No, sei ingiusta. Sono rimasti scioccati quando ho lasciato Jen, ma l’hanno accettato ormai. Lo vedono quanto sono felice con te e amano Emily alla follia». Si alzò cercando di abbracciarmi. «Parlerò con Hayley. Sono sicuro che Ethan potrà avere due madrine».

    «Io non voglio fare la madrina di battesimo», ribattei divincolandomi dall’abbraccio. «Non sono credente e neanche tu».

    Nick alzò le mani. «Ma non voglio ferire Hayley».

    «Certo, sono solo io che non ti preoccupi di ferire».

    «Tesoro, non è così e lo sai».

    Mi fermai, cercando di ricompormi. L’ultima cosa che volevo era litigare, ma era così difficile non cedere alle provocazioni. Immaginavo la sorella di Nick a casa, a tamburellare con le dita su un bicchiere di vino con una risata trionfante. Quanto amava mettere zizzania tra noi.

    «Mi rendo conto di quanto sia terribile per Jen», ripresi dopo un attimo. «Ma si deve rassegnare. Andare avanti, trovarsi un altro. So che suona crudele, ma…».

    «No, hai ragione», sospirò. «Vorrei davvero che fosse così semplice. Jen fa parte della mia famiglia da anni. Non possiamo buttarla fuori così, sarebbe crudele. E poi, tutti la amano».

    «E tu? Tu la ami?». Trattenni il fiato per paura della possibile risposta.

    «Ma no, certo», si affrettò a rispondere. «Non dovresti neanche chiedermelo. Jen e io ci conosciamo da tanto, ma non l’ho mai amata davvero, non come amo te». Le sue parole mi arrivarono dritte al cuore e lì le tenni, accarezzandole per qualche istante.

    «E non pensi che sia ora di dirle la verità?», aggiunsi. «Per il suo bene?»

    «No. La verità è sopravvalutata», ribatté senza esitazione.

    Lo fissai incredula. «Non puoi dire così! La verità è tutto!».

    «Invece no. La gente la distorce in continuazione». Si fermò davanti al caminetto dall’altra parte della stanza, momentaneamente distratto dalla foto di noi tre scattata poche ore dopo la nascita di Emily. «La prossima settimana dovrei dire la verità in tribunale», disse. «La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità… ma, se lo faccio, mi toglieranno la patente. E non me lo merito. Non ho una guida pericolosa». Il mese prima, Nick era stato beccato a passare con il rosso e, all’etilometro, era risultato ben oltre il limite consentito. Il suo avvocato si era inventato che Emily era ammalata e che Nick si stava precipitando da lei. La verità era che doveva intrattenere un investitore cinese.

    Corrugai le labbra. «Sto parlando di sincerità nei sentimenti. È indubbiamente sbagliato mentire su cosa si prova».

    «Non sempre. A volte è una questione di delicatezza». Tornò al tavolo e riprese il bicchiere. «Voglio rinsaldare i rapporti con mia sorella, quindi sarò il padrino di Ethan. E se lei vuole che la madrina sia Jen, sta a lei decidere…». Bevve il vino. «So che ti crea disagio, ma non posso farci niente. Se non vuoi venire al battesimo, ci andrò da solo con Emily. Sono certo che tutti capiranno».

    Scossi il capo. Era esattamente quello che la sua famiglia voleva, ma non gli avrei mai dato una simile soddisfazione. Dovevo farmi rispettare.

    «Non essere sciocco», dissi. Sarebbe stata una tortura, un’umiliazione, ma ce l’avrei fatta. «Non parliamone più, adesso. Dolce? Ho fatto la mousse al cioccolato».

    «Dopo, magari, ora ho cose più dolci in mente». Mi si avvicinò e stavolta mi lasciai baciare. Ci gettammo uno nelle braccia dell’altra e, al suo tocco, il battito del cuore accelerò.

    Poi partì di nuovo la suoneria di Jen.

    Capitolo tre

    Prima

    Natasha

    «Idioti! Che manica di teste di cazzo!». Nick si precipitò fuori spingendo la doppia porta con tale violenza che quasi mi rimbalzò in faccia. Lo seguii per le scale del tribunale, con il suo avvocato pochi passi dietro. Johnny doveva aspettarsi una bella strigliata per non aver presentato sufficienti attenuanti. La giudice non si era bevuta neanche per un attimo la lacrimevole storia di Emily con la febbre alta per tutta la notte e, dentro di me, non potevo darle torto. Non c’erano certificati medici che lo comprovassero, né ingressi registrati al pronto soccorso. Inoltre, per Nick era già la seconda multa per eccesso di velocità.

    A disagio sul marciapiede, nessuno di noi sapeva bene cosa fare. Eterno ottimista, Nick aveva insistito per arrivare in tribunale in macchina, nonostante Johnny lo avesse avvertito della possibilità della sospensione della patente. Ora la Range Rover se ne stava lì con il parchimetro in scadenza.

    «Grazie tante, amico», esclamò Nick sarcastico. «Bel lavoro».

    «Te l’avevo detto che ti serviva un civilista e non un avvocato dei media». Johnny guardò l’orologio, come se avesse un altro appuntamento.

    «Tre anni! Non posso guidare per tre anni!», si disperò Nick passandosi la mano tra i capelli.

    «Imparerò io», dissi cercando di rendermi utile.

    «Non serviresti a niente, non hai la minima conoscenza delle strade», replicò con un verso di scherno. Avrei voluto protestare, ma non mi azzardai. «E comunque non passerai l’esame nei prossimi cinque minuti, giusto?». Tirò fuori il telefono digitando impaziente sullo schermo fin quando si riaccese, poi urlò alla segreteria sovrastando il rumore del traffico. «Lola, puoi mandare qualcuno a prendere l’auto? Sì… Mi hanno sospeso la patente… Bastardi». Johnny colse l’occasione per un saluto frettoloso con la mano e per infilarsi nella metropolitana. «Tre anni, cazzo… Già, tre! Lo so… Rob, Charlie, chiunque sia libero… Andiamo a cercare un bar. Digli di mandarmi un messaggio quando arrivano. Il prima possibile, sta scadendo il parcheggio, okay?».

    C’era un localino italiano dietro l’angolo e Nick mi piantò lì come un bagaglio mentre lui se ne stava all’esterno a fare telefonate di lavoro che, disse, non poteva rimandare. Sorbii il mio latte bianco e guardai nervosa l’orologio. Mancava un’ora all’uscita del nido di Emily. Se non fosse arrivato subito qualcuno, avrei dovuto prendere un taxi.

    Ne avevo abbastanza di quel suo insistere che sarei stata pessima al volante. Quella che era iniziata come una battuta si era ormai trasformata in una verità inconfutabile. Risaliva a quando ci eravamo conosciuti, un incontro da commedia romantica.

    Erano circa le otto e mezza del mattino e stavo andando al lavoro in bicicletta. Il traffico era bloccato fino in centro, quindi, anche se il semaforo all’incrocio era verde, non ci si poteva muovere. Le automobili erano sensatamente in attesa dietro la linea gialla per permettere ai veicoli che arrivavano in senso opposto di girare a destra. Ma io ero sulla corsia degli autobus, scendevo dalla collina in velocità sotto il sole superando compiaciuta le automobili in coda. Okay, ero a fianco di un camion, quindi non potevo vedere cosa succedeva nelle altre corsie. Stavo rischiando. Oggi me ne rendo conto ma, all’epoca, puntavo solo al semaforo verde. Non vidi la Range Rover fin quando non ebbe già quasi svoltato. Attraversò l’asfalto rosso della corsia preferenziale, urtando la mia bici con il paraurti anteriore e scaraventandomi al di là del manubrio. Ricordo di aver volato e di essermi sentita, per mezzo secondo, aggraziata e senza peso e poi di essermi schiantata a terra, per fortuna non di testa. Ricordo che alzai lo sguardo e i nostri occhi si incontrarono.

    Era accanto a me, bianco in volto e a bocca aperta, annaspava come se fosse appena riemerso dalle profondità marine. Gli urlai qualche parolaccia e rifiutai la mano che mi porse per aiutarmi a rialzarmi. Proseguii con una filippica contro le 4x4 e quel cazzo di codice della strada, ma non protestò minimamente, limitandosi ad annuire e scusarsi decine di volte.

    Perfino in quel momento, nel bel mezzo della mia sfuriata, qualcosa nella mia testa notò che non era affatto male. Abito grigio scuro, camicia bianca (niente cravatta) e scarpe nere lucide. Carino, anche d’aspetto. Brizzolato, barba e capelli ben curati. Sulla quarantina, giudicai. Brillante e ovviamente ricco. Io ero una venticinquenne vestita alla bell’e meglio e completamente al verde.

    «Fammi togliere di mezzo la macchina», disse rimettendosi alla guida e svoltando sulla via laterale. La mia bicicletta aveva una ruota storta e il cavo di

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1