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Tieni a cuore il rumore
Tieni a cuore il rumore
Tieni a cuore il rumore
E-book182 pagine2 ore

Tieni a cuore il rumore

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Info su questo ebook

Non importa quanto lontano tu possa andare: alcune geografie sono state pensate proprio per raggiungerti, per ricordarti chi sei quando fuori è buio. Arianna è andata via da Rocca Felice e si è rifugiata a Roma perché aveva bisogno di scappare da tutto. In una città così grande credeva che nulla potesse scalfirla, che nessun amore potesse tornare a riprenderla, che alcuni sentimenti fossero stati per sempre sepolti. Ci vuole coraggio per lasciarsi tutto alle spalle e tornare a vivere, facendo finta che non manchi proprio nulla, che sia tutto a posto. Ma quando il passato torna a bussare alla porta, a volte non si può fare altro che lasciarlo entrare e ascoltare quello che ancora, dopo tanto tempo, ha da dire. E se tornare a casa rimettesse tutto in ordine?
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2021
ISBN9791220267557
Tieni a cuore il rumore

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    Anteprima del libro

    Tieni a cuore il rumore - Jole Lorenti

    amo.

    A braccia aperte

    Rocca Felice, aprile 2015

    Dovresti tornare a casa e non perché sono io a chiedertelo, ma perché, per troppo tempo, sei stata lontana da questo posto.

    Ti sei illusa, bambina, che il tempo ti avrebbe fatto dimenticare le strade di questo luogo, che il buio avrebbe oscurato il ricordo delle saracinesche abbassate già alle sette di sera, il tabacchino all’angolo dove compravi le sigarette a quindici anni sperando che io non me neaccorgessi.

    Ci sono cose che non ti ho detto perché avevo paura che la verità potesse scottarti.

    Adesso che sono sull’orlo della fine dei miei giorni, vorrei che pensassi, anche solo per un momento, a come sarebbe rimettere piede in questa casa.

    Con molta più speranza di quanta dovrei in realtà riporne, ti aspetto a braccia aperte.

    Tilde

    1

    Certe volte si parte convinti di non tornare mai più

    Non sai quante volte mi sono detta «non torno più»

    e alla fine ero sempre pronta a partire di nuovo, ad andare a casa.

    È vero che certi posti non ti lasciano il cuore neanche quando fai di tutto per cancellarli. Ci sono luoghi che ti rimangono dentro perché la loro geografia ti è rimasta scritta sui palmi delle mani e sotto la suola delle scarpe.

    Io non ero mai tornata indietro, i miei passi erano andati molto più lontani di quanto sarei mai stata capace di credere sei anni fa.

    Parti a diciotto anni che desideri mangiarti il mondo, torni a ventiquattro che non sai bene quanta strada tu abbia percorso, ma l’importante è averla fatta.

    Non sono mai tornata a Rocca Felice perché, di felice, per me, se non qualche scorcio lasciato un po’ qua e un po’ là, non aveva assolutamente niente.

    Ci avevo passato l’infanzia, altalenando tra la casa di mia nonna, cassaforte di tutti i miei giorni speciali, e i traslochi, puntuali nella mia vita quasi come se avessero qualcosa di biologico al loro interno, verso casa di mio padre.

    Mia madre era stata, per un lunghissimo tempo, la figura che avevo agognato più di tutte e quella che, poi, ero diventata brava a imitare.

    Proprio come lei, a un certo punto, ero andata via.

    Deve esserci qualcosa di meraviglioso nel far sparire le proprie tracce quando sei esausta del posto in cui ti trovi.

    Forse questa cosa, nel profondo, ci legava.

    Lei non era mai tornata indietro, non sapevo cosa avesse scelto di fare della sua vita, ma ero consapevole del fatto che non avesse perso un attimo nemmeno per salutare me.

    Speravo, comunque, che avesse compiuto qualcosa di eccezionale, giusto per consolarmi con l’illusione che il suo essere scappata non fosse stato un gesto privo di senso.

    Il tabacchino all’angolo era rimasto esattamente lo stesso che guardavo da diciassettenne, accanto c’era un piccolo fruttivendolo e un supermercato a fare da cornice.

    Rocca Felice contava poco più di quattromila abitanti, poche anime e troppi bisbigli che erano diventati, via via, molto ingombranti.

    Era una zona di confine, segnava il passaggio tra una regione e l’altra. Troppo distaccata dal centro per essere davvero al passo con ciò che si pensava fosse moderno e troppo vicina per evitare che le voci circolassero.

    Io ero la figlia di quella disgraziata che aveva abbandonato il marito. La povera sciagurata che aveva perso la testa.

    Me ne ero andata per non sentirle più, certe voci, per farle tacere per sempre, una volta per tutte.

    Nei miei sei anni lontani da qui avevo studiato e viaggiato, presa da me stessa mi ero tenuta ben lontana da qualsiasi sentimento scomodo.

    Roma aveva coccolato i miei sogni e si era presa il tempo di mio padre.

    Alla fine avevamo cominciato a vivere in due case separate, ma in vie vicine, anche se non c’incontravamo quasi mai. Sapevamo di stare bene, avevamo combattuto ognuno a modo proprio la stessa battaglia, ma eravamo, comunque, troppo simili per sapercelo dire.

    Io avevo il suo stesso viso e i suoi occhi grandi e verdi, ma le mani più piccole delle sue e, forse, anche il cuore.

    Quando mia madre è andata via, ci siamo presi i nostri spazi, ci siamo ricostruiti.

    Adesso lui aveva un nuovo amore, era riuscito a lasciare andare il passato, io no.

    Nonostante avessimo un carattere simile, su quello non eravamo stati in grado di combaciare, ma questo era un bene. Avevo ricevuto la breve lettera di Tilde qualche mese prima, ma non ero accorsa subito come credeva. Sapevo che stesse meglio di quanto avesse scritto.

    Agosto era alle porte e io mi rifugiavo qui, su un vecchio colle, piuttosto che correre al mare, con la sabbia che tanto mi piaceva a scottarmi i piedi.

    Non capivo l’urgenza dell’essere in quella che non era più casa mia da un periodo eccessivamente lungo e quindi avevo temporeggiato fino allo stremo. Proprio fino a quando, qualche giorno prima, quella lettera non era scivolata giù dalla borsa di lavoro con una naturalezza tale da spaventarmi. Era stata lì e io me n’ero dimenticata.

    Il vizio del fumo non mi era passato, così, appena scesa dall’auto, mi ero diretta verso il bar vicino, pronta ad abbandonare tutte le mie ansie.

    Avevo un macigno ad attanagliarmi lo stomaco e non sapevo neanche perché, cosa dovessi aspettarmi, ma mi ripetevo comunque che sarei partita da lì a un paio di giorni, che non dovevo preoccuparmi.

    «Un pacchetto di Merit blu, per favore.»

    «Prego, altro?»

    Frugai nella borsa alla ricerca di un accendino che, però, non era lì, o comunque non voleva farsi trovare, quasi come me. «Sì» dissi con voce sommessa «anche un accendino, il mio non so dove si sia ficcato».

    L’uomo dietro al bancone mi diede le spalle e trafficò davanti a sé fin quando non mi porse un accendino rosso lucido, uno di quelli semplici con la sola scritta Bic davanti.

    Aveva azzeccato il mio colore preferito, quindi immaginavo che andasse bene così.

    «Quanto le devo?»

    Passarono un paio di secondi senza risposta, sollevai lo sguardo.

    «Arianna…»

    «Sì?»

    «Arianna!»

    Stavolta aveva tutta l’aria di uno che mi aveva appena riconosciuta, come se gli avessero rovesciato sulla faccia un secchio pieno d’acqua e lui fosse riemerso. Io ci misi qualche minuto di più.

    Aveva superato senza molti complimenti, e senza che me ne rendessi conto, il bancone e, raggiungendomi, mi aveva abbracciata.

    Solo in quel momento avevo capito.

    Mi ero ritrovata tutt’intera in un abbraccio scomposto dall’emozione, ma l’avevo riconosciuto anche io.

    Sapeva ancora di buono, di un odore tutto suo, quel misto tra menta e sigaretta appena spenta che mi faceva impazzire da ragazzina. Ci sono profumi che non dimentichi mai, i solchi di alcune mani che ti attraversano appena ti sfiorano e ti riportano indietro, quasi come se ti dessero una sberla o ti tirassero dalla camicia.

    Giacomo mi aveva stretta forte forte tra le sue braccia enormi, mi sentivo una palla di cotone immersa in una nuvola più grande.

    «Sei tornata senza dire niente!» aveva esclamato prendendomi il volto tra le mani «E io che pensavo di non vederti mai più, che sarei diventato un vecchio buono a niente e che non saresti passata ancora a trovarmi!»

    Risi di gusto «Hai soltanto sessant’anni, sei un giovanotto!» «Ti sei dimenticata gli ultimi sei, ovviamente.»

    Tirai un sospiro più colpevole che mai. «Cosa ti porta qui?»

    Bastò un solo nome per spiegare tutto. «Tilde.»

    2

    La luce ancora accesa

    Sono tornata a casa, ho respirato di nuovo, ho ripreso a muovermi.

    Il cielo aveva lo stesso colore, io ero ancora io.

    Era ancora come Tilde mi aveva scritto in quel biglietto con una grafia a malapena abbozzata, dondolante e non troppo sicura di se stessa.

    Dopo il breve incontro con Giacomo lo stomaco si era tranquillizzato un po’, mi aveva lasciato qualche attimo di tregua, fin quando non giunsi di fronte al portone verde mela che affacciava da una parte sulla strada e dall’altra sul cortile. Non sapevo spiegare cosa sentissi, era come se mi avessero mangiata e vomitata tutta d’un colpo, come se qualcuno si fosse divertito a prendermi e mettermi, senza il mio consenso, sulle montagne russe e mi avesse fatto fare un numero infinito di giri consecutivi.

    Spintonai le gambe fino al portone, strascicai i piedi e mi allungai a prendere la chiave che era rimasta, dopo anni, sempre al solito posto: poco sopra la cabina dei contatori di tutto il palazzo, se si muovevano di tre centimetri dopo l’inizio le dita, si trovavano, in mezzo a quel cumolo di polvere, anche le chiavi per entrare.

    Sorrisi e mi sorpresi di come certe cose sapessero non cambiare, di come, nonostante il tempo, anche solo un dettaglio trovasse la forza di rimanere uguale a se stesso.

    Mi accolse il muro scrostato, ma non ci feci molto caso, salii gli scalini a due a due fin quando non mi trovai di fronte alla porta che tanto avevo evitato fino ad allora.

    Il campanello strillò come se fosse impazzito.

    «Chi è?» la voce era arrivata ovattata, persa in qualche altra stanza. Non mi affrettai a rispondere, premetti di nuovo il dito contro il pulsante ingiallito e attesi.

    «Arrivo, arrivo! Ma cu n’è con tanta fretta oggi?»

    Sentivo il suo accento da tipica donna siciliana immettersi con forza in tutte le sue frasi, nonostante avesse lasciato casa sua da ormai moltissimi anni.

    D’un tratto la vidi ferma davanti a me, impalata con uno strofinaccio a metà tra le spalle e le mani, mezzo disteso sul suo corpo e mezzo frizionato senza sosta dalle dita. Ci mancava poco che le cadesse a terra.

    «Ciao, Tilde»

    «Bambina mia!» e mi prese con tutta la forza che doveva avere in quelle braccia che avevano scavato la terra sin da ragazzina, mi strinse fino a farmi mancare l’aria.

    Tilde non era cambiata tanto dall’ultima volta in cui l’avevo vista, solo i capelli erano andati ancora di più a ingrigirsi, ma li portava come al solito.

    Gli occhi verdi le corniciavano il viso un po’ paffuto, le gote rimaste rosate nonostante l’età che via via aumentava, su quel corpo basso e pieno delle forme di una donna che aveva vissuto a pieno.

    Da bambina amavo guardarla farsi la treccia, ci metteva una dedizione tale da farmi perdere tra quegli incroci di dita e di fili sottili, fino quasi a scomparire. E poi erano lunghissimi, mi sembrava che non finissero mai.

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