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Cavalieri del deserto
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E-book390 pagine6 ore

Cavalieri del deserto

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Info su questo ebook

Il libro è stato in origine concepito come biografia di lady Anne Blunt, la nipote di Byron, che viaggiò a lungo nel “Levante” - e in particolare nell’allora inesplorata Arabia - alla ricerca di purosangue arabi, ma si è poi concentrato anche sul poeta Wilfrid Blunt, marito di Anne e suo compagno di viaggio, e soprattutto sul suo acceso anti-imperialismo.

     Descrivo dettagliatamente la vicenda della “rivoluzione egiziana per la Costituzione” del 1882 – di cui i Blunt furono  spettatori ma anche attori appassionati – che portò al tragico bombardamento inglese di Alessandria e al lungo protettorato britannico  sull’Egitto.     Mentre la vulgata imperialista britannica – che ancora echeggia nell’interesse dell’occidente per i paesi arabo-islamici – sosteneva la visione razzista secondo la quale, per dirla con Kipling, colonizzare i paesi “inferiori” per civiltà era il sacrosanto “fardello dell’uomo bianco”, Blunt denunciò il sottobosco di intrighi che era il vero motore degli eventi.       Ma mentre Blunt sosteneva l’emancipazione dei popoli sottomessi, imponeva a sua moglie un “matrimonio vittoriano” particolarmente pesante dal punto di vista psicologico. E a questo punto, mi è sembrato significativo descrivere i costumi dell’alta borghesia inglese che si permetteva di tacciare di immoralità i vari pascià arabi. Lord Cromer, a lungo governatore inglese dell'Egitto, sosteneva che la causa precipua dell’ “arretratezza egiziana” fosse la condizione inferiore delle donne, che bisognava liberare dal velo: in patria, però, egli era uno strenuo oppositore delle suffragette!        Insomma, molti sono i motivi che si intrecciano in questo testo, che ha l’ambizione di offrire i presupposti della rivoluzione di Nasser, della nazionalizzazione del canale di Suez nel 1956 e della situazione attuale di tensione e miseria che si vede in Egitto.       Molte sono le chiavi di lettura di questo testo, che può essere apprezzato su vari livelli e da diversi tipi di lettori:-           chi ama le biografie (non romanzate: ma in questo caso la realtà è più incredibile di qualsiasi        romanzo!)-         chi ama la letteratura e la storia inglese-         chi si interessa di letteratura di viaggio-         chi è appassionato di cavalli (i Blunt con i cavalli arabi acquistati in Medio Oriente fondarono il Crabbet Stud, il celebre allevamento nel Sussex)-        chi si interessa di movimenti femminili: mentre infatti nel primo decennio del 1900 in Inghilterra le suffragette  lottavano per il diritto di voto,  anche in Egitto le prime femministe scendevano in piazza, benchè ancora con il viso semicoperto-        chi prova curiosità per i paesi arabi ed è pronto a mettere in dubbio le versioni fuorvianti dei mass media-        chi ama l’Egitto, ma ne ha abbastanza dei faraoni e vuole conoscerne la storia più recente-        i nostalgici del passato, quando gli orientalisti europei viaggiavano nell’Egitto cosmopolita (vedi epigrafe di Saint-Exupery all’inizio del testo)-gli anti-imperialisti, che troveranno materiale abbondante per stigmatizzare l’Occidente-chi cerca di “comprendere”: le radici del nostro presente infatti – e in particolare degli odierni conflitti nel Medio Oriente – affondano nell’Ottocento, quando la Nahdha - il rinascimento dei popoli arabi che si era avviato dopo la spedizione in Egitto di Napoleone – fu bloccata dalle aggressioni imperialiste di Francia e Inghilterra.
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2021
ISBN9791220315357
Cavalieri del deserto

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    Anteprima del libro

    Cavalieri del deserto - Claudia Berton

    2010

    Scatole cinesi: quasi una prefazione

    Su uno degli scaffali della libreria Ferjani, nel centro di Tripoli di Libia, il libro attirò la mia attenzione per la copertina gialla su cui spiccava la sagoma scura di un beduino che, in groppa a un dromedario, reggeva uno svolazzante stendardo. Non potei credere ai miei occhi quando realizzai di essermi imbattuta nel Pellegrinaggio al Nejd di lady Anne Blunt, un libro che cercavo da anni, per quanto saltuariamente, in Inghilterra. Fu quello un altro passo che mi avvicinava a personaggi che avevo incrociato più volte nei miei percorsi di studio e di viaggio: Anne e il marito Wilfred Blunt, nomi imprescindibili nei compendi di viaggiatori-esploratori ottocenteschi dell’ancora misterioso Levante - come veniva allora chiamato il Vicino Oriente - delle cui vicende avevo preso ad occuparmi con una passione che, con il passare degli anni, si è rivelata indefettibile. C’erano infatti, ad attirarmi inesorabilmente verso la loro avventura umana, due dettagli appena accennati nelle loro sommarie biografie: lady Anne era l’unica nipote di Byron, e Wilfred – anch’egli poeta – era noto per aver suscitato a suo tempo vespai di polemiche nell’impero britannico come appassionato sostenitore del nazionalismo arabo, opponendosi con irriducibile vigore all’establishment tardo-vittoriano al quale apparteneva per diritto di nascita. E non meno affascinante era lo scenario in cui si svolsero le loro vite, divise tra gli ultimi bagliori dell’imperialismo vittoriano e l’emergere alla ‘modernità’ dei popoli arabi.

    Dopo aver accolto l’impulso di raccontare la loro storia, per anni mi sono dibattuta in un rompicapo di scatole cinesi cercando di comporre nelle pagine – per un ipotetico lettore distratto e poco addentro ai segreti giochi degli imperi - quel senso, quella consequenzialità che intravvedevo a tratti, conoscendo a fondo i modi apparenti e l’indubbia grandezza, così come le oscurità e le menzogne, dell’Inghilterra vittoriana, e al tempo stesso l’ingiustizia che il Medio Oriente ha subito quando il cosiddetto Occidente ha interferito con la sua Nahdha, il suo Rinascimento, occultando per contro le molte segrete trame che hanno avviato e nutrito gli odierni rancori dei popoli del dar al-islam. Come far emergere – ancora mi chiedo - macroscopici eventi e non meno importanti sfumature attraverso la vicenda umana di lady Anne, testimone di primo piano di quel tempo così gravido di future conseguenze? Che cosa privilegiare, visto che dalle molte pagine che pure scrisse la sua persona si disegna più per assenza, in contrasto alla prepotente presenza di Wilfred? E, forse ancora più importante, che cosa lasciar perdere? I Blunt vissero infatti in un’epoca in cui l’alta società e i suoi scandali erano più che mai inseparabili dagli intrighi dell’alta politica.

    Prendendo dimestichezza con le testimonianze scritte del percorso di lady Anne, è stato proprio attraverso la sua caratteristica ritrosia - che si addensa in proporzione all’intensità dell’emozione - che essa mi si è rivelata, in un crescendo di dettagli sempre più facili da cogliere man mano che andavo conoscendo i suoi modi, l’impronta inconfondibile della sua integrità: un guscio protettivo che non la rese né impermeabile alla comprensione e alla pietà e nemmeno la preservò dalla sofferenza e da una pervasiva sensazione di inadeguatezza.

    Nella mole sterminata delle lettere che scrisse e dei diari in cui con grafia sottile annotò diligentemente per tutta la vita le tracce del proprio vissuto, i dolori più intensi sono infatti condensati in poche parole e a volte non vi si accenna neppure. Un’altra forma di diario, forse ancora più spontaneo, sono i suoi innumerevoli disegni e acquerelli, da cui ho colto le direzioni del suo sguardo, l’amore per i grandi cieli e gli orizzonti sfumati del deserto, per la luce cangiante come un inafferrabile miraggio, per la perfezione della sagoma di un purosangue fremente, a stento trattenuto da briglie sottili. Creatura schiva, sommessa – persino dimessa a volte, nel suo porsi sempre sullo sfondo – ma di acutissime percezioni, lady Anne è sempre avara di parole nei riguardi di se stessa: ma è proprio in questa rarefazione, in questo estremo negarsi che – proprio come avviene nel deserto – anche la traccia più sottile, una parola solitaria sfuggita suo malgrado e subito bloccata dal riserbo, un tocco appena di ironia, puntuale ma misuratissima, riescono a svelare una profondità densa di significati, di solitudine e di trattenuto, dignitoso dolore.

    Come renderle omaggio attribuendole un ruolo di primo piano, nonostante si presenti come figurina marginale non solo nella drammatica vicenda della sua famiglia d’origine - dalla fama diabolica di Byron, suo nonno, tenuta viva e palpitante dagli studiati silenzi di lady Byron, implacabile nemesi votata alla distruzione del poeta ma, nonostante tutto, amata nonna di Anne - alla tragedia di Ada, sua madre - genio della matematica e precorritrice dell’età del computer - fino al ruolo che l’egocentrico Wilfred le impose nel loro matrimonio?

    A lungo ho girato a vuoto, incastrando in modi diversi una serie di scenari dei quali l’uno implicava l’altro e nessuno poteva essere escluso se non pregiudicando la comprensione dell’insieme. Non riuscivo a scegliere, perché una scelta implica la rinuncia ad altre prospettive ugualmente possibili. Come si può prescindere dal passato, se si vuole capire il movente degli eventi? E come collocare un personaggio nello spirito del suo tempo senza che il nostro – ineludibile - condizioni le nostre scelte, quello che decidiamo di mettere in luce e quello che scegliamo di lasciare nell’ombra? Si vede davvero solo quello che già si conosce, si sente solo quello per cui abbiamo una chiave di accesso.

    Posso affermare di conoscere piuttosto bene lo scenario vittoriano che forma la cornice esterna, e forse anche interna, di questa storia. Ne conosco i sinistri bagliori imperiali, l’impronta impressa con violenza sui paesi sudditi, in particolare il mondo musulmano che, in modi diversi, stava allora emergendo alla cosiddetta modernità. Ma alla profondità dell’animo individuale di lady Anne riconosco di non poter avere un accesso che non sia arbitrario, cioè guidato da una mia identificazione nemmeno troppo inconscia, nonostante le frequenti citazioni delle sue stesse parole. La sua storia individuale diventa il catalizzatore dei grandi nomi che mossero la Storia del suo tempo, nel quale si trovano, evidentissime, le premesse per il nostro. Del resto, in questa struttura a scatole cinesi, la sola libertà che posso permettermi è scegliere con che cosa riempire il primo contenitore: il resto seguirà di conseguenza, e mi conforta il fatto che la distanza temporale dagli eventi mi concede un orizzonte più ampio per prospettiva, se non per certezze.

    Al Cairo, e soprattutto nel caotico quartiere che è diventato Ein Shams – un’oasi nel deserto al tempo di lady Anne – non ho trovato che labili tracce del suo mondo, e nella cattedrale anglicana di Alessandria mi sono imbattuta in una lapide che, in caratteri ormai sbiaditi, ricorda i nomi della manciata di soldati inglesi che morirono in Egitto durante la campagna e l’occupazione del 1882-1883, occupazione contro cui i Blunt lottarono con tutte le forze, ma di cui la Storia ha cancellato ormai l’importanza.

    Di fronte alle tessere di queste ormai antiche vicende – la cui dinamica è per certi versi ancora estremamente attuale – osservo, e il passato finisce per appartenermi assai più di questo presente smemorato in cui non posso, e non voglio, riconoscermi.

    Parte I

    Prefazione a una storia segreta

    L’Egitto è il paese più importante del mondo

    (Napoleone nel primo colloquio con il governatore di sant’Elena)

    Newbuildings Place, Sussex, Inghilterra, 1907

    Un quarto di secolo dopo, il ricordo del grande evento aveva ancora il potere di trasmettergli fremiti di collera e di passione. Era stato in quella circostanza che – travolto dalla scoperta del grande meccanismo che governa la storia - aveva spezzato i propri legami con la tribù dei costruttori di imperi. Con gli artigli ormai spuntati da una vecchiaia piena di malanni, etichettato – e così reso innocuo – dalla definizione tutto sommato benevola di eccentrico che si era guadagnato da quando aveva smesso di infastidire i potenti e di creare scandalo tra i benpensanti, William Scawen Blunt – alta e ossuta figura di patriarca biblico, avvolto in un ampio burnus beduino – poteva finalmente permettersi di rompere il silenzio, dando alla stampa la versione che la verità ufficiale aveva messo a tacere delle vicende di cui era stato attivo testimone. Intinse la penna nell’inchiostro, la estrasse facendo scorrere il pennino sul bordo del calamaio, lentamente, per eliminare l’eccesso di liquido vischioso e al contempo disciplinare le parole in una forma il più possibile fedele al mercuriale frammentarsi dei ricordi, delle immagini, della passione ancora viva. Poi, con un gesto deciso, concluse la prefazione al suo testo. C’è un limite alla reticenza cui sono tenuti uomini pubblici negli affari pubblici e confido che il mio silenzio lungo un quarto di secolo mi giustificherà se ora rendo conto della mia condotta nell’unico modo possibile per me, esponendo dettagliatamente la drammatica vicenda di intrighi finanziari e debolezza politica che scoprii in quelle circostanze e che documenti ancora in mio possesso possono provare. Se la suscettibilità di alcune persone importanti sarà toccata da un racconto troppo fedele ai fatti, posso dire che la mia necessità di parlare è la conseguenza della loro totale mancanza di sincerità e generosità nei miei riguardi. In tutti questi anni, nessuno di quelli che sapevano la verità ha detto una sola parola di giustificazione per me.

    Quella di Blunt era una soddisfazione tardiva più che una vendetta, dato che ormai la pubblicazione della sua Storia segreta dell’occupazione inglese dell’Egitto non avrebbe più creato scalpore. La versione scritta dai vincitori, infatti, era ormai accreditata da gran tempo e nessuno avrebbe avuto interesse a rimetterla in discussione. Del resto, quasi tutti i protagonisti di quegli epici giorni lontani erano usciti di scena, a cominciare da lord Cromer (1), il faraone che aveva retto l’Egitto con pugno di ferro dal 1883, quando il paese era stato occupato dagli inglesi. Li amministriamo tramite l’influenza del nostro carattere e senza usare la forza aveva scritto a suo tempo l’inflessibile governatore, dando per scontato che gli inglesi avessero una notevole capacità di conquistarsi la simpatia e la fiducia di qualsiasi razza primitiva con cui vengono a contatto. Blunt rabbrividiva ancora per l’ipocrisia e l’arroganza di questo atteggiamento. Eppure persino il faraone, al momento di lasciare l’Egitto nel 1906, alla fine del suo mandato, aveva tardivamente preso atto che nel 1881 c’era stato nel paese un movimento di riforma: nel suo ultimo resoconto annuale, aveva persino lodato Mohammed Abduh, il grande filosofo e patriota egiziano.

    Quante persone vicine ci sono di fatto lontane e quanti stranieri lontani ci sono vicini scrisse il sufi Bistami (2): e così era stato di fatto per Blunt. L’estraneità che aveva provato fra i suoi compatrioti al tempo degli eventi egiziani, era stata ampiamente compensata - allora e in seguito - dalla sintonia e dalla fiducia che aveva condiviso con Abduh. Era stato quando - in seguito alla nomina di Gran Mufti di al-Azhar (3) nel 1899 - il grande sheikh si era trasferito in una casa di campagna a nord del Cairo il cui giardino confinava con Sheikh Obeyd, la proprietà egiziana di Blunt, che – incontrandosi spesso da buoni vicini e vecchi amici - avevano avuto l’idea di raccontare in un libro le vicende che li avevano visti protagonisti, per far conoscere agli egiziani una parte così significativa della storia recente del loro paese. Da quel comune progetto erano però passati alcuni anni e nel frattempo anche il Gran Mufti era uscito di scena. La morte l’aveva colto ad Alessandria l’11 luglio 1905: per ironia, proprio nella ricorrenza del ventitreesimo anniversario del bombardamento inglese della città. Era per rendere omaggio all’amico che Blunt aveva deciso di mettere, sul frontespizio dell’opera che avevano elaborato insieme, una sua foto del tempo in cui l’aveva incontrato per la prima volta, che lo ritraeva con il turbante bianco e il caftano scuro degli studiosi di al-Azhar e il viso fiero dalla fronte ampia, la folta barba corvina e i grandi occhi scuri dallo sguardo penetrante. Negli ultimi anni, conversando con il vecchio sheikh, aveva avuto la sensazione che fossero rimasti i soli a pensare che le idee di libertà e umanità stessero velocemente scomparendo dal mondo: con quanta delusione avevano constatato che al Cairo persino nei giorni peggiori al tempo di Ismail c’era stata maggior libertà di pensiero e di parola!

    Conclusa la prefazione, Blunt depose la penna accanto al calamaio e, accingendosi a riordinare il fascio di fogli manoscritti pronti da consegnare all’editore, prese a sfogliarli uno ad uno, quasi fosse restio a congedarsi dalla propria opera e, al tempo stesso, da quel lontano periodo della sua vita.

    La passione nei riguardi della lotta degli egiziani per l’emancipazione nazionale – forse la più pura e intensa fra le numerosissime passioni che aveva vissuto – era nata gradualmente, emergendo dal suo crescente interesse per il mondo islamico, e gli parve inevitabile, dato che lady Anne, sua moglie, era la nipote di Byron e aveva naturalmente ereditato la simpatia per la causa della libertà nel Levante. Nel corso delle spedizioni a cavallo che avevano intrapreso insieme nel Medio Oriente, si erano trovati a sostare varie volte al Cairo, dove avevano spigolato – pur senza ancora collegarli in un disegno unitario - indizi e informazioni sulla situazione in cui si trovava il paese: una situazione che, per quanto difficile dal punto di vista economico, era però ricca di fermenti e di possibilità.

    Negli anni settanta del secolo diciannovesimo il Cairo – formalmente sotto il dominio del sultano ottomano ma in pratica indipendente sotto il governo dei discendenti di Mohammed Ali Pasha (4) - era una città cosmopolita e in espansione, collegata al Mediterraneo da un servizio regolare di treni già dal 1854, cioè prima ancora che paesi come Svezia e Giappone avessero iniziato a costruire binari. Il sistema educativo statale era di gran lunga migliore di quello della Russia zarista: il khedivè Ismail, sulle orme di suo nonno che aveva fatto grandi investimenti anche nel campo dell’istruzione, aprì cinquemila nuove scuole e sua moglie fondò nel 1873 la prima vera scuola elementare femminile del paese. La circolazione di idee sociali e politiche progressiste venne favorita da nuovi giornali, patrocinati - con il segreto scopo di avvalersene contro le ingerenze europee - dallo stesso khedivè, inconsapevole che questo strumento sarebbe ben presto diventato un’arma contro di lui. Durante il soggiorno cairota del 1876, i Blunt avevano visto uscire il primo numero del celebre quotidiano al-Ahram, pubblicato dai fratelli Tahla, cristiani siri che si guadagnarono così la fama di pionieri del giornalismo egiziano. Come altri intellettuali modernizzatori che portavano avanti la Nahdha, il rinascimento culturale nel mondo islamico, anche i Tahla erano stati costretti a lasciare la natia Beirut dopo esservi stati denunciati come darwinisti nientemeno che da missionari americani (5).

    In Egitto le prime importanti riforme erano state promulgate una ventina d’anni prima dal pascià Said che, colto e aperto alle idee occidentali, aveva dato avvio anche a grandi opere pubbliche, autorizzando fra l’altro nel 1856 de Lesseps ad intraprendere lo scavo del canale di Suez. Purtroppo però, per far fronte alle ingenti spese richieste da questa politica innovatrice e a quelle affrontate per aiutare la Turchia nella guerra di Crimea, nonostante il boom dell’industria cotoniera egiziana (6) Said fu indotto a ricorrere a prestiti, ottenuti sia tramite sottoscrizioni che presso capitalisti e banche inglesi. Il successore di Said, Ismail - che riuscì ad ottenere dalla Sublime Porta il titolo ereditario di khedivè - con l’ambizioso programma di riforme che a sua volta intraprese e la personale inclinazione allo sfarzo - fece costruire ferrovie, giardini, palazzi e un teatro dell’opera di tipo europeo sulla piazza dell’Ezbekiya, inaugurato nel 1869 con Rigoletto - aggravò ulteriormente il forte deficit finanziario che aveva ereditato dal suo predecessore (7). Nel 1869, l’inaugurazione del canale di Suez fu l’occasione per mostrare alla moltitudine di invitati che l’Egitto era un paese ormai modernizzato e il Cairo non aveva nulla da inviare alle celebri capitali europee.

    Nel corso di una precedente visita nel 1876, era capitato ai Blunt di partecipare al barbarico banchetto offerto da Ismail ai membri della Commissione inglese che aveva il compito di controllare i suoi conti. La scena, il padiglione del khedivè alle Piramidi, era stata accortamente predisposta per abbagliare gli ospiti stranieri con l’esotica, opulenta ospitalità orientale - cibi raffinatissimi, sete e broccati, luminarie e musica – coniugata con fiumi di occidentale champagne. Soltanto in seguito, conoscendo meglio le circostanze, Blunt avrebbe colto nell’incongruità di quello sfarzo, esibito sotto gli occhi di una moltitudine di fellahin (8) affamati, il presentimento dell’imminente rivoluzione.

    In quello stesso anno infatti, per reperire il denaro di cui - in un circolo vizioso inesorabile - era sempre più a corto, Ismail era stato accortamente invogliato a vendere all’Inghilterra le proprie azioni della Compagnia del Canale, sotto la personale responsabilità del primo ministro inglese Disraeli che – senza nemmeno consultare il Governo di sua Maestà perché il parlamento era temporaneamente chiuso – si accordò con i finanzieri Rothschild perché gli anticipassero i quattro milioni di sterline necessari per questa malaugurata transazione che, sei anni più tardi, sarebbe stata la causa determinante dell’intervento inglese .

    Come in tutto l’impero ottomano, anche in Egitto gli stranieri godevano di particolari privilegi grazie alle cosiddette Capitolazioni (9), un sistema che - rendendoli soggetti soltanto alla giurisdizione dei propri consoli e limitando di conseguenza la sovranità dello stato che li ospitava - era sempre stato accusato di permettere gravi abusi. Questa situazione si aggravò ulteriormente quando - oltre a tecnici, missionari e scienziati (10) – cominciarono a giungere in gran numero in Egitto anche avventurieri e speculatori che, attirati dai faraonici progetti di sviluppo di Ismail, cercavano investimenti ad alto interesse per i propri capitali. Grazie alle Capitolazioni, costoro venivano a trovarsi protetti dall’immunità anche quando non portavano a termine le opere pubbliche per cui erano stati ingaggiati, ritenendo più vantaggioso accusare di inadempienza il khedivè e così incassare enormi indennità.

    Pur facendosi sempre più difficile, la situazione non era però disperata e il paese avrebbe ancora potuto far fronte al suo debito e riprendersi lentamente. Al contrario, per le lungimiranti manovre delle potenze europee, finì per trovarsi sotto il loro completo controllo. Intanto, mentre quasi tutte le risorse egiziane venivano ipotecate a garanzia dei creditori stranieri, le pressanti richieste del paese per una revisione del sistema delle Capitolazioni trovarono - sia presso la Sublime Porta che, ovviamente, presso le potenze europee - una ferma resistenza, che si ammorbidì solo quando, essendo il deficit dell’Egitto divenuto pressochè irreparabile, le finanze del paese furono poste sotto il controllo congiunto di Francia ed Inghilterra, che si affrettarono ad imporre ad Ismail ministri ad esse favorevoli.

    Fu ad Aden, di ritorno da un viaggio in India, che i Blunt ebbero la notizia che il sultano aveva costretto il khedivè ad abdicare in favore del figlio primogenito, il principe Tewfik, e solo in seguito – grazie alle confidenze del suo amico Frank Lascelles, console generale presso l’Agenzia inglese ad Alessandria - Wilfred Blunt avrebbe appreso che la mossa del sultano faceva seguito a forti pressioni europee. Il destino di Ismail era stato segnato quando egli aveva sostituito Nubar - il primo ministro armeno filo-inglese – con Sherif Pasha, un turco europeizzato dai modi estremamente raffinati che gli aveva subito suggerito di ridurre gli interessi degli azionisti stranieri del Canale. A quel punto i potenti Rothschild, che erano in possesso di quote maggioritarie, si mossero presso i governi di Londra e Parigi per caldeggiarne l’intervento e, avendo incontrato una certa resistenza, si rivolsero a Bismarck, che lasciò intendere a Francia e Inghilterra di essere per parte sua pronto a prendere le difese degli azionisti del Canale. A questo punto le due potenze europee si rivolsero al sultano Abdulhamid, ritenendo che un suo intervento sarebbe stato il minore dei mali, e fu compito di Lascelles consegnare il telegramma con il sigillo ottomano ad Ismail, che in risposta si rifugiò a bordo del proprio yacht con tutto il denaro su cui riuscì a mettere le mani e prese il largo alla volta di Napoli, dove venne accolto dal re d’Italia.

    Dopo questo primo, superficiale contatto con la politica egiziana, la vera iniziazione di Wilfred Blunt avvenne nel 1880 quando, di ritorno dall’Arabia e indebolito da un forte attacco di malaria, fu costretto a trascorrere un periodo di convalescenza al Cairo. Fu allora che, desideroso di approfondire la cultura islamica, tramite uno studente di al-Azhar entrò in contatto con Mohammed Abduh e il suo ispiratore, Jamal ad-Din al-Afghani (11). Nato nei pressi di Kabul – dove è sepolto al centro dell’Università che le ultime guerre hanno devastato - al-Afghani era un’affascinante combinazione di studioso, mistico ed agitatore politico che credeva profondamente nella necessità di rinnovare il pensiero musulmano, liberandolo dalla decadenza in cui si trovava a causa della sterile imitazione del passato e rendendolo più aderente all’evoluzione dei tempi. Dimostrando con il Corano alla mano che l’islam poteva integrarsi con la scienza e con il pensiero razionale più di qualsiasi altra religione, al-Afghani divenne inviso agli ulema conservatori, e predicando la necessità di riforme costituzionali e di indipendenza nazionale dall’influsso straniero si inimicò – dall’Asia centrale al Nordafrica, dove si mosse conformemente ai propri ideali panislamici - sia i politici dispotici che le potenze straniere.

    Abduh - come altri giovani studiosi di al-Azhar - fu ispirato ed infiammato dallo spirito innovativo, dal coraggio e dagli ideali di al-Afghani, anche se in seguito si discostò da lui nelle modalità di attuazione della riforma politico-religiosa dell’islam che auspicavano entrambi. Nato da una famiglia di fellahim, Abduh non poteva condividere lo spirito rivoluzionario del suo maestro, essendo invece convinto che solo riforme progressive - unitamente a un programma educativo che, pur adattandosi alla civiltà occidentale, non abbandonasse i principi fondamentali dell’islam – avrebbero potuto emancipare l’Egitto sia dal dispotismo dei suoi sovrani che dal predominio straniero.

    Blunt era rimasto subito affascinato da queste idee, che mantenevano la loro carica appassionata nonostante il francese stentato in cui gliele traduceva il suo insegnante di arabo. In particolare era stato colpito dalla scoperta che anche Abduh e al-Afghani auspicavano, come lui, l’istituzione di un Califfato arabo alla Mecca in funzione anti-ottomana, e aveva espresso la sostanza dei primi scambi di opinioni con Abduh in un libro che, pubblicato con il titolo Il futuro dell’Islam proprio nel fatidico 1882, avrebbe contribuito all’allora nascente dibattito mediorientale sulla possibilità di una riforma politico-religiosa della religione del Profeta (12).

    Sheikh Obeyd, Egitto, 1907 - Il giardino egiziano

    Assorta, lady Anne osservò a lungo una fotografia, prima di sistemarla nell’album accanto a un’altra che - scattata quell’anno da Gertrude Bell – la ritraeva in sella alla sua bianca Fasiha, di lontano, nell’abbigliamento arabo che usava indossare in Egitto. La fotografia, inquietante, era invece quasi un primo piano: vi appariva seduta in posa eretta, quasi regale, in un’imponente poltrona-portantina di vimini. Nel volto minuto dal contorno non più netto solchi sottili di rughe circondavano come una fitta ragnatela le labbra, allungandosi ai lati del mento per tracciarvi due profonde trincee. Gli occhi malinconici fissavano direttamente l’obiettivo attraverso un paio di occhiali rotondi che non nascondevano occhiaie profonde. Un’ampia kuffiya, fermata da un doppio agal al modo arabo, le nascondeva i capelli avvolgendole il capo – che da anni copriva per nascondere i danni dell’erisipela, la malattia della pelle che la tormentava - e pure araba era la veste che, drappeggiandosi attorno al corpo minuto, ricadeva sullo sgabello imbottito dove appoggiava i piedi. Contrastavano con questo abbigliamento arabo le mani guantate, l’una che si aggrappava, o forse cingeva in posa graziosa una delle due sottili colonne di vimini che formavano la struttura della portantina, l’altra che impugnava un lungo bastone da passeggio. Su un tavolo – appoggiato contro un muro dall’intonaco grossolano, interrotto da un chiaro tendaggio ricamato – erano posati libri e fasci di carte. La luce si diffondeva intensa sulla superficie dell’immagine, ma il viso della donna le si sottraeva, restando parzialmente in ombra.

    Lady Anne osservava il proprio volto con una certa curiosità, quasi fosse il volto di una sconosciuta. Da qualche tempo si interessava alla fotografia: le piaceva ritrarre i suoi cavalli con l’equipaggiamento che aveva appena acquistato e anche se lamentava i limiti dell’apparecchio fotografico, che non le permetteva di riprenderli in movimento come avrebbe voluto, era comunque una novità rispetto ai disegni e agli acquerelli la cui esecuzione le veniva ormai tanto naturale quanto la redazione del diario quotidiano. Per questo nuovo interesse aveva accettato di farsi fotografare, mentre poco tempo prima, in Inghilterra, aveva respinto la richiesta di Neville Lytton, il pittore marito di sua figlia, che voleva ritrarla - non era più tempo di ritratti ormai, le rughe avevano inciso troppo in profondità il suo viso – e gli aveva invece suggerito di dipingerla con il volto quasi interamente nascosto dalla kuffiya. Le vesti arabe che amava indossare erano sempre state una grande risorsa per lei che non si era mai sentita bella e, anche nei tempi andati della giovinezza, non aveva mai cercato di competere con le bellezze alla moda che tanto intrigavano Wilfred. Al contrario, aveva spesso affermato - e non certo per vezzo - di essere insignificante, quasi a fare di questa affermazione uno scudo protettivo, un modo per ritagliarsi uno spazio sullo sfondo, lasciando ad altri – e soprattutto all’Altro, l’Amato - la scena.

    Davvero non avrebbe saputo dire se questo atteggiamento dimesso fosse stato assunto di necessità oppure per scelta, contraltare di una fierezza interiore che preferiva ritrarsi piuttosto che affrontare una probabile sconfitta. In ogni caso, queste analisi non avevano più nessuna importanza. A settant’anni, delle singolari vicende del proprio passato sembrava restarle soltanto un grande silenzio popolato di ombre evanescenti, per fortuna ormai quasi innocue.

    Il 1907 rappresentava uno spartiacque nella sua vita. Lontana da Wilfred e con la recente morte di Ralph, suo fratello, ogni legame con il passato sembrava reciso, anche se non dimenticava mai di segnare nel proprio diario le ricorrenze dei compleanni delle persone con cui aveva condiviso la propria vita, come per una solitaria cerimonia alla memoria. Dopo tutto, avrebbe forse potuto fare ancora in tempo a volgere il viso verso la luce e occupare la scena spiegandosi, imponendo anche la propria voce, la propria versione, ma l’ombra che, gentile, nascondeva in parte la decadenza del suo viso, le era ormai troppo familiare. Stava muovendo i primi, timidi passi dopo la grande tempesta. Per la prima volta, era riuscita a scegliere, e aveva appena cominciato a provarne sollievo. Adesso ogni gesto, ogni impegno, poteva seguire il ritmo che era proprio a lei soltanto: né una parola scortese dell’Amato né - ancor peggiore di quella - il suo ostile silenzio lo potevano più alterare. La corrispondenza con l’Inghilterra riguardo ai cavalli, i rapporti sociali, per quanto ridotti al minimo, la direzione di Sheikh Obeyd – che Wilfred le aveva appena venduto a un prezzo piuttosto elevato, nonostante fosse stato il denaro di Anne ad acquistare la proprietà – con il suo ampio frutteto-giardino e la scuderia di cui si occupava da sempre il fido Mutlak al Batal, le cavalcate quasi quotidiane nel deserto, con le emozioni sempre nuove che ancora le davano e di cui si sentiva immensamente grata, non le lasciavano molto tempo per la nostalgia. Molti anni prima, erano stati i beduini d’Arabia ad insegnarle a salire a cavallo senza staffa e a cavalcare senza morso e briglie, come era ancora in grado di fare a settant’anni. Quanto ai cavalli, continuavano a rappresentare un interesse primario per lei che sentiva come un dovere preservarne il più possibile di razze, tanto più ora che con l’aumento delle armi da fuoco in Arabia – dove ormai Mauser e Martini circolavano sempre di più – i purosangue locali venivano decimati nelle faide tribali, mentre in passato le lance scagliate contro i cavalieri raramente colpivano gli animali. Parlava spesso di questo, nello stretto dialetto dei beduini egiziani che era diventato per lei una seconda lingua, con Mutlak al quale doveva la vastissima rete di contatti tribali che era di fondamentale importanza per la verifica del pedigree dei purosangue. Mutlak era infatti depositario di una preziosa tradizione orale che – per quanto potesse sembrare incredibile - risaliva fino ai tempi preislamici in cui, in un’Arabia ricca di acque, ancora pascolavano le giraffe. A quel tempo si facevano infatti risalire al-khamsa – le cinque famiglie capostipiti di asil, i purosangue del deserto. Ma i kehilan, i cavalli più puri di tutti, le perle del deserto per cui le tribù d’Arabia avevano lottato fra loro, scatenato interminabili faide e stretto alleanze, erano stati creati addirittura all’alba del mondo, dono regale di Dio agli uomini, pegno del suo favore. Mutlak aveva raccontato a lady Anne che, presa una manciata di vento, Allah aveva detto: Io ti do la vita, ti plasmo dal vento, baio come l’oro brunito, con zoccoli neri e aguzzi come lance. Lego la fortuna alla tua nera criniera. Tu volerai senza ali, sarai la gloria dei miei seguaci, il terrore dei miei nemici. E bai erano infatti in maggioranza i cavalli del deserto, questo dono divino che Anne voleva preservare per il futuro, salvandolo dall’avidità e dalla vanità dell’uomo.

    Per lei i giorni avevano preso a scorrere fin troppo veloci, scivolando via dalle sue mani che avrebbero voluto trattenerli, come pesci dai colori cangianti. A volte, però, bastava un accenno colto in una lettera dall’Inghilterra o, come quel giorno, nelle parole forse maliziose di un visitatore - Mr. Blunt sta per pubblicare la Storia segreta dell’occupazione inglese dell’Egitto - e il passato, prepotente, riusciva ancora a bucare la cortina di quiete che la proteggeva a Sheikh Obeyd, il suo giardino egiziano. A ben guardare, Sheikh Obeyd e l’occupazione inglese dell’Egitto erano legati indissolubilmente. Quel luogo era infatti entrato nella sua vita un quarto di secolo prima, come una visione – pienamente condivisa con Wilfred - di albicocchi in fiore, mentre stavano partendo per una spedizione nel deserto siriano.

    Trasse un profondo respiro e, sistemata la fotografia nell’album, lo mise da parte. Si alzò, aprì la pesante porta che dava sul giardino e con passo ancora agile si diresse verso il palmeto dove le cavalle impastoiate e i puledrini trascorrevano la giornata. Le piaceva guardare i suoi cavalli, accarezzarne i mantelli lucenti, disegnarne le linee eleganti seguendole sul foglio con la matita. I cavalli riuscivano sempre a rasserenarla, certo molto più degli esseri umani. Ma quel giorno il passato continuava ad affacciarsi insistente alla memoria come un insetto molesto, evocando immagini e popolando il silenzio di voci concitate, di scoppi di collera che non le appartenevano. Wilfred stava per pubblicare un nuovo libro che raccontava una vecchia storia che forse non interessava più a nessuno: una storia iniziata nel 1881, della quale lady Anne conosceva ogni pagina.

    In quell’anno lontano, nel corso dell’estate e fino al tardo autunno – che i Blunt trascorrevano sempre in Inghilterra - si era impegnata con passione per eseguire un ritratto di Wilfred a grandezza naturale, bellissimo nelle vesti beduine che amava indossare e in sella al rampante Pharaoh, il magnifico

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