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Kabbalah noir a Milano: Il vicequestore Tombamasselli e un'indagine nera
Kabbalah noir a Milano: Il vicequestore Tombamasselli e un'indagine nera
Kabbalah noir a Milano: Il vicequestore Tombamasselli e un'indagine nera
E-book209 pagine2 ore

Kabbalah noir a Milano: Il vicequestore Tombamasselli e un'indagine nera

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Info su questo ebook

Enrico “Erri” Tombamasselli è un vicequestore aggiunto, il dirigente del commissariato Greco-Turro di Milano. Solo chi è in stretta confidenza con lui lo chiama affettuosamente “Tomba”. Ha 50 anni, vedovo da cinque, ateo e affetto fin da bambino da un fastidioso disturbo neurologico che lo costringe spesso a leggere i nomi al contrario. La perdita della moglie è un dolore che non lo abbandona e gli condiziona la vita sociale. Al di fuori del lavoro non ha niente, né amicizie né conoscenze da coltivare. Non ama guardare la televisione; il suo unico passatempo è ascoltare la musica degli Eagles, una passione che condivideva con sua moglie. Pertanto, il lavoro è rimasta la sua unica ragione di vita e in quello è davvero in gamba. Durante l’ispezione finale prima della chiusura serale del museo HangarBicocca, una guardia giurata nota delle impronte sulla sabbia che circonda uno dei Sette Palazzi Celesti di Kiefer. Controlla e scopre all’interno della torre denominata Sefiroth il cadavere di una donna pugnalata al cuore. Si tratta della titolare di una rispettabile agenzia di modelle. In piena notte, Tombamasselli viene invitato dal questore a recarsi sul luogo del delitto; essendo il museo di proprietà della Fondazione Pirelli, buona parte della Milano che conta è già in fibrillazione. Non fa in tempo a mettere assieme i primi riscontri che, a pochi passi dal suo commissariato, viene trovato in una villetta il cadavere di un rinomato oncologo. È identica l’arma usata per i due omicidi, identiche le impronte digitali sul manico, ma il medico è stato pugnalato in testa. Non finisce qui: in pochi giorni altri tre cadaveri spuntano in diverse zone di Milano, tutti uccisi con le medesime modalità. Le vittime hanno qualcosa in comune, si conoscevano? All’imprevedibile e sofferta soluzione del caso, Tombamasselli perverrà inseguendo l’ipotesi di una correlazione tra gli omicidi e alcuni aspetti mistico- religiosi legati alla Kabbalah ebraica.

Massimo Bertarelli, nato a Milano in zona Navigli nel 1954, risiede a Monza da quarant’anni. Ex responsabile amministrativo in vari ambiti, ex maratoneta, pensionato dal 2016. Da anni impegnato in opere di volontariato in favore di richiedenti asilo, senzatetto, carcerati e ricoverati in casa di riposo, con progetti a carattere letterario. Consigliere direttivo di un’associazione culturale che organizza eventi a Monza e dintorni, tra gli altri il Monza Book Fest e X-Factor letterario – parole aperte sul palco. Responsabile del gruppo di lettura della Biblioteca Civica di Monza. Ha pubblicato: Il fosso bianco (Nulla Die edizioni 2011), Mi chiamo Ugo (Qp edizioni 2016), Giallo d’Ischia (LFA Publisher 2018), Mi chiamo Simone (Edizioni della Goccia 2018), da cui è stata tratta una drammaturgia intitolata Torno subito, andata in scena al Teatro Binario7 di Monza a maggio 2019, replicata quattro volte.
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2022
ISBN9788869436000
Kabbalah noir a Milano: Il vicequestore Tombamasselli e un'indagine nera

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    Anteprima del libro

    Kabbalah noir a Milano - Massimo Bertarelli

    SABATO NOTTE

    Gli accordi iniziali di Hotel California squarciano il silenzio. Raddrizzo la testa sul cuscino e apro un occhio. I numeri rossi proiettati sul soffitto dalla sveglia digitale segnano 1:17. Chi mi telefona a quest’ora?

    Sbuffo, scalcio lontano il lenzuolo. Allungo una mano verso il comodino, urto lo smartphone e lo faccio cadere sullo scendiletto.

    «Ma porca…»

    Dal pavimento la voce di Don Henley mi arriva attutita. Con un grugnito mi giro sul fianco, stendo il braccio e accendo l’abat-jour. Raccolgo da terra il cellulare, nel centro dello schermo brilla la scritta Diciamo. Il questore?

    Mi puntello sul gomito e rispondo.

    «Signor questore.»

    «Buonasera dottor Tombamasselli, scusi l’orario ma… diciamo, c’è un’emergenza.»

    Sul fatto che lui la consideri ancora sera avrei qualcosa da ridire. «Che cos’è successo?» Tiro uno sbadiglio che mi costringe a spostare il telefono dall’orecchio.

    «… e lei di sicuro, diciamo, conosce l’HangarBicocca.»

    «Quella vecchia fabbrica che è stata riconvertita in un museo? Non ci sono mai entrato, ma so dove si trova.»

    Appoggio i piedi sul tappeto. Mi allungo a caccia delle ciabatte contraendo i polpacci. Parte una fitta.

    «Bene, ascolti. Durante il giro di controllo finale un vigilante ha trovato una donna con un coltello, diciamo, conficcato nel cuore. Era occultata dentro una installazione, si tratta di una specie di torre.»

    Mi piego in avanti, incasso la testa tra le spalle. Dev’essere il peso dei suoi ripetuti diciamo, non li sopporto più. Massaggio la gamba e reprimo a fatica un altro sbadiglio.

    «Come mai l’hanno coinvolta in piena notte in questo omicidio?»

    «Tombamasselli mi stupisce, non sa che l’HangarBicocca è, diciamo, una fondazione filantropica? Tra i soci fondatori ci sono la Pirelli, la Regione Lombardia e la Camera di Commercio di Milano.»

    «Azz.» Mi alzo, cammino avanti e indietro per la stanza. Mi gratto la testa.

    «Ha detto bene, sono proprio, diciamo, cazzi nostri. Non sarà un’espressione propriamente forbita ma mi perdonerà, l’orario non aiuta di certo. E data la competenza territoriale, sono soprattutto suoi. Il sostituto Sciàta verrà ad affiancarla, e anche il Doc.»

    Tiro un sospiro di sollievo. «Sciàta è di turno? Questa è una bella notizia. Ci pensa se ci fossimo trovati tra i piedi quei so tutto io di Carrara o Gambarini?»

    Il questore si mette a ridere.

    «No, Tombamasselli, per carità.»

    «Mi dia il tempo di vestirmi e vado.»

    «Bene, bene, confido nella sua competenza e… credo non ci sia bisogno di, diciamo, consigliarle di addivenire a una rapida conclusione dell’inchiesta che, ne sono sicuro, porterà avanti con la giusta dose di dovuto riguardo nei confronti della proprietà dell’HangarBicocca. Non serve sottolineare che, diciamo, tra non molto metà della Milano che conta ci starà con il fiato sul collo.»

    Sbircio attraverso i tagli della tapparella. I lampioni illuminano scorci di asfalto bagnato, però ha smesso di piovere. «Messaggio ricevuto forte e chiaro.»

    «Attendo sue notizie quanto prima, per ogni evenienza può disturbarmi, diciamo, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Buon lavoro.»

    Poso il cellulare sul comò. Accendo la lampada centrale, apro l’armadio, prendo una camicia a caso e l’appoggio sul letto. Torno alla finestra, la socchiudo e annuso l’aria. La felpa ci vuole, di sicuro Giorgia me l’avrebbe imposta, lei e la sua fissazione nei confronti dell’umidità.

    Mi giro e lei è lì, a fianco del cellulare, sorridente nella foto scattata a Procida, incurante dei capelli scompigliati dal vento e degli spruzzi delle onde. Chiudo gli occhi, afferro la fede, la faccio roteare attorno al dito.

    Non ho tempo per la nostalgia, vado in bagno e butto la testa sotto il getto dell’acqua fredda. Stringo forte i bordi del lavandino e urlo. C’è una donna ammazzata che mi sta aspettando, che reclama giustizia. Ho bisogno della massima lucidità possibile per svolgere ciò che so fare meglio.

    Trovare quest’altro assassino.

    MEZZ’ORA PIÙ TARDI

    I fari bucano a fatica le ombre proiettate sulla strada dall’imponenza del Teatro degli Arcimboldi. Dovrebbero mettere delle lampade più potenti.

    Come ogni volta che ci passo davanti, mi vengono in mente frammenti dei quadri del pittore appartenuto a quella casata, volti umani dipinti assemblando insieme frutta e verdura. Non ho mai capito come facciano a piacere.

    L’Hangar è poco più avanti, vicino al ponte che passando sopra la ferrovia segna il confine tra Milano e Sesto San Giovanni. Già, Sesto San Giovanni, la famosa Stalingrado d’Italia. Una volta! A momenti manco più in Russia esistono i comunisti duri e puri. Troppo impegnati a fare soldi per spenderli in MonteNapo e comprarsi squadre di calcio in giro per il mondo. Alzo la mano destra chiusa a pugno, la apro e saluto. Bye bye comunismo. Nonostante stia andando a respirare aria di morte, il buonumore non mi manca. Buon segno.

    Abbasso il finestrino.

    «Fenu, sono io. Com’è la situazione?»

    L’agente si sporge in avanti, appoggia entrambe le mani sul bordo della portiera.

    «Vicequestore aggiunto buona… ehm…»

    Con l’imbarazzo l’accento sardo si accentua.

    «Che c’è Fenu, sei incerto tra buongiorno, buonasera o buonanotte?»

    Fa un passo indietro per mascherare il rossore in volto.

    «No, è che a quest’ora, non so, che cosa si dovrebbe dire?»

    «Lascia stare, ci starebbe bene un… buona levataccia. Chi è già arrivato?»

    «Al momento solo l’ispettore Assi e il medico legale.»

    «Ok, rimani sveglio che sta arrivando anche il sostituto procuratore. Vado dentro.»

    Passo davanti a una serie di lastre metalliche, verticali e distribuite in orizzontale su più livelli, al centro di un giardino. I fari illuminano la targa della scultura, s’intitola Sequenza di tale Fausto Melotti. Questa è un’opera d’arte? Mah.

    Parcheggio a fianco di un muro in mattoni in cima al quale, illuminata a giorno, campeggia l’insegna del museo. Scendo dall’auto, punto lo sguardo sulla parola centrale… ragnaH.

    Ci risiamo. Non posso farci niente, è una maledizione che mi porto dietro fin da bambino. Chiudo gli occhi, li riapro, adesso sì che va meglio. Hangar.

    Supero un paio di porte a vetri ad apertura automatica. A sinistra c’è un largo spazio destinato a kinderheim. Ci sono tavolini e puff dai colori sgargianti. Dall’altra parte un’insegna su una larga vetrata riporta Dopolavoro Bicocca. È un locale buio, mi avvicino: è un bar-tavola calda.

    Un piccolo assembramento di persone sosta in piedi qualche metro più avanti, nei pressi della reception. Mi dirigo dalla loro parte, per arrivarci devo aggirare uno stravagante divano rosso a forma di esse.

    «Buonasera, sono il vicequestore aggiunto Tombamasselli del commissariato Greco-Turro.»

    Un tizio alto e secco, dai lineamenti giovanili e con i capelli mancanti alle tempie trasferiti in blocco in una voluminosa coda posteriore, mi viene incontro porgendomi la mano. Indossa uno spiegazzato completo giacca e pantaloni grigio scuro, camicia bianca e papillon fucsia.

    «Buonasera a lei, il suo collaboratore ci ha avvisato e la stavamo aspettando. Mi chiamo Angelo Novati, sono uno dei curatori della struttura. Venga, la accompagno nel luogo del ritrovamento… che tragedia. Mi dica, è già stato qui?»

    Non riesco a distogliere lo sguardo dal cravattino. Ci potrebbe anche stare, se non fosse per quell’imbarazzante colore.

    «Sono passato in zona in parecchie occasioni, ma è la prima volta che metto piede qui dentro.»

    «Ah. Venga, dobbiamo fare un po’ di strada, se desidera le illustro nel frattempo la struttura.»

    Si incammina e lo seguo.

    «Qui siamo ancora all’interno del capannone denominato Shed, è stato uno dei primi a essere costruito agli inizi del secolo scorso. Insomma, i suoi cento anni li porta bene, non trova?»

    Li porta bene sì. Le pareti sono pitturate di bianco e i caratteristici tetti triangolari in successione sono ancora del tutto integri.

    Passiamo attraverso un tendaggio blu, arriviamo davanti a una lunga parete scura messa di traverso. Novati mi fa cenno di seguirlo, la aggiriamo. Dietro c’è un lungo tavolo, sul bordo sono agganciati diversi faretti puntati verso piccoli piedistalli sui quali sono disposti, in bella mostra, decine di oggetti e giocattoli vintage. Mi avvicino per curiosare.

    «Che cosa sarebbe?»

    «Ah, credo che lei non abbia mai sentito nominare Hans-Peter Feldmann. Questa è una delle sue opere più famose, vincitrice di premi di prestigio, s’intitola Shadow Play. Vede, quei piccoli supporti ruotano su se stessi, e la luce dei faretti proietta l’ombra degli oggetti sopra quel muro. Dovrebbe vederla in funzione, l’effetto scenografico è ipnotico. Sapesse che fatica ci tocca fare quando si fermano qui davanti le scolaresche in visita. Sa, è il fascino dei giocattoli di una volta, la voglia irrefrenabile di toccarli con mano.»

    Avevo adocchiato un modellino di pistola, il primo impulso era stato proprio quello di prenderla in mano. Maschero con un sorriso l’imbarazzo per esserci cascato anche io.

    «Da questa parte, venga che le faccio vedere le installazioni per la rappresentazione delle opere dei Gianikian.»

    Passiamo accanto a due piccole tensostrutture che racchiudono al loro interno una mostra di acquerelli e una piccola sala di proiezione. Ci fermiamo davanti a tre giganteschi maxischermi. Non ho capito il nome.

    «Mi scusi, per chi ha detto che servono queste strutture?»

    «Ah, non ha mai sentito nominare Yervant Gianikian e la moglie Angela Ricci Lucchi? Sono due valenti artisti contemporanei, la loro arte si esprime nel settore dell’audiovisivo e, per quanto riguarda la signora, anche nella pittura. Hanno raggiunto una discreta fama internazionale grazie ad alcuni lungometraggi realizzati in giro per il mondo, in zone degradate dell’Africa o nei teatri di guerra. Si sono anche prodigati nella ricerca e raccolta di filmati storici che ripropongono al pubblico con una tecnica da loro inventata, si chiama la camera analitica.»

    Incrocio le braccia sul petto, ascolto con la speranza che non la tiri troppo in lungo.

    «Stasera, per esempio, abbiamo visto in una saletta vicino alla reception una pellicola ritrovata in un archivio storico, una testimonianza dal fronte italiano durante la prima guerra mondiale. E su questi maxischermi vengono proiettati di continuo altri tre loro lavori.»

    Novati sorride, compiaciuto. Anch’io sorrido, ma solo perché gli sto guardando il cravattino.

    «Interessante. Mi piace il cinema, ma di questi artisti non avevo mai sentito parlare.»

    Alza le spalle. «Prego, da questa parte c’è l’area dov’è avvenuto l’omicidio.»

    Pochi passi e siamo all’interno di un immenso capannone. Le strutture metalliche, dalla base di imponenti pilastri fino alle volte, sono state ridipinte in blu scuro. Il soffitto è più alto, e dentro un lungo e ampio recinto ricavato nel pavimento svettano sette strane costruzioni. Sono una serie di scatole squadrate sovrapposte in numero variabile fino a raggiungere un’altezza di almeno venti metri. Ogni torre ha delle aperture nei lati diverse dalle altre. Mi ricordano le sagome dei containers. L’effetto creato da un’illuminazione ad hoc, e la maestosità delle chiare costruzioni in risalto sul fondo scuro dell’edificio, mi lasciano senza parole.

    Novati se ne accorge e pontifica. «Questi sono i famosi Sette Palazzi Celesti di Kiefer, non mi dica che non li ha mai sentiti nominare.»

    Il primo non li ha mai sentiti nominare mi era scivolato addosso. Il secondo avevo fatto finta di non sentirlo. Per quanto riguarda l’arte contemporanea non sarò una cima, però non sono nemmeno così ignorante e, comunque, ci sono modi e tempi più adatti per rimarcare. Adesso basta. Infilo le mani nelle tasche dei pantaloni e lo fronteggio.

    «Signor Novati, credo che lei abbia frainteso. Sono il vicequestore aggiunto Tombamasselli, non il commissario Ambrosio.»

    Aggrotta la fronte. «Ah, non sono stato avvisato, è un suo collega che deve venire qui anche lui?»

    Non cambio espressione, ma nella mente mi si apre un largo sorriso.

    «Mi scusi, mi sta dicendo che non ha mai sentito nominare il commissario Ambrosio? È un famoso personaggio partorito dalla felice penna di Renato Olivieri, uno dei maestri della letteratura poliziesca italiana del secolo scorso. Il suo protagonista è un grande conoscitore ed estimatore d’arte, i libri di Olivieri sono pieni di riferimenti ad artisti e alle loro opere. Un esperto come lei dovrebbe leggerne qualcuno, sono sicuro che le piacerebbero.»

    Si irrigidisce, non replica. Fa due passi in direzione di un espositore, raccoglie una piccola brochure e me la porge.

    «Se lo gradisce, qui dentro c’è una breve spiegazione di quest’opera e del suo significato artistico. Prego, mi segua, la porto dai suoi colleghi.»

    SI SONO FATTE LE DUE E TRENTA

    Il primo a venirmi incontro è Assi. Ha i capelli arruffati. Sarà schizzato fuori di casa cinque minuti dopo che l’ho chiamato.

    «Ciao Leardo, che cosa abbiamo qui?»

    «Dottore, venga che le illustro la situazione.»

    Sta arrivando anche il sostituto procuratore, lo riconosco dal saluto.

    A trovarmelo davanti per una volta tanto vestito casual, jeans e felpa di sicuro raccattati al volo, come del resto ho fatto io, noto una piccola protuberanza addominale. Gliela indico.

    «Ha smesso di giocare a tennis?»

    Sciàta si passa una mano poco sopra la cintura. Sorride.

    «Caro Tombamasselli, negli ultimi tempi lo sport l’ho dovuto relegare nell’archivio delle buone intenzioni future.»

    In fondo al recinto, da una torre più bassa delle altre, sbuca la sagoma del Doc.

    Non ho dubbi che lui pagherebbe qualsiasi cifra per fare uno scalpo, incruento, a Novati. Con quella coda di capelli sostituirebbe il ridicolo riportino che gli attraversa in diagonale il cranio. L’alopecia sta trionfando a mani basse.

    Ci dirigiamo verso di lui, il Doc si aggiusta gli occhiali sul naso e scuote la testa. «Caspita, avete tutti l’espressione di chi è stato tirato giù dal letto a secchiate d’acqua gelata.»

    Sorrido, incasso e rilancio.

    «Senti chi parla, togliti le caccole di sonno

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