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La casa al civico 6
La casa al civico 6
La casa al civico 6
E-book294 pagine4 ore

La casa al civico 6

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Info su questo ebook

Il romanzo è ambientato a Ostrava, Repubblica Ceca, città del carbone, del ferro e dell’acciaio, delle miniere e delle industrie pesanti, al giorno d’oggi quasi tutte riconvertite o chiuse. Un luogo costantemente ricoperto dalla polvere di carbone che ne faceva “una città grigia”, come grigi erano i pensieri di chi vi abitava. È qui che viveva Martin Prchal, scomparso ormai da un anno senza lasciare traccia. Le ricerche della polizia si erano rivelate infruttuose; la storia sembrava dimenticata, se non fosse stato per un giovane poliziotto scrupoloso, Adam Vejnar. Nel leggere i fascicoli del caso, Adam è subito incuriosito dal “non luogo” in cui viveva Prcal: una casa ai confini del mondo in via U Trati al civico 6. Là vi abitano persone incapaci di progettare qualcosa di diverso e di migliore, ferme a quando la fabbrica e il regime comunista dominavano le loro vite. Un poliziesco che ci offre uno spaccato dell’attuale società ceca, dove l’atto criminoso costituisce un pretesto per creare un affresco sociale che ricorda ì gialli di Maj Sjöwall e Per Wahlöö.
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2020
ISBN9788894979336
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    Anteprima del libro

    La casa al civico 6 - Nela Rywiková

    Colophon

    Titolo originale

    Dům číslo 6

    © Nela Rywiková, 2013

    © Host - vydavatelství, s.r.o., 2013

    © Edizioni le Assassine, 2020

    Tutti i diritti riservati

    Traduzione dal ceco di Raffaella Belletti

    Progetto grafico copertina e interni: studioquasar

    Copertina: elaborazione da foto Adobe Stock

    ISBN della versione e-book 978-88-94979-33-6

    La pubblicazione ha ricevuto il sostegno del Ministero della Cultura della Repubblica Ceca

    www.edizionileassassine.it

    info@edizionileassassine.it

    Nela Rywiková

    La casa al civico 6

    Traduzione di Raffaella Belletti

    Edizioni le Assassine

    Milano

    Incipit

    Nelle cupe giornate di pioggia la città aveva un aspetto particolarmente desolato. Da intere settimane sulle foglie degli alberi si era depositata una polvere grigia che neppure gli acquazzoni estivi avevano lavato via. Sopra le teste ballonzolavano vagoncini stracolmi di carbone. Ogni anno aumentavano, ma erano in pochi ad alzare gli occhi al cielo. I vagoncini ne facevano semplicemente parte, come gli uccelli. Le funivie li trasportavano alla fabbrica, che era il corpo e l’anima della città. Una creatura di acciaio, che lavorava instancabilmente a pieno ritmo, giorno e notte.

    Dalle ciminiere della fabbrica e dai vagoncini di carbone si levava una polvere fine che ricopriva ogni cosa di una patina grigia. Per giorni e giorni attraverso la densa coltre di fumo e polvere non faceva capolino neppure un raggio di sole. A perdita d’occhio si vedevano solo le silhouette delle ciminiere e i contorni delle torri di estrazione e degli altiforni. Una città grigia, gente grigia, e grigi erano spesso anche i pensieri nelle loro teste. Chi non era scappato per tempo, era rimasto imprigionato per sempre nel tetro mondo delle fabbriche e dei casermoni prefabbricati. Che di anno in anno sottraevano sempre più spazio ai prati verdi. Da circa un secolo qui veniva gente a lavorare, a cercare fortuna, mezzi di sostentamento e una casa. Le fabbriche la attiravano come una calamita, per prosciugarla a poco a poco e disintegrarne i corpi devastati dalle malattie.

    Ancora sotto l’imperatore i magnati del carbone avevano costruito per le famiglie appena arrivate un intero nuovo quartiere fuori dei cancelli della fabbrica, dove erano allineate le une accanto alle altre casette di mattoni con piccole stanze e un cucinotto. Davanti a ogni casetta c’era una pompa e nel cortile una latrina. Dopo la guerra, quando la fabbrica aveva ricominciato a esportare e a prosperare, erano stati costruiti altri alloggi per i dipendenti. Casermoni più alti delle ciminiere avevano dato vita a enormi insediamenti popolari. Labirinti di case gigantesche, una uguale all’altra. In quel panorama uniforme non era difficile smarrirsi, confondersi e addormentarsi rassegnati con la testa pesante tra le mani a pochi metri da casa propria.

    Ben presto gli appartamenti si erano riempiti di operai generici e metallurgici, nonché di minatori delle vicine valli, che estraevano il carbone destinato alle bocche dei forni siderurgici. Questi avevano già wc, acqua corrente e riscaldamento centralizzato. Un lusso che i compaesani potevano invidiare loro.

    Così la città dominata dall’industria pesante si espandeva a una velocità incredibile e soppiantava le vecchie aree edificate, di cui da qualche parte rimaneva una cappella o un’edicola votiva rannicchiata tra giganteschi palazzi a pannelli. I singoli edifici delle fabbriche e degli alloggi crebbero a poco a poco gli uni negli altri e si intrecciarono come un nodo nordico. Qua e là tra le grosse condutture appariva inaspettatamente una casa o una baracca con una mescita, un negozio di alimentari, una tabaccheria, intorno ai punti di trasbordo delle lamiere e oltre i binari di servizio passavano i mezzi pubblici, che riuscivano a compiere il loro tragitto circolare in quarantacinque minuti senza mai lasciare i cancelli della fabbrica.

    Solo i bambini appena arrivati divoravano tutto quanto li circondava con occhi enormi e indicavano con il ditino le fiamme che divampavano alte sopra la città dalle ciminiere; nelle strade camminavano loro accanto uomini sporchi e neri come diavoli. Avevano gli occhi orlati di strisce nere come la pece e nelle unghie uno sporco di cent’anni, che non c’era verso di lavare via. La città ne era piena e sembravano dei selvaggi. Il pomeriggio se ne stavano nelle bettole, per poi la mattina presto ricominciare a sgobbare e dare il cambio agli uomini che avevano scavato nella roccia tutta la notte. Giorno o notte. Non importava. L’oscurità, la penombra e il grigio erano ovunque, a perdita d’occhio, sotto e sopra la terra. E così l’unico luogo luminoso spesso rimaneva la bettola, dove si poteva stare tranquilli, riposarsi, brontolare, lamentarsi e infine prendere delle sbornie colossali.

    In mezzo alla fabbrica più grande c’erano alcune case a tre piani. Spuntavano dalla polvere tra gli edifici industriali come tante Pompei. Dalle loro finestre gli abitanti vedevano la vicina cokeria e non lontano da essa passavano i binari sui quali transitavano i vagoni con il carbone. Intorno tutto pulsava e funzionava come il meccanismo di un orologio. I vagoncini cigolavano, stridevano, sbattevano e si urtavano, ma nessuno ci faceva caso. I rumori si dissolvevano nel tamburellare della pioggia sui gocciolatoi. E poi un giorno tutto tacque. La gigantesca macchina che lavorava a pieno regime si fermò e si immobilizzò del tutto.

    Nel corso di alcuni anni lungo la ferrovia nacquero betulle nane e cespugli arruffati nei quali fecero il nido i fagiani. Lontano, al di là di questi, si stendevano i resti della fabbrica, che ricordavano una città saccheggiata. Lì la natura predatrice si faceva sempre più strada tra le lamiere e si spingeva alla luce in luoghi impensabili. Con la sua forza svelleva la pavimentazione, avvolgeva i tubi di lamiera e ombreggiava le finestre infrante degli ex capannoni. La vegetazione cresceva in ogni interstizio dei muri e dei tetti, e le lamiere un tempo colorate avevano ormai assunto un color marrone ruggine.

    Gradualmente tutti i contrasti scomparvero e ormai gli edifici suscitavano attenzione soltanto per le loro dimensioni gigantesche e le forme spigolose.

    Nel cuore di questo paesaggio post-apocalittico era rimasta una sola casa abitata. Un’isola nella desolazione che mostrava gli ultimi segni di vita. A chi fosse passato di lì per caso sarebbe potuta sembrare un miraggio, ma era soggetta alla distruzione e al tempo come tutto ciò che la circondava. Vi sopravvivevano gli ultimi irriducibili e la mantenevano in vita con un’incessante rianimazione. Alla casa non conduceva né una strada né un marciapiede. L’asfalto tutt’intorno era spaccato e invaso dalle erbacce. I lunghi gambi dei convolvoli si avviluppavano lungo i muri e penetravano nelle crepe dell’intonaco. La brizolite intorno alle finestre e alle gronde era caduta da un pezzo e sotto il tetto erano spuntate macchie di umidità.

    Le scale erano decorate da un rivestimento di formica gialla e azzurra disposta a formare bizzarri motivi geometrici. Quando la casa era stata costruita, aveva dato l’impressione di essere fuori dal tempo, talmente era bella e moderna. Doveva essere la dimostrazione dello spirito del progresso, che avrebbe pompato sangue nelle vene non solo dell’intera impresa, ma anche degli scettici che avevano perso la fiducia nell’infallibilità del sistema socialista. Lo striscione appeso per alcuni mesi sopra l’ingresso proclamava: la fiaccola del socialismo accenderà la fiamma della modernizzazione.

    Un giorno il vento strappò lo striscione e lo annegò nel fango. Non ci fu nessuno a impedirlo. A poco a poco cominciò ad andare in rovina un po’ tutto. Il complesso di sei case costruite nel moderno stile di Bruxelles¹ fu l’ultimo grido della prosperità degli stabilimenti siderurgici prima che sopraggiungesse una strisciante agonia. Così, mentre i capannoni scomparivano e la produzione si fermava, si dileguavano anche gli alloggi, uno dopo l’altro.

    A riparazioni o migliorie gli inquilini dell’ultima casa rimasta avevano rinunciato ormai da anni. La vernice sulla ringhiera si era scrostata e in alcuni punti il rivestimento di formica si era completamente staccato. Là dove era ancora fissato al muro era ricoperto di disegni osceni e di scritte profondamente incise nella base del laminato. Nella casa regnavano un silenzio e una quiete da cimitero. Tutto questo angolo della città aveva in sé qualcosa di funereo. La vita ne era defluita. La fabbrica aveva formato delle quinte, come in un teatro, e l’unico luogo in cui accadeva ancora qualcosa era l’ultima casa al civico sei.


    ¹ Si tratta dello stile adottato sia nell’architettura che nelle arti applicate cecoslovacche tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, così chiamato per il grande successo riportato dalla Cecoslovacchia nell’Expo ‘58 a Bruxelles, nel cui ambito fu presentato. Si ispirava al razionalismo, chiamato anche – soprattutto fuori Italia – stile internazionale, tendenza architettonica sviluppatasi negli anni ’20 e ’30 e caratterizzata tra l’altro da forme geometriche elementari, finestre ampie, uso del vetro e mancanza di colori e ornamenti.

    Telefonata serale

    A strapparlo dalla concentrazione fu il tintinnio penetrante e prolungato del tram. Distolse gli occhi dal monitor e si rese conto di essere l’ultimo stacanovista dell’intero piano. Tutti gli altri uffici erano sprofondati da un pezzo nella penombra, nel silenzio e nel vuoto. Incuriosito, andò alla finestra: come ogni ficcanaso che si rispetti non voleva perdersi lo spettacolo di una disgrazia altrui, che doveva essere sicuramente accaduta visto il terribile fracasso. Ma non vide nulla. Un’Astra blu accese la freccia e rientrò nella sua corsia, in modo che il tram potesse passare senza problemi. In un ufficio squillò il telefono. Alzò del tutto meccanicamente la cornetta e la chiamata fu trasferita sulla sua linea.

    Parla Vejnar, polizia criminale.

    Mi chiamo Prchalová. Potrei parlare con il signor Oustecký?

    Oggi non lo trova più. È andato via prima delle sei. Posso riferirgli qualcosa?

    Hmm. La donna al telefono si stupì e rimase in silenzio.

    Pronto? Posso esserle d’aiuto in qualche modo?

    Be’, solo se per caso non sapesse… se magari ci sono novità sul caso di mio figlio. Alla signora all’altro capo del filo tremò leggermente la voce. Vejnar si innervosì. Certe cose non gli piacevano. Se ci fosse stato qualcosa di nuovo, sarebbe stata la prima a venirne a conoscenza. Quanto a lui, non sapeva niente del caso di suo figlio e non voleva assolutamente immischiarvisi.

    Purtroppo io sono di un’altra sezione, non posso darle informazioni. Il signor Oustecký la chiamerà domani.

    Credo che il signor Oustecký mi eviti cominciò la donna, esitante. L’ultima volta mi ha detto soltanto che il caso è stato archiviato. Il tono della voce al telefono passò da duro a piagnucoloso, finché non si scompose in vocali che si capivano a malapena. Mmmio fffiglio non iiinteressa più a nessuno! Ormai ci avete messo una croce sopra! Non avete scoperto un bel niente, eppure non può essere mica sprofondato sottoterra!

    Vejnar allontanò la cornetta dall’orecchio e aspettò che si esaurisse il flusso di singhiozzi incomprensibili, inframmezzati da accuse di inettitudine a tutta la polizia e alla società. Finora nella sua breve pratica non aveva avuto esperienze di sfoghi del genere e, sinceramente, in quel momento non sapeva più che pesci pigliare con quell’anziana donna disperata. Non aveva la più pallida idea di chi fosse suo figlio, di che cosa gli fosse successo, di quanti anni avesse e neanche di quale fosse il suo aspetto. Era solo un caso e un problema di Oustecký, e a Vejnar dispiacque di essere ancora bloccato al lavoro a quell’ora così tarda e, quel che era peggio, di aver risposto a quella stupida telefonata.

    Non ho sentito bene il suo nome. Sono certo che domani il mio collega la chiamerà. Purtroppo in questo momento non posso davvero fare altro per lei.

    Prchalová. E mio figlio è Martin. Martin Prchal. La signora si era un po’ calmata e la sua voce suonava di nuovo fredda e sicura di sé. Vejnar si appuntò il nome, salutò e riattaccò.

    Fuori aveva cominciato a fare buio. Gli prudevano le dita, prima di andare a casa avrebbe dato molto volentieri un’occhiata al dossier del caso Prchal, giusto per controllare di sfuggita di che cosa si trattasse effettivamente. L’ultima cosa che gli serviva era immischiarsi nel caso di qualcun altro, ma la sua curiosità innata aveva cominciato a farsi sentire. Sul display del cellulare però gli lampeggiavano tre messaggi, ne conosceva il contenuto senza bisogno di leggerli. Markéta era sicuramente già a casa, fuori di sé dalla rabbia. Quella mattina le aveva promesso di tornare entro le sei e perciò le aveva chiesto di preparare una cena calda, che ormai si stava freddando sul tavolo. Avrebbe avuto comunque quasi due ore di ritardo. Due o tre, a quel punto non avrebbe più aggiustato o rovinato nulla.

    Cliccò con il cursore del mouse sul registro dei casi, dal quale si riversò una marea di dati e fascicoli. Vi trovò quello di Prchal in maniera relativamente veloce e facile. Nello stesso istante dal suo telefono partì a tutto volume un motivo dei Pearl Jam e sul display apparve il viso sorridente di una ragazza bionda dagli occhi marroni. Rifiutò la chiamata e prima di schizzare via dall’ufficio scaricò il dossier nel suo computer. L’avrebbe aspettato fino al mattino seguente.

    Attraversò rumorosamente la città a bordo della sua moto e dieci minuti dopo armeggiava già con la chiave nella serratura. Non appena la toccò, però, la porta si spalancò bruscamente e sulla soglia apparve Markéta, imbronciata, con l’espressione della guerriera Vlasta², cosa che non sopportava. In quel momento non era solo brutta, Vejnar intuiva anche cosa sarebbe seguito. In simili casi la sua voce si alzava di alcune ottave rispetto alla norma e dalla bocca cominciava a spargersi un profluvio di parole inutili, che in sostanza erano sempre le stesse da quando si erano conosciuti.

    Non hai letto il mio messaggio? lo assalì con una voce inaspettatamente calma e gradevole.

    Solo di fretta mentì.

    Markéta arrossì. E altrettanto di fretta ti mollo, Adam. Prendi le tue due scatole Ikea e sloggia. Sono stufa marcia. Markéta si allontanò dalla porta, dietro la quale c’erano le due scatole preparate con cura.

    Vejnar entrò e si sedette sul divano con il giubbotto di pelle e i jeans sporchi. Sapeva che in questo modo avrebbe sicuramente fatto arrabbiare Markéta, ma gli era indifferente. Lo urtavano il suo carattere pedante, il suo amore morboso per l’ordine e quella commedia, che inscenava regolarmente in diverse varianti ormai da due anni e mezzo. Markéta gli mise ostentatamente il display del telefono sotto gli occhi.

    Non voglio vivere con un uomo che non mi vuole bene. Non lesse oltre. Alzò gli occhi al cielo.

    Oddio, Markéta!

    Si alzò dal divano, non toccò neppure le scatole e lasciò il monolocale di lei, come desiderava. La lasciò in piedi in mezzo alla stanza sull’orlo del pianto, furiosa e inerme come una bambina. Fece solo quanto gli aveva chiesto nell’sms. Prima ancora che la sua schiena sparisse oltre la svolta del corridoio, sentì il grido disperato di Markéta.

    Ma non vuoi nemmeno parlarne?

    No, non voleva. Era stanco del lavoro, di tutta quella settimana e dell’agonia del loro rapporto. Scene del genere avevano luogo sempre più spesso, soprattutto dopo che era entrato nella squadra omicidi, dove non di rado rimaneva fino a notte fonda per lavorare sui casi più vari. Il lavoro gli piaceva. Aveva scoperto con orrore che gli piaceva più di Markéta, che aveva cominciato a diventare pericolosamente casalinga. Lei passava le sere a casa, perché per trascorrerle facendo il giro dei locali, insomma, era ormai adulta, mentre ai suoi occhi Adam si era bloccato a un certo punto della crescita. Avrebbe voluto sposarsi e non lo nascondeva. Ma lui riusciva a immaginare tutto, fuorché una vita passata con una sola donna: gli risultava qualcosa di inconcepibile, soprattutto se immaginata insieme a Markéta.

    L’aveva conosciuta circa tre anni prima a teatro, a un balletto. Al tempo lei l’aveva preso per uno di quegli stravaganti critici teatrali che vanno alle prime in jeans logori e giubbotto di pelle per far capire che il teatro è la loro seconda casa, dove in sostanza potrebbero andare anche in pigiama. In quell’ambiente le era sembrato così assolutamente sicuro di sé, quasi fosse lui stesso un coreografo venuto da qualche parte della Spagna. Aveva occhi e capelli scuri come gli spagnoli e il suo silenzio gli conferiva un’aria misteriosa, finché non si era messo a parlare in un ceco perfetto e non aveva confessato di essere un comune sbirro.

    A quel balletto in realtà era andato solo per una ballerina minuta che gli piaceva da morire, e lui piaceva a lei, ma era troppo romantica per dirgli semplicemente che lo desiderava. Alla fine, l’indomani Adam si era ritrovato in un piccolo caffè letterario con Markéta, che era la migliore amica della danzatrice fin dai tempi della scuola. Quando poi la settimana dopo la ballerina lo aveva chiamato per invitarlo ad assistere a Giselle, aveva rifiutato.

    Aveva dunque preferito lasciarla perdere e ubriacarsi con Markéta a un concerto dove non sentivano le loro stesse parole, perciò non avevano fatto altro che bere e poi si erano baciati ed erano finiti a letto; lei gli aveva mormorato che lo voleva terribilmente, per sempre. Adesso aveva ficcato le sue cose in due scatole e aveva scritto il più patetico sms che avesse mai letto, per fargli passare un’altra notte dai genitori. Già la terza, quel mese.

    Preferì tornare in ufficio. Qui nessuno gli avrebbe ricordato che aveva trentatré anni, una vita stipata in due scatole e nessun futuro decente. Non sarebbe stato né il primo né l’ultimo a trovare un asilo temporaneo nel proprio ufficio. I colleghi ne avrebbero avute di cose da raccontare. Gli sarebbe stato più facile incontrare per strada un vitello a due teste che un collega con un matrimonio senza problemi.

    Si preparò un tè, accese il computer e aprì con calma il file che originariamente voleva lasciarsi per il mattino seguente. Prima di essere sopraffatto dal sonno lesse le prime righe del noiosissimo caso di un uomo adulto come tanti altri che un giorno non era tornato a casa. Scorse velocemente il dossier, finché non si bloccò in corrispondenza della mappa del luogo di residenza. Conosceva la città come le sue tasche, ma di quella strada in mezzo alla fabbrica dismessa non aveva mai sentito parlare. Neanche sulla mappa c’era una strada che portava alla casa. Come se questa non esistesse affatto. Così piccola, poco appariscente e persa nella desolazione. Proprio come si sentiva lui adesso.

    Si stese così com’era sul divano, con i piedi che gli sporgevano. A quanto pareva negli anni Settanta i fabbricanti di mobili non tenevano ancora in considerazione certi spilungoni.

    Si svegliò nella penombra e lasciò scorrere lo sguardo sul soffitto. Dalla strada giungeva il rumore del tram e delle auto, mentre il traffico mattutino si intensificava. Ben presto stridettero le chiavi dell’ufficio del suo capo, il primo ad arrivare. Vejnar saltò su, non voleva assolutamente che i colleghi lo prendessero in giro dicendo che gli era toccato dormire sul divano della vergogna, come lo avevano soprannominato. In parole povere: Ti hanno buttato fuori di casa? Be’, allora sdraiati in punizione, visto che non sei capace di ordinare la tua vita in una piccola aiuola ben curata, come ogni uomo normale. Si stropicciò il viso gonfio per la nottataccia.

    Potresti dormire un altro po’.

    Ma certo. Aveva dimenticato che il suo capo vedeva negli angoli più riposti dell’ufficio e sapeva tutto ciò che vi capitava. Prima ancora di guardarsi in giro aveva intuito che il divano della vergogna era stato di nuovo occupato. Vejnar non aveva mai capito come facesse, ma il superiore era sempre perfettamente al corrente di quanto succedeva, e negare qualsiasi cosa con lui non aveva alcun senso: non aveva dovuto neppure dare un’occhiata per capire al volo che il giovane collega aveva problemi a casa. Si avviò con andatura dondolante verso la sua scrivania, seguito da Vejnar.

    Ieri sera ha chiamato una certa Prchalová, voleva parlare con Oustecký del figlio.

    Hmm. Quella chiama ogni giorno. Il capo nel frattempo si tolse le scarpe e si infilò a fatica le pantofole che usava al lavoro, non dissimili dalle ciabatte che non gli facevano gonfiare i piedi. Tanto, dietro la scrivania non si vedevano e ci si sentiva come a casa. In effetti, stava più qui che là.

    Bisogna ancora lavorarci sopra? Voglio dire, Oustecký e co.

    Il superiore si raddrizzò gemendo e ansimando forte, quindi si piegò leggermente all’indietro, spingendo così l’enorme pancia verso Vejnar.

    Che vuoi, dovremo cominciare a trattarlo come un sospetto omicidio. Vi sono stati impiegati parecchi uomini, senza risultati. Ti interessa? Sembra un discreto scheletro nell’armadio.

    Nell’ufficio entrarono alla spicciolata altri colleghi e il posto di lavoro cominciò a trasformarsi in un mercatino pieno di voci e rumori.

    Adam, al telefono un collega fece un cenno a Vejnar, posò la cornetta sul tavolo e andò per i fatti suoi. Il giovane accostò la cornetta all’orecchio.

    Sì? Parla Adam Vejnar.

    È lei? È con lei che ho parlato ieri sera?

    La signora Prchalová? Non voleva parlare con il signor Oustecký?

    No, no, sa, ho riflettuto. Su di lei. Si interruppe un momento. Sì, mi pare che lei non sia così apatico, direi… Pensa di poter venire da me? Vorrei parlarle. Mi hanno detto che si occupa di omicidi. In effetti, credo che mio figlio sia stato assassinato.

    A questo Vejnar non replicò nulla. Era stupito lui stesso di come la telefonata del giorno prima gli fosse rimasta impressa. Dalla mattina non vedeva l’ora di aprire il dossier ed esaminare il caso. Voleva solo dargli un’occhiata. Non intendeva interferire nel lavoro di Oustecký, ma le cose avevano preso una piega leggermente diversa.

    Mi detti l’indirizzo sospirò e prese una penna per appuntare il luogo in cui abitava la signora Prchalová.

    Dobrá 112. Ora le trovo anche l’autobus. Viene al più presto?

    Non è necessario. Sì, parto subito. È a Frýdek, vero?

    Sì. L’aspetto. Attaccò.

    Rispetto al giorno prima, quella mattina al telefono la donna gli era sembrata nervosa e irruenta, quasi che a chiamare fosse stata tutt’altra persona.

    Si sciacquò il viso al lavandino del bagno, bevve un caffè della macchinetta senza mangiare e si avviò.

    Settembre era agli sgoccioli, ma il sole non voleva ancora saperne di arrendersi, splendeva e faceva male agli occhi. Tutti erano definitivamente tornati dalle vacanze e avevano riempito le strade con le loro auto gigantesche, così poco pratiche nell’intenso traffico cittadino. Ebbe sfortuna. A ogni incrocio quasi a farlo apposta scattava il rosso e la sua Kawasaki verde doveva frenare in continuazione. Ma poco dopo imboccò la strada radiale e andò a tutto gas. All’orizzonte spuntavano le alture dei Beschidi, con curve aggraziate come il corpo di una ragazza sul quale erano disseminati piccoli nei rossi simili a tetti. Si

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