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Vajont, l'onda lunga: Cinquant'anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica
Vajont, l'onda lunga: Cinquant'anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica
Vajont, l'onda lunga: Cinquant'anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica
E-book295 pagine4 ore

Vajont, l'onda lunga: Cinquant'anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica

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Info su questo ebook

Dell’onda alta duecento metri che la sera del 9 ottobre 1963 si abbatté su Longarone, Erto e Casso, Castellavazzo e altri Comuni fra Veneto e Friuli, abbiamo modo di sapere quasi tutto: che quello del Vajont fu un eccidio annunciato; che lo Stato e l’ENEL si resero colpevoli della morte di duemila persone. Lucia Vastano prende le mosse da quella notte, dove lo spettacolo di Marco Paolini e il film di Renzo Martinelli si sono fermati, e in questo libro racconta cosa ne è stato delle tante persone che l’onda non uccise, ma sconvolse per sempre, decimandone le famiglie, distruggendone le ragioni di vita, le tradizioni, i pochi beni; racconta della loro rabbia e del loro dolore, della speranza di giustizia continuamente delusa; racconta le indecenti trame che grandi potentati industriali come piccole cricche di malaffare hanno ordito alle loro spalle, gestendo i colossali finanziamenti per la ricostruzione; racconta le complicità della politica locale e nazionale; racconta le truffe ai danni della povera gente, indotta con minacce o l’inganno a firmare tregue con l’ENEL in cambio di pochi spiccioli; racconta degli attentati continui alla sensibilità dei sopravvissuti e alla corretta memoria storica della tragedia. Una tragedia che non è mai finita, una tragedia che è l’emblema di tutte le tragedie ecologiche e industriali, causate dall’avidità e dalla cecità dell’uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita5 nov 2013
ISBN9788898475810
Vajont, l'onda lunga: Cinquant'anni di truffe e soprusi contro chi sopravvisse alla notte più crudele della Repubblica
Autore

Lucia Vastano

Lucia Vastano è giornalista professionista dal 1982, collabora con testate italiane e statunitensi. Come inviata o su incarico, ha seguito le guerre in Libano, Angola, Salvador, Cambogia, nel golfo e in Iraq, nei Balcani, in Albania, Afghanistan e Kashmir. È autrice di reportage da vari Paesi africani, dalla Cina, dall’India, dagli stati islamici dell’Asia Centrale e dall’America. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui, nel 2005, il prestigioso Premio Saint Vincent, e il premio UNESCO 2003 «Comunicare i diritti umani» riservato agli inviati di guerra. Per Salani ha pubblicato "Tutta un’altra musica in casa Buz" (2005), vincitore di diversi premi letterari, "Un cammelliere a Manhattan" (2008) e il più recente "La magnifica felicità imperfetta" (2013).

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    Anteprima del libro

    Vajont, l'onda lunga - Lucia Vastano

    Prefazione

    di Paolo Cacciari

    Lucia Vastano apre questo suo libro chiedendo al lettore se si ricorda dov’era quando si diffuse la notizia. Io sono abbastanza vecchio da ricordarmelo bene: la mattina del 10 stavo andando a scuola, erano i primi giorni della prima liceo. In campo dell’Accademia gente sgomenta era ferma in piccoli crocchi, la radio e molti passaparola davano la dimensione della catastrofe. La valle del Piave la conoscevo bene. Le mie vacanze estive le passavo poco più sopra, a Caralte. La fermata del trenino successiva a Longarone, Perarolo, per poi proseguire con una giardinetta di legno che ci veniva a prendere. Parecchi anni dopo sono andato a fare praticantato nella redazione regionale del giornale di Tina Merlin, L’Unità. Posso quindi dire di aver visto da vicino le due tragedie di cui parla Vastano: quella dell’evento micidiale, gigantesco, istantaneo e quella lenta, sfibrante, umiliante della rimozione, dell’indifferenza, dell’abbandono.

    Ma i nostri figli, tutti coloro che sono venuti dopo, cosa sanno e, soprattutto, cosa hanno capito del Vajont? Lavorare sulle memorie, quindi, per riacquisire una memoria collettiva è una sorta di dovere morale che abbiamo nei confronti delle vittime innocenti.

    Paolini e Martinelli hanno rifatto vivere la vicenda nella sua dimensione apocalittica e criminale. Questo libroinchiesta restituisce la parola alle vittime: i morti e i sopravvissuti. L’umanità ferita, traumatizzata, umiliata. Un filo nero che trapassa i cuori e che rimane per sempre. Gli stati d’animo, i traumi, le patologie dei sopravvissuti sono gli stessi dei reduci delle guerre, dei deportati dei campi di sterminio, così come ce li ha descritti Primo Levi. Ferite invisibili. Silenzi che durano una vita. L’indicibile che non può essere raccontato nemmeno ai propri figli. «Il Vajont si è mangiato le menti». Sensi di colpa e rimpianti. Perché mi sono salvato proprio io? «Era meglio se morivamo tutti». «Mal di vivere», «rancore» e «rabbia», sono le parole che il lettore troverà ricorrenti nelle testimonianze pazientemente raccolte dall’autrice.

    La strage del Vajont è anche peggio. Qui non ci sono stati preavvisi, mobilitazioni, dichiarazioni esplicite di guerra. Anzi, fino all’ultimo esperti e autorità pubbliche hanno sempre negato ogni pericolo: «Dormite tranquilli» disse l’ingegnere alla centralinista pochi minuti prima che venisse giù il Toc. Così, dopo non ci sono state fanfare, telecamere, attestati d’eroismo. Qui nessuno è morto perglorificare niente. Il funzionario del Quirinale comunicherà dispiaciuto alla delegazione dei Cittadini per la memoria del Vajont che nei protocolli dello Stato non sono previste medaglie per gli «sfortunati». Nemmeno le scuse. Il Vajont è una questione privata. Come lo è un incidente stradale – dirà spudoratamente in televisione un noto ministro dell’Ambiente. L’unica verità ammessa è quella dei tribunali, così come potrà emergere dal solito scontro asimmetrico tra una manciata di povera gente distrutta dal dolore e il colosso energetico nazionale (prima SADE poi ENEL), che può avvalersi di avvocati come un ex presidente del consiglio dei ministri, nonché futuro presidente della Repubblica (Giovanni Leone), che può esercitare pressioni censorie sulla RAI, che ha i mezzi economici per imporre transazioni tali da far uscire dal processo penale molte vittime e così via.

    Rimozione, insabbiamento, oblio. Da quel maledetto giorno, per quarantacinque anni. L’Italia ha la testa nel boom economico dei gloriosi anni Sessanta, ha nel volto il sorriso degli spot di Carosello, deve produrre e svilupparsi. Ieri come oggi, non può rallentare gli indici di crescita produttiva, attardarsi nelle analisi di rischio e di compatibilità ambientali, ascoltare i suoi abitanti, risparmiare la memoria dei luoghi più sacri dagli insediamenti urbani. Così come è avvenuto per il nuovo salumificio sulla frana, a Erto, e giù sulla spianata nel greto del Piave, dove è sorta la megazona industriale di Longarone, la Fiera e presto l’autostrada. È la shock economy, come ci spiega bene Naomi Klein: le catastrofi diventano meravigliose opportunità per fare business. «Con i soldi dei nostri morti», dice Nives, la sindacalista. La dichiarazione di Gino (perse padre, madre e parenti tutti, a otto anni) spiega ogni cosa: «In fondo le logiche che permisero quella strage sono le stesse di ora».

    È esagerato, allora, dire che siamo tutti colpevoli? Che c’è una corresponsabilità sociale, una violenza strutturale nei disastri civili che legano il Vajont a Seveso (10 luglio 1976), alla Stava (19 luglio 1985), alla Moby Prince (10 aprile 1991), ai morti dell’amianto, del cloruro di vinile monomero di Marghera, della Thyssen Krupp, alle quotidiane morti sul lavoro? Per questo la loro memoria è un fatto collettivo, che riguarda ciascuno di noi. Istituire una Giornata della memoria dedicata alle vittime dei disastri civili e industriali – quelli per intendersi che hanno origine negli appetiti predatori e nella bramosia del profitto – potrebbe essere un piccolo risarcimento morale e una buona occasione di riflessione pubblica, istituzionale.

    Lucia Vastano racconta una storia di vinti, da mettere vicino a quelle scritte da Nuto Revelli. E, come quelle, a permanente monito contro i soprusi, l’arroganza, la violenza del potere.

    PAOLO CACCIARI

    Dolo, 8 aprile 2008

    VAJONT, L’ONDA LUNGA

    A tutti i familiari delle vittime del Vajont

    e delle altre stragi a opera dell’uomo,

    affinché non venga mai più chiesto loro

    di diventare eroi per avere giustizia

    Introduzione

    Dove eravamo prima e dopo il Vajont?

    «Dov’eri l’11 settembre 2001 quando crollavano le torri di New York? Come lo hai saputo?» Da anni in tutto il mondo non è raro sentirsi fare queste domande. Tutti noi ce lo ricordiamo bene dov’eravamo e cosa stavamo facendo mentre la gente scappava dal cuore finanziario di Manhattan o disperata chiedeva un impossibile aiuto sventolando un fazzoletto da una finestra di uno dei due grattacieli feriti.

    «Eri già nato? Dov’eri il 9 ottobre 1963? Come hai saputo della tragedia del Vajont e di quei poveri 1910 morti?».

    Io me lo ricordo bene quando e come ho saputo. Era la mattina dopo della tragedia e andavo alla Montessori di Milano. Riunirono tutte le classi, dall’asilo alla quinta elementare, nella sala delle recite e ci raccontarono di quella valanga d’acqua che era piovuta su Longarone e altri paesi e aveva spazzato via tutto, anche la vita di molti bambini come noi.

    Non ricordo bene cosa capii di quello che era successo, ma forse ancora bene non lo avevano capito neanche gli adulti. Ricordo solo che chiesi alle «signorine» (così chiamavamo le maestre): «Ma ce l’abbiamo anche noi a Milano una diga come quella del Vajont?» Loro mi risposero di no e tutti noi bambini tirammo un sospiro di sollievo.

    Ve lo ricordate voi il Vajont? Il Vajont della «strage di Stato», così come lo hanno raccontato Marco Paolini nella sua orazione funebre (Il racconto del Vajont, 1997), tre ore e mezzo di monologo trasmesse dalla RAI, e Renzo Martinelli nel film Vajont (2001) con tanto di effetti speciali? Probabilmente molti risponderanno di sì. Oggi si sa che quella fu una strage annunciata e che chi ne aveva il potere e il dovere, non fece nulla per impedirla.

    Ma il Vajont che vi voglio raccontare non riguarda quello che portò alla spaventosa notte di quarantacinque anni fa: l’avidità umana, l’imperizia, la criminale leggerezza con la quale vennero ignorati gli inequivocabili avvertimenti lanciati per anni dalla natura violentata dagli uomini. Quella diga, oramai si sa, non andava costruita e quello che successe non fu un disastro naturale, ma un freddo calcolo premeditato, una roulette russa giocata sulla pelle degli altri. Ma neanche questa è la nostrastoria.

    Il Vajont che vi voglio raccontare parte da quella notte di luna piena in cui la vita di molti finì e quella di altri rimase sfregiata per sempre, e continua fino a oggi, anno del Signore 2008. Questa è la storia mai raccontata, finita sotto silenzio stampa, del dopo Vajont. E di come anche noi che ci ricordiamo dove eravamo quel tragico «11 settembre» della storia italiana, ci siamo dimenticati di chiederci: come è andata a finire? Che ne è stato di quei bambini che furono tirati fuori dal fango o di quei poveri emigranti che tornarono dalla Germania per cercare i corpi dei familiari trascinati via dall’acqua? Hanno avuto giustizia?

    Troppe volte capita così: la nostra attenzione scappa altrove, dietro altra attualità, e lascia sole le vittime a combattere per una giustizia che è in realtà un prezioso patrimonio di tutta la collettività.

    Non abbiamo mai sentito le loro voci. Molti di loro ancora non vogliono parlare di tutto ciò che è legato a quella notte e di tutto quello che li ha travolti dopo impedendogli di dimenticare. Come una giovane donna che stava allattando il suo bambino quando è stata sbalzata fuori dalla finestra di casa per lo spostamento d’aria che ha preceduto l’onda. Si svegliò con le mani immerse nel cervello ancora caldo di un uomo. Il suo bimbo non è mai stato ritrovato.

    Non ha più parlato di tutto quello che riguardava quella notte nemmeno Vincenzo Teza, che a vent’anni ha dovuto ricomporre i corpi martoriati del padre, della madre, della nonna, di tre fratelli e una sorellina. Da allora non dorme che tre ore per notte.

    «Il dopo Vajont è stato ancora peggio della tragedia, perfino più scandaloso e doloroso per tutti noi superstiti» si sfogano in molti. La nostra storia può cominciare così: il dopo Vajont per loro, i superstiti, è stato ancora peggio della tragedia.

    Me ne accorgo la notte tra l’8 e il 9 ottobre 2001. La proiezione dell’anteprima del film Vajont di Martinelli è appena terminata. Sullo schermo, allestito in un suggestivo quanto inquietante scenario, sulla frana ai piedi della diga, scorrono i titoli di coda. Gli spettatori, giornalisti, abitanti del luogo, autorità, si arrampicano sulla traballante rampa di scale per raggiungere il tendone nel quale si terrà la conferenza stampa. Chicco Testa, in rappresentanza dell’ENEL, saluta il regista, gli attori presenti, si complimenta con loro per la ricostruzione fatta. Poi se ne va, chiamato ad altri impegni, altrove.

    «Loro» notano subito questa «fuga». «È successo ancora» mi diranno più tardi molti dei superstiti. «Arrivano le autorità, si coprono il capo di cenere, si commuovono. Parlano con altre autorità, con quelli che contano, ma che magari allora non erano neanche nati. E poi se ne vanno senza nemmeno guardare noi, noi che il Vajont ce l’abbiamo marchiato sulla carne. È da quarant’anni che attendiamo che qualcuno ci venga a chiedere perlomeno scusa, che ci porti una parola di solidarietà. Ma niente. Il potere porta la sua solidarietà ad altri poteri, non alla gente che non conta. Noi superstiti non ci siamo mai sentiti chiedere scusa da nessuno. Nessuno dell’ENEL o dello Stato è mai venuto qui, ha guardato qualcuno di noi dritto negli occhi e ci ha offerto quella parola che attendiamo da anni, soprattutto per stare più in pace con noi stessi. Perché fino a quando nessuno lo farà, noi saremo qui a invocare giustizia per i nostri morti».

    È tardi. Su alla diga fa freddo e per riscaldare i presenti viene offerto tè, caffè e vin brulé. Il tendone della conferenza stampa, fortemente voluta dai superstiti, si riempie. Sul palco si accomodano quelli della produzione e qualche testimone della tragedia reale che ha trovato il coraggio di esserci.

    Comincia la conferenza stampa. Qualche dato tecnico sugli effetti speciali, qualche nota sui costi di produzione. Ma, come dice il regista, la serata è dedicata a loro. A quelli che non ci sono più e ai loro cari che portano ancora nell’anima profonde cicatrici mai rimarginate. Si parla poco del film e niente del processo. Qui tutti danno per scontato che i giornalisti presenti sappiano già bene come sono andate le cose. I superstiti raccontano storie del tutto inedite.

    È come se qualcuno avesse tolto il tappo a una bottiglia di champagne agitata da tempo. Chi prende il microfono non vorrebbe più lasciarlo. Alcuni superstiti che hanno perso diversi parenti e sono stati liquidati con quattro soldi dallo Stato, denunciano donazioni mai arrivate a destinazione, finanziamenti miliardari piovuti (e che continuano a piovere) su aziende che non erano state coinvolte dalla tragedia, storie di bimbi rimasti orfani truffati dai genitori adottivi a cui erano stati affidati con leggerezza dai giudici. I superstiti denunciano che per seicento vittime non è stata versata una lira di risarcimento grazie a cavilli legali. Qualcuno chiede, quasi piangendo, che si faccia qualcosa per ritrovare il corpo di sua sorella e degli altri dispersi. Chiede perché non si sia mai fatto nemmeno un tentativo per recuperarli. Altri ancora parlano del disinfettante canceroso buttato a sacchi sui cadaveri decomposti e si domandano se abbia qualcosa a che fare con le numerose morti per tumore tra i giovani superstiti e ora tra i loro figli. Qualcuno ricorda le casseforti delle banche misteriosamente mai ritrovate da una ditta a cui era stato dato il compito del recupero, e le polizze assicurative e le pensioni dei morti mai pagate agli eredi perché mancava la documentazione.

    Noi giornalisti presenti rimaniamo a bocca aperta. Il Vajont non è la storia di un passato lontano, si trascina ancora oggi, tra carte bollate, denunce, progetti di ristrutturazione urbana, complessi industriali che nascono e che muoiono con soldi che ancora riportano ai morti e alla distruzione di allora. Il tutto nella totale indifferenza della stampa.

    «Sui superstiti sono state scritte solo bugie» dice Carolina Teza, una donna generosa e combattiva, che diventerà un’amica. «Nessun giornalista è mai venuto da noi a farsi raccontare come sono andate le cose in questi anni. Nessun giornalista ha vigilato affinché i morti e i vivi avessero giustizia. II silenzio ha fatto e fa comodo a molti, tutti quelli che con il Vajont si sono arricchiti o hanno fatto carriera. Peccato sia tutta gente che nemmeno abitava qui, tutta gente che non ha perso niente. Abbiamo dovuto aspettare quarant’anni e un film perché la stampa nazionale si rifacesse vedere da queste parti».

    Mi avvicino a Carolina. «Io non ho alcuna fiducia in voi giornalisti. Non ho stima nella stampa». È questa l’accoglienza che mi riserva. All’apparenza è una signora tranquilla, una giovane nonna attiva e sempre presa dagli impegni familiari. Nonostante l’ora, nonostante la sfiducia, si siede a un tavolo e accetta di parlare con me, di raccontarmi il suo Vajont. Devo confessare: capisco poco di quello che dice. Anzi, forse capisco troppo. C’è troppa carne al fuoco. Mi rendo conto che sarà complicato venirne fuori. Ma qualcosa scatta dentro di me. E così faccio una promessa personale. «Non vi mollo», dico. E mentre lo faccio, non mi rendo conto che questa mia promessa ne implica un’altra, da parte loro. «Non ti molliamo». Dal «lei» si passa al «tu». Dalla lontananza si passa alla vicinanza, all’impegno reciproco. Poi sarà affetto. E poi, dopo una lunga cavalcata insieme, ci sarà la stima reciproca.

    Non so ancora, mentre faccio la promessa, se un giornale vorrà pubblicare questa storia. Per non partire con il piede sbagliato, lo dico subito. Quello che ho in mente non è un articolo di quattro o cinquemila battute. Questa è una storia che merita parole, tante parole come il riscatto offerto da Paolini alla tragedia annunciata. Anche il «dopo» è un racconto che va fatto. Un atto dovuto alle altre vittime del Vajont. Non quelli che sono morti, ma quelli che i morti hanno dovuto seppellirli e hanno vissuto sulla propria pelle quarant’anni di sfregio alla loro dignità.

    È una storia difficile da capire la loro, perché a tratti corre indietro nel tempo, a tratti si confonde con l’attualità. È difficile anche perché questa gente è difficile da capire. Sono «montanari» e, come mi ha detto Luciano Pezzin, sindaco di Erto e Casso: «A noi o piaci subito, o hai chiuso per sempre».

    Non è facile ascoltarli, diffidenti come sono. Ma poi se a loro «piaci», se riesci a conquistare la loro fiducia, te li ritrovi capaci di parlarti ininterrottamente per ore. E anche questo è un problema, perché nelle loro parole si può anche annegare. Litigano, piangono, si commuovono. Non tutti la pensano allo stesso modo. Anzi di quello che è successo dopo il 9 ottobre 1963 ognuno ha la sua versione dei fatti. In serate o pomeriggi interi passati con loro a volte, ho capito solo una cosa: che sulle loro ferite, imputridite da anni, ancora viene sparso del sale.

    Il sale sulle ferite. Penso che questo potrebbe essere il titolo del libro. Ma la strada è ancora lunga, siamo solo all’introduzione. Ci sono ancora mille titoli nascosti.

    Torno a casa da Longarone. Scrivo il pezzo sul film di Martinelli. Poi metto da parte la diga e la sua gente. «Non li mollo», ma ci sono altre priorità. A un mese dal crollo delle Twin Tower ho altre priorità. C’è l’Afghanistan, la guerra. Ero stata tra gli ultimi giornalisti a lasciare l’Afghanistan dei talebani prima dell’11 settembre e ora aspetto il momento giusto per tornare a Kabul.

    Narcomafie, il mensile del gruppo Abele di Don Luigi Ciotti, mi commissiona il dossier sul dopo Vajont, ma ci vuole pazienza. Tornerò a Longarone dopo Kabul e dopo il Kashmir indiano nel quale mi recherò direttamente, via terra, per coprire un’altra guerra. Una guerra dimenticata che non interessa la televisione, ma che esiste lo stesso perché non è vero che è reale solo quello che entra in quella maledetta scatola. Sarebbe bello, ma non è così, che al mondo tutto andasse bene dove non arrivano i giornalisti

    RAI o della CNN o di Mediaset. A raccontare il dopo Vajont non è arrivata mai la RAI, se non per offrire assaggi di episodi di cronaca più o meno folcloristici. Ma la «guerra del Vajont» non è stata coperta da nessuno.

    Mentre penso all’Afghanistan, a organizzare il viaggio e il lavoro, la gente del Vajont «non mi molla». Cominciamo una fitta comunicazione telefonica. Varie telefonate al giorno. Anche di ore. A volte qualcuno di loro mi sveglia alle sette del sabato mattina.

    Se una foglia cade, dalle parti della diga, qualcuno sente il bisogno di farmelo sapere. In tempo reale. Io chiedo. Voglio, oltre alle parole, libri, documenti, sentenze. E loro, pazientemente, mi accontentano. Carolina mi manda pagine e pagine fotocopiate e così Fabiano Filippin, un giovane collega che fa il giornalista mentre studia per diventare avvocato. Leggo, studio. E poi ancora chiedo e parlo con la gente di lassù.

    Finché salgo sul C130 che parte da Pratica di Mare, destinazione Kabul.

    In mano, per passare il tempo su quell’aereo fatto per portare militari in guerra e non turisti in vacanza, su quell’aereo in cui il rumore assordante non permette di comunicare, rileggo i miei appunti su cui ho annotato la storia della diga. La Storia da cui tutto è cominciato.

    Capitolo primo

    L’orgoglio di un popolo intero

    L’onda della morte. Una catastrofe inimmaginabile. Cadaveri dappertutto, ma molti non avranno mai sepoltura. Il disastro si è svolto in pochi minuti: una valanga liquida è scesa fulminea dalla diga per la frana di un intero costone del monte Tocc [sic]. Decine di milioni di metri cubi d’acqua e fango caduti a valle in una ciclopica ondata. Scomparsi sette stabilimenti industriali, di cui uno della cartiera di Verona con novanta operai. Trovate finora quattrocento salme.

    Corriere della Sera, 11 ottobre 1963

    La storia della costruzione della diga del Vajont parte da molto lontano. Parte proprio dall’inizio della storia contemporanea dell’Italia, quella che può, per poco ancora, contare su qualche testimone vivente: i nostri padri o nonni o persino i bisnonni dei nostri figli.

    È una storia così completa, in tutte le sue perverse sfaccettature che se analizzata con attenzione, ci permette di capire come è nata quella brutta abitudine italiana di confondere le ambizioni e gli interessi pubblici con quelli privati. Ci permette anche di capire come si siano consolidate invece di dissolversi, persino con l’avvento del sistema democratico, le inossidabili «caste» italiane: quella politica, quella della grande imprenditoria e della finanza, quella religiosa, e anche quella mediatica, al servizio o semplicemente soffocata da tutte le altre.

    Le «caste» nell’erigere la diga del Vajont si diedero una mano a vicenda, fecero affari tra loro, esclusero la gente da qualsiasi dialogo o discussione. Non vollero in alcun mo do essere annoiate mentre erano occupate nella realizzazione dei loro progetti. È con il Vajont che avrebbe dovuto essere coniata la parola «inciucio».

    Fu l’Italia dei padroni, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, a scrivere la storia del Vajont sulla pelle di quasi duemila italiani morti e delle loro famiglie. E poi questi stessi padroni fecero quadrato per proteggersi a vicenda e per erigere quel muro di gomma, resistente quanto la diga stessa, che, mentre loro continuarono impunemente a fare i loro affari, impedì alla verità di venire fuori persino quando ancora si potevano salvare migliaia di vite umane:

    «Dormite tranquilli» continuarono a dire le autorità anche quando sapevano con la certezza della scienza quello che stava per succedere.

    Si era agli albori del ventennio fascista quando Carlo Semenza, ingegnere responsabile della Società idroelettrica veneta, in seguito diventata SADE (Società adriatica di elettricità) ebbe un sogno, anzi quel delirio di onnipotenza comune a chi vuole entrare a ogni costo nella storia dell’umanità: costruire nella stretta gola in cui si insidiava il torrente Vajont, «innocuo» affluente del Piave, la più alta e imponente diga del mondo. Una diga che, eseguita senza badare a spese (con soldi pubblici) e a regola d’arte, avrebbe dato prestigio all’Italia in camicia nera o a quella degli anni Cinquanta e Sessanta, in pieno boom economico, che la vide poi realizzarsi. Sulla definizione «a regola d’arte», vorrei aprire una piccola parentesi. La diga rappresenta quella che oggi si definirebbe un’«eccellenza» nel settore.

    Sopportò tutto ed è ancora lì. Non crollò, come molti erroneamente ancora oggi credono sia successo.

    Tecnici, ingegneri, professori universitari, esperti dello Stato e della ditta costruttrice furono perfetti su tutto. Tranne nel prevedere che quel monte Toc, che doveva il suo nome proprio al fatto di vegner dò a toc (venire giù a pezzi), non avrebbe retto a una pressione così forte. È malizioso pensare che si giocò al gioco delle tre tavolette? Un gioco per il quale, quando conviene si è uguali a Dio, ma poi si diventa piccoli e fallaci, umanamente incapaci di vedere un millimetro al di là del proprio naso, quando si tratta di pagare il conto degli errori commessi. Così non vale, verrebbe da dire.

    Ma andiamo avanti. Fu nella seconda metà degli anni Venti che Semenza cominciò a fare i primi sopralluoghi insieme al geologo Giorgio Dal Piaz, direttore

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