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La scuola dell’odio: Sette anni nelle prigioni israeliane
La scuola dell’odio: Sette anni nelle prigioni israeliane
La scuola dell’odio: Sette anni nelle prigioni israeliane
E-book304 pagine4 ore

La scuola dell’odio: Sette anni nelle prigioni israeliane

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Militante ticinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Bruno Breguet ha appena vent'anni quando, nel 1970, viene arrestato ad Haifa dalle autorità israeliane. Accusato di svolgere attività terroristica per conto del Fronte, Breguet viene percosso e torturato a lungo prima di essere trasferito nel carcere di Ramleh dove, per ben sette anni, rimarrà a disposizione dei suoi aguzzini, che riservano ai prigionieri politici i trattamenti più duri senza riuscire ad avere la meglio sulla determinazione con cui i militanti riescono a lottare perfino dietro le sbarre di una cella di sicurezza. Nella prigione, Breguet continuerà la sua battaglia antisionista, rifiutando di scendere a patti con i servizi segreti e, in seguito, organizzando sommosse, preparando piani di evasione e tentando sempre e comunque di comprendere, attraverso lo studio, la natura dei mostri generati da una società divisa in classi nel contesto della guerra di conquista condotta ai danni della Palestina dall'imperialismo israeliano.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2018
ISBN9788867182077
La scuola dell’odio: Sette anni nelle prigioni israeliane

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    Anteprima del libro

    La scuola dell’odio - Bruno Breguet

    TUTTE LE STRADE

    11

    La scuola dell’odio

    di Bruno Breguet

    Prima edizione in «Tuttelestrade»: aprile 2015

    Prima edizione in e-book: giugno 2018

    Design Dario Morgante

    Red Star Press

    Società cooperativa

    Via Lorenzo Bonincontri, 41 – 00147 Roma

    La riproduzione, la diffusione, la pubblicazione su diversi formati e l’esecuzione di quest’opera, purché a scopi non commerciali e a condizione che venga indicata la fonte e il contesto originario e che si riproduca la stessa licenza, è liberamente consentita e vivamente incoraggiata.

    www.facebook.com/libriredstar

    redstarpress@email.com | www.redstarpress.it

    BRUNO BREGUET

    LA SCUOLA DELL’ODIO

    SETTE ANNI

    NELLE PRIGIONI

    ISRAELIANE

    Verso Haifa

    1.

    Non si possono capire le ragioni che mi portarono a passare tanto tempo nelle prigioni israeliane se non ci si rifà all’atmosfera politica che regnava in Europa verso la fine degli anni ’60. Il movimento spontaneista degli studenti non riusciva a investire l’intero corpo sociale. I contenuti della rivoluzione culturale cinese e delle lotte del Terzo mondo marcavano profondamente la coscienza politica dei nuovi gruppi di militanti. La guerra del Vietnam, in particolare, era anche da noi il fatto dominante. Migliaia di compagni e pacifisti manifestavano solidarietà al popolo vietnamita che si opponeva all’aggressione americana. Molto interesse destava l’America Latina, dove i focolai di guerriglia si moltiplicavano seguendo l’esperienza cubana. L’analisi dell’imperialismo e del sottosviluppo permetteva di capire il legame tra l’impegno politico all’interno della metropoli capitalista e le lotte dei contadini dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina uniti insieme nella lotta contro la potenza del dollaro e contro le varie borghesie nazionali.

    Nel mio caso specifico, la tematica della fame fu l’elemento concreto che provocò la mia sensibilizzazione politica e che mi fece considerare l’inevitabilità di una lotta armata per la realizzazione del socialismo.

    A quel tempo le condizioni di miseria imposte al popolo palestinese nei campi profughi erano poco conosciute fuori dal Medio Oriente, malgrado la partecipazione diretta di molti governi occidentali e di varie organizzazioni internazionali a quello che si può ben dire un tentativo, sempre più determinato, di genocidio. Ben prima della guerra del giugno ’67, settant’anni di propaganda sionista avevano prodotto l’effetto desiderato: l’Europa scaricava la sua cattiva coscienza e cancellava dalla sua memoria i lager nazisti, facendo propria la causa israeliana e sostenendo lo Stato che, in vent’anni, aveva fatto «fiorire il deserto».

    Per molti giovani europei che sognavano la vita idilliaca dei kibbutz (dove centinaia trascorrevano le loro vacanze contribuendo effettivamente a «far fiorire il deserto»), Israele era uno Stato modello. Faceva comodo, anziché verificare meglio le cose, credere che i superstiti delle stragi naziste stessero affermando il loro diritto alla vita, laddove pochi «selvaggi» si erano dimostrati incapaci di sfruttare razionalmente la terra.

    2.

    L’idea centrale della dottrina sionista sostiene che gli ebrei di tutto il mondo, in qualsiasi paese si trovino e senza tener conto del loro grado di impegno religioso nei confronti del giudaismo, costituiscono, in quanto «popolo eletto» della tradizione biblica, una nazione. Quest’affermazione presupponeva (e presuppone tuttora) la credenza che «ebreo» sia un attributo etnico-nazionale. Scopo del sionismo è, da sempre, la creazione di uno Stato per gli ebrei, per tutti gli ebrei e solamente per loro. Oggi, in Israele, precise disposizioni legislative «salvaguardano» l’ebraicità dello Stato. La cosiddetta «legge del ritorno», l’esempio più clamoroso, permette a un ebreo che non ha mai vissuto in Palestina di «ritornarvi». Tale legge però impedisce di fatto ai palestinesi, cacciati dalla loro terra, di rioccupare i propri territori e di riprendersi le case in cui sono nati.

    Io, che vivevo in una società che non smetteva di sventolare principi (astratti) di uguaglianza e di libertà, mi chiedevo quale contributo avrei potuto dare per realizzare sul serio quell’uguaglianza e quella libertà anche per un popolo, quello palestinese, al quale non sembrava riconosciuto nemmeno il diritto di esistere. Mi persuasi che occorreva rompere subito la catena dello sfruttamento nel suo anello più debole, quindi partire direttamente da situazioni di più grave indigenza. La presa di coscienza delle masse del Terzo mondo (pensavo in particolare ai palestinesi) faceva ritenere che la lotta per il socialismo avesse spostato il proprio centro al di fuori dei paesi industrializzati.

    Fu proprio in quel periodo che nacque l’Ospaaal, cioè l’Organizzazione di solidarietà dei popoli d’Africa, d’Asia e dell’America Latina. La sua sede era all’Avana e le sue funzioni consistevano nel coordinare la lotta antimperialista sul piano propagandistico e culturale.

    Nel gennaio 1966 l’Ospaaal tenne la sua prima conferenza. Vi parteciparono i rappresentanti di 82 paesi. Questo evento costituì per me l’inizio simbolico di nuove prospettive nella lotta per la liberazione di tutti i popoli oppressi dall’imperialismo. Contemporaneamente a questa iniziativa cominciarono le operazioni di guerriglia su scala internazionale: commandos palestinesi spostavano la lotta al di fuori del Medio Oriente organizzando azioni armate esemplari in paesi europei sostenitori d’Israele.

    3.

    Il 18 febbraio 1969, nel più grande aeroporto della Svizzera, quello di Zurigo-Kloten, un commando del Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina), composto da quattro palestinesi fra cui una donna, attaccò con fucili mitragliatori e bombe a mano un Boeing 720 B della compagnia aerea israeliana El Al in partenza per Tel Aviv. L’aereo, con una capacità massima di 170 passeggeri, aveva a bordo solo 17 persone. La percentuale dei posti occupati era inferiore del 70 per cento alla media normalmente raggiunta nei voli di questa compagnia. Il peso complessivo dell’aviogetto corrispondeva tuttavia a quello del pieno carico. La carlinga doveva quindi essere occupata, come venne poi ammesso al successivo processo, da «materiali di densità elevata e inusitata».

    Il Fplp sapeva bene che il peso dei passeggeri mancanti era compensato da una quindicina di tonnellate di armi. In condizioni normali un Boeing 720 B a pieno carico necessita di un equipaggio di otto persone, mentre in quell’occasione, malgrado che i passeggeri a bordo fossero solo diciassette, l’equipaggio ne comprendeva addirittura dodici.

    Il commando palestinese avrebbe dovuto arrestare l’aereo sparando, a titolo intimidatorio, proiettili traccianti sulla parte anteriore della fusoliera. Lo scopo era di far scendere i passeggeri e l’equipaggio, per poi distruggere con esplosivo il Boeing. L’operazione si risolse in un fallimento. I quattro palestinesi furono subito disarmati da poliziotti e pompieri accorsi sul luogo al rumore delle raffiche.

    Nel frattempo dall’aereo israeliano scese un uomo, armato di pistola. Si trattava di uno dei diciassette «passeggeri». Egli si diresse senza esitazioni verso uno dei membri del commando che era stato fermato dai pompieri e, malgrado che il palestinese fosse ormai inerme, gli sparò a bruciapelo una revolverata alla gola. A questa fece seguire altri due colpi per finire l’agonizzante palestinese. L’uomo era un agente di sicurezza israeliano mascherato da studente, tale R. Mordechai (o M. Rachamim, stando alla firma scritta in calce alla sua deposizione). Quest’agente fu in seguito premiato nel suo paese e persino promosso per il coraggio di cui aveva dato prova uccidendo un uomo disarmato.

    Al fatto seguì una vera campagna della stampa svizzera, la quale accusò «indignata» il Fronte popolare palestinese di aver interferito negli affari di un paese neutrale. Alla fine del processo, che si tenne in dicembre a Winterthur, l’agente israeliano venne, contro ogni principio giuridico, assolto. I tre palestinesi superstiti furono invece condannati a 12 anni di carcere ciascuno.

    Di fronte a tali avvenimenti, proprio mentre a Winterthur si stavano mettendo in scena i primi atti della farsa giudiziaria, nacque e si confermò saldamente in me l’idea di dover fare qualcosa, né ero il solo.

    Quando il processo si concluse con quella sentenza assurda e provocatoria, c’era chi sarebbe stato disposto a organizzarsi per ottenere la liberazione dei tre palestinesi.

    Non è il caso di spiegare chi fossero e a quale gruppo appartenessero. Gli intrecci risulterebbero complicati. Basti dire che si trattava di compagni politicamente impegnati, uniti dal saldo legame dell’impegno antimperialista.

    4.

    Nel febbraio 1970, un mese dopo il processo di Winterthur, mi recai a Beirut. Volevo verificare quali fossero le intenzioni del Fplp sul problema dei prigionieri palestinesi in Svizzera. Prima di offrire il mio contributo desideravo anche rendermi conto di quali fossero i progetti dell’organizzazione su cui io facevo più affidamento, cioè il Fronte popolare.

    Quando giunsi a Beirut il responsabile per le operazioni all’estero era assente. Decisi di attenderlo. Intanto visitai tutti i campi dei profughi situati in Libano, una decina. La maggior parte del tempo lo trascorsi però a Saida, la terza città del Libano, situata a soli 40 chilometri dalla frontiera con Israele. Vidi masse sterminate di vecchi, donne e bambini costretti a vivere un’esistenza di indicibile miseria sotto le tende, senza servizi igienici e in tutto dipendenti dalla carità dell’Unrwa¹ per avere un po’ di latte in polvere, un pezzo di sapone, qualche coperta.

    Fu tanta la miseria che vidi in quelle lunghe giornate passate camminando tra le tende e le capanne di latta immerse nel fango! Vivendo, pur da spettatore, la loro tragedia e le loro sofferenze, mi venne spesso di chiedermi come fosse possibile che le vittime e i testimoni di tanta tragedia non facessero di più per porvi fine, protestare, ribellarsi. E come uomini consapevoli di ciò potessero restare indifferenti.

    Ogniqualvolta venivo a contatto con la realtà dei rifugiati mi sentivo diminuito, diminuito come uomo perché non avevo fatto nulla per impedirla (o perlomeno, non ancora). Sapevo che non avrei potuto più ignorare, tacere. Dovevo ribellarmi, non potevo accettare ciò che vedevo come realtà «normale», come condizione «naturale».

    La maggioranza silenziosa quanti crimini commette?

    5.

    Ero appena ritornato in Svizzera dal Libano, quando seppi che ero ricercato dall’Interpol. Il giorno dopo mi presentai al capo della polizia cantonale di Bellinzona. Il suo comportamento, alquanto equivoco, mi lasciò perplesso. Non mi accusò di nulla, non mi spiegò il motivo per cui ero ricercato dall’Interpol; mi consigliò semplicemente di non affiliarmi al movimento di resistenza palestinese Fatah.

    Cosa sapeva la polizia? C’erano state indiscrezioni? Fu soltanto nel 1972, quando i servizi di sicurezza israeliani mi informarono che l’inchiesta sul Boeing della Swissair caduto nel febbraio del ’70 era conclusa, che compresi almeno in parte il motivo dell’interessamento dell’Interpol al mio caso: la mia partenza per il Libano era coincisa con l’esplosione di quel Boeing. Ricordo che era un venerdì quando presi l’aereo a Milano per Beirut via Roma. Il giorno seguente un aereo della Swissair diretto a Tel Aviv scoppiava in volo. Una bomba azionata da un congegno sensibile all’altitudine aveva causato lo scoppio mezz’ora dopo il decollo da Zurigo-Kloten. Le vittime erano state 47.

    Alcuni giorni dopo il colloquio con il capo della polizia mi recai a Milano, dove persi il passaporto contenente il visto d’entrata in Libano. Al mio ritorno presentai naturalmente domanda per ottenere un altro passaporto. Dovetti attendere tre mesi. Informai, come convenuto, il responsabile del Fronte a Beirut. La missione in Israele non poteva più essere compiuta, troppe erano le probabilità di fallire. L’Interpol doveva sospettare qualcosa e il fatto che il passaporto fosse arrivato con tanto ritardo insospettiva me.

    Mi era stata fatta la proposta di introdurre clandestinamente in Israele una certa quantità di esplosivo che doveva servire alle forze della resistenza. La situazione politica e il mio stato d’animo erano quelli che ho descritto e, dopo aver ben riflettuto, non mi restava che accettare consapevolmente il rischio. Pensai che, proponendomi di entrare come turista in Israele con due chili di esplosivo addosso, si volesse anzitutto vedere come avrei reagito alla proposta. Che quindi mi si metteva alla prova per accertare la mia risolutezza. Da quando mi vennero consegnati gli esplosivi fino al momento dell’arresto, non dubitai un solo istante che la faccenda fosse tutta una commedia, un mezzo per saggiare la fermezza della mia decisione di combattere a fianco della resistenza palestinese. Ma io ero ben deciso a farlo e accettai.

    Dopo l’arresto, rimasi con tante domande a cui non mi riusciva di dare una risposta. Ero stupito e deluso, non dal fatto di trovarmi arrestato dalla polizia israeliana, ma dall’esito completamente sterile dell’operazione ai fini della resistenza (anche se a me servì moltissimo). Ero deluso dalla mediocrità di giudizio e dall’inefficienza dimostrate dagli organizzatori, se avevano inteso iniziarmi così alla lotta. Quest’impressione mi sarebbe rimasta per tutta la durata della prigionia.

    Fino all’ultimo minuto rimasi in attesa di un contrordine che non arrivò; quindi partii per Venezia, dove m’imbarcai per Haifa.

    A Beirut conoscevano esattamente la data, il porto d’imbarco e l’itinerario che avrei seguito. Forse – pensai – giunto in un porto prima di Haifa qualcuno mi avrebbe dato l’ordine di rinunciare. Ma nei cinque giorni di navigazione, pur mantenendo i contatti con Beirut, non ricevetti alcun contrordine. Il 23 giugno, alle sette del mattino, la nave italiana «Enotria», su cui mi trovavo, entrava nel porto di Haifa².

    Il giorno prima, filmando la nave e il mare, avevo ripreso anche alcuni passeggeri. Fra questi, un uomo che sospettavo essere un agente del servizio segreto israeliano: conosceva troppo bene gli aerei da caccia israeliani che sorvolavano la nave per recarsi a bombardare Porto Said. In quei mesi infatti la guerra d’attrito israelo-egiziana era in fase ascendente e i caccia israeliani, padroni dei cieli medio-orientali, compivano missioni giornaliere contro il fronte egiziano. Il loro sibilo risuonava ancora nelle mie orecchie quando scesi dalla nave e mi avviai con gli altri passeggeri verso il posto di dogana del porto.

    6.

    Al processo le autorità israeliane affermarono che il mio arresto era dovuto alla perspicacia degli addetti alla dogana. In realtà le cose andarono molto diversamente. Il servizio segreto israeliano mi attendeva e conosceva la mia identità fin dal mio soggiorno in Libano. Ero iscritto nel loro libro nero. Fu un agente di questo stesso servizio che più tardi me lo confermò, dicendomi che, anche se fossi sbarcato senza esplosivo, le cose non sarebbero cambiate di molto: «Sapevamo che faceva parte del Fplp e quindi sarebbe stato arrestato in ogni caso».

    Le circostanze del mio arresto contraddicono nettamente le affermazioni dell’accusa, secondo cui i doganieri si sarebbero accorti che portavo qualcosa alla vita, essendo la mia giacca leggermente rigonfia. Mi ero allenato a portare la cintura di stoffa contenente dieci pezzi di tnt. Nessuno prima d’allora se n’era accorto. All’inizio avevo qualche difficoltà con la respirazione, tanto l’esplosivo era schiacciato contro il torace. Nessun doganiere, seduto dietro la sua scrivania, avrebbe potuto notare qualcosa di sospetto. La tecnica dell’arresto non fu quella che sarebbe stata se la dogana avesse effettivamente sospettato che portavo qualcosa sul corpo. Infatti, venuto il mio turno, il doganiere esaminò a lungo il passaporto, molto più a lungo di qualsiasi altro esaminato prima del mio. Fece una prima telefonata, di cui compresi solo che riguardava la mia cittadinanza svizzera, quindi esaminò con molta cura il contenuto della mia valigia e la cinepresa. Nel frattempo il doganiere ricevette altre due telefonate: gli chiedevano altri dati del passaporto. Cominciai a dubitare della validità del mio documento: forse era scaduto, forse mancava qualcosa.

    Mentre il doganiere mi intratteneva con alcune formalità sulla cinepresa, mi accorsi che stavano avvicinandosi due individui, evidentemente sbirri. Portavano abiti civili e non avevano armi. In quel momento capii di essere stato scoperto: lo sguardo di quei due che si avvicinavano non ammetteva alcun dubbio. La prima cosa che mi venne in mente fu se era il caso di far esplodere il tnt, ma avrei impiegato troppo tempo per preparare il sistema di detonazione.

    I due mi invitarono a seguirli e ci avviammo verso una stanza distante una decina di metri. Uno di loro mi prese la valigia e, appena entrati nella stanza, la perquisì di nuovo. Anche la cinepresa venne esaminata, mentre il passaporto fu sottoposto a nuove attenzioni.

    Un oggetto che creò alcuni problemi fu la bomboletta del sapone da barba. Per accertarsi del contenuto, ne usarono un poco formando, con loro grande gioia e ammirazione, una piccola montagna bianca sul tavolo. Fu mentre li guardavo maneggiare la bomboletta che notai la presenza di un terzo individuo che non parlava, limitandosi a osservare da dietro un tavolo. L’avrei visto di nuovo nel 1977, sette anni dopo.

    Resisi conto che l’ispezione della valigia non dava risultati, uno di loro cominciò a perquisirmi. A quel tempo non sapevo come si perquisisce una persona. Una cosa è certa: quello che mi perquisì non si accorse subito della presenza dell’esplosivo. Iniziò dalle braccia e passò alle ascelle. Giunto alla vita, si fermò di colpo. Tutto era finito. Alcuni uomini entrati in seguito mi puntarono contro i loro mitragliatori Uzi.

    7.

    Questa successione di eventi prova la falsità delle spiegazioni fornite al processo dall’accusa: nessuno si era accorto di ciò che portavo su di me. Se così fosse stato, per prima cosa mi avrebbero immobilizzato. Avessi portato, invece dell’esplosivo, bombe a mano o pistole, avrei potuto farne uso durante la perquisizione. Sapevano chi ero, ma non che cosa portavo.

    Compiuta una più completa perquisizione, gli agenti rimossero la cintura contenente l’esplosivo, il pacchetto di sigarette con il detonatore e il sistema a orologeria. Mi condussero poi in un altro locale.

    Dopo diverse telefonate mi caricarono su un’automobile nera, con i finestrini chiusi e le tendine abbassate; sembrava una bara. Stavo sul sedile posteriore, ammanettato a due individui che mi sedevano ai fianchi.

    Mille pensieri occupavano la mia mente. Appena avviato il motore, i due cominciarono a insultarmi e a picchiarmi: era l’antifona dell’interrogatorio. La prima cosa che pensai fu: mi elimineranno. «Giovane turista svizzero trovato morto in Israele». Pensavo a cosa avrei potuto fare. Secondo le istruzioni ricevute avrei dovuto dire di aver accettato di trasportare l’esplosivo in Israele in cambio di una ricompensa di 5.000 dollari. Mi sarei così rifatto alla secolare tradizione mercenaria del popolo svizzero! Ma a cosa mi sarebbe servito? Di sicuro a farmi arruolare nei loro servizi segreti. «Accetta – mi avevano detto i compagni – parla pure di ciò che hai visto qui nel Libano, tanto hai visto solo cose che loro sanno già...» Ma per ciò che riguardava i contatti con l’Europa?

    La mia esistenza dipendeva da alcuni individui che si esprimevano in una lingua che non comprendevo. Lampi di immagini e pensieri: la vita nella lontana Europa continuava normalmente, come ogni giorno. Nelle strade che stavamo attraversando la gente ignorava che io forse andavo a morire. Chi muore è sempre solo. Si muore con un bruciante desiderio di affermarsi, con una folle paura dell’ignoto.

    Durante il tragitto avevo programmato, nei limiti del possibile, il mio comportamento: alla prima occasione avrei cercato di impadronirmi di un’arma e avrei sparato su tutti e su tutto; se non altro, avrei vendicato la mia morte.

    Quanto li odiavo quei due seduti al mio fianco che mi insultavano urlando parole che non riuscivo a capire! Mi insultavano e mi sbattevano in qua e in là, senza che mi potessi difendere. D’altra parte era meglio che mi concentrassi: dovevo analizzare tutte le possibilità, considerare in quali momenti e come avrei potuto agire.

    8.

    Ci fermammo davanti alla porta in ferro, in un cortile con un muro color mattone sporco, dove si vedevano piccole finestre con inferriate. Intorno alle finestre e ai bordi del tetto piano dell’edificio, filo spinato. Più lontano, una montagna che nascondeva l’orizzonte, e la campagna. Tutto era silenzio. Il sole appariva immobile tra i cipressi che costeggiavano la strada. Avrei voluto che quel momento rimanesse sospeso in eterno. Ero convinto che quella fosse l’ultima volta che vedevo il sole.

    Mi ripresi. A pochi metri, alla mia destra, vidi un uomo armato. Forse questo poteva essere il momento di tentare il tutto per tutto, ma rimasi indeciso alcuni secondi. Poi, quando ormai ero risoluto ad agire, venni spinto verso una porta, uno spintone così violento che quasi mi staccò la testa.

    Mi trovai in un locale completamente vuoto, fresco. Mi ordinarono di spogliarmi, mentre quello dei due che prima mi aveva insultato controllava i vestiti. Poi con le sue sudicie mani mi perquisì tutto. Decisi che, se mai fossi uscito da lì e l’uomo con il fucile fosse stato ancora al suo posto, avrei agito. Il primo colpo sarebbe stato per colui che mi stava perquisendo. Durante il tragitto aveva detto di essere marocchino e aveva aggiunto che i marocchini sono molto sporchi e che si divertono un mondo facendo giochi sporchi. E me l’aveva dimostrato.

    L’interrogatorio ebbe inizio. Una sensazione di vuoto s’impadronì di me, un vuoto viscerale. Eravamo in una cella nuda, di cemento armato, a forma quadrata. Una scrivania di ferro con sopra un telefono, alcune sedie, un armadio a muro pure di

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