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Storie a quattroruote
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E-book255 pagine3 ore

Storie a quattroruote

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Info su questo ebook

Attraverso il ricordo, la voce e l’esperienza diretta degli autori di questa raccolta,  queste pagine diventano un tributo all’inseparabile compagna di vita, l’automobile, in un percorso che la lega a ciascuno di noi e a quell’insaziabile, umano desiderio di epiche competizioni, sogni fantastici o semplici ricordi di anni di lavoro.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2021
ISBN9791220282338
Storie a quattroruote

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    Storie a quattroruote - AA.VV.

    AA.VV.

    Storie a quattroruote

    A cura di Ivan Scelsa

    Storie a quattroruote

    AA.VV.

    © Rudis Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – marzo 2021

    www.rudisedizioni.com

    rudisedizioni@gmail.com

    prefazione

    Nel Novecento, l’automobile ha conquistato il paesaggio urbano, vincolato le spese familiari e fatto sognare milioni di appassionati. Secondo Giorgetto Giugiaro, l’automobile è una scultura, qualcosa che dona emozioni: un mezzo che deve rispondere a tante esigenze, a partire dalla funzionalità, compreso il ritorno degli investimenti. Un prodotto che fa girare non poca parte dell’economia mondiale, quindi.

    Da oltre un secolo, vive con gli italiani, scandendone abitudini, diventandone compagna di viaggio o semplicemente restando un sogno nel cassetto.

    La sua storia si interseca con quella d’Italia, in un costante ed incessante sviluppo che, soprattutto la motorizzazione degli anni Cinquanta, l’ha inevitabilmente traslata anche sui set cinematografici di tutto il mondo, a testimonianza di come eravamo e di come ancora siamo.

    Il nostro mondo sta cambiando e la tecnologia procede a tale rapidità che si è quasi sopraffatti dalla moltitudine di nuovi oggetti che invadono e modificano le nostre abitudini. Lei, però, è un punto fisso: c’è sempre stata e, forse, ci sarà sempre.

    Attraverso il ricordo, la voce e l’esperienza diretta degli autori, queste pagine diventano un tributo all’inseparabile compagna, in un percorso che la lega a ciascuno di noi e a quell’insaziabile, umano desiderio di epiche competizioni, sogni fantastici o semplici ricordi di anni di lavoro.

    Ivan Scelsa

    UNA VERA SIGNORA

    di Marco Altimani

    La storia che vi voglio raccontare parla di una signora ormai attempata che spero in ottima salute e che ha condiviso con me alcuni anni della sua vita, riservandomi delle emozioni incredibili. La signora è nata nel 1951, lo so non si dovrebbe dire l’età di una signora, chiedo immediatamente scusa per questo, ma posso dire invece che è stata sin dalla sua giovinezza, elegante, ricercata, insomma una signora borghese e d’élite.

    Quando vide la luce del suo Piemonte le era appena morto il padre, il signor Vincenzo, che lei non ha mai conosciuto né lui ha mai potuto vedere il capolavoro che aveva generato.

    In Italia, dopo lo choc bellico, si stava cominciando a ricostruire il ricostruibile e a spazzar via tutto ciò che era ormai solo macerie, nelle vie delle città, dei piccoli paesi e dentro tutti i cuori e le menti, e ciò era certamente più difficile, menti e cuori che avevano vissuto un calvario durato cinque lunghissimi anni.

    Lei sembrava non aver subito traumi o aver perso la sua raffinatezza e il suo stile, anche perché io la vidi per la prima volta passare davanti alla mia finestra, avevo poco più di vent’anni in un bellissimo abito blu notte. Da quel momento cominciai a farle una corte assidua, ma sempre discreta nei primi tempi e successivamente sempre più ravvicinata affinché si accorgesse di me. Un giorno, rivedendola passare sempre davanti alla mia finestra, la seguii e cominciai a parlarle senza imbarazzi, anche perché accettò la mia presenza senza fare obiezioni di sorta, quasi come se mi avesse già individuate nei giorni precedenti. Quando ci parlammo la prima volta avevo la voglia di accarezzarla o di stringere la sua mano nella mia, ma aspettai, non volevo rovinare tutto. Il mio obiettivo era quello che diventasse parte della mia vita, ma la cosa avrebbe dovuto essere da lei percepita come un desiderio reciproco da cui entrambi non saremmo più potuti tornare indietro.

    Nessuno avrebbe potuto dividerci. E fu proprio così… da quel momento diventammo inseparabili. Noi nati tra gli anni quaranta e cinquanta, ora negli anni settanta eravamo consapevoli di provare l’uno per l’altra un qualcosa di speciale e cominciammo a frequentarci sul serio. Non che questo legame fosse un fidanzamento, parola che usavano i nostri genitori e a noi pareva fuori moda, anche se oggi è ritornata in auge e usata dai millennials per indicare un legame più solido di quello occasionale da discoteca. In ogni caso, ora, io potevo vederla, toccarla e godere del suo calore, dei suoi scatti di giovinezza, delle passeggiate brevi o lunghe che fossero, ma insieme, fermandoci dove ci sembrava di poter godere insieme un bel panorama o sotto una pioggia battente starcene vicini come in uno splendido valzer. Si sa a vent’anni tutto sembra infinito e immortale ed è giusto che sia così, poi la vita ci fa crescere e molte nostre certezze si rivelano delle illusioni dopo essere stati dei bellissimi sogni.

    Lei era davvero speciale, non era come le altre.

    Le altre vestivano seguendo la moda del momento, lei invece sempre classica, forse un po’ fuori moda, tanto che mi era sembrato che pochi miei coetanei le si avvicinassero senza provare un po’ di imbarazzo. Forse ero io che vedevo in lei qualcosa di intramontabile e bellissimo, chissà. Aveva due occhi molto grandi, un po’ sporgenti, un naso volitivo, la sua voce sapeva essere dolce e vellutata ma anche dai toni gioiosi, quando le capitava di percorrere con me itinerari pieni di sole, circondati dai colori bellissimi della primavera o dell’autunno.

    Ero presissimo da lei e volevo che tutto ciò durasse un’eternità... Eternità, una parola di otto lettere che però non ha fine, e l’impiccio sta proprio qui. Si pensa che tutto duri all’infinito appunto, ma non è così. Tra me e lei, in realtà continuava tutto nel migliore dei modi. Lei...mi accorgo solo ora di non avervi rivelato il suo nome, un nome in verità poco comune. Chissà chi in Italia ha avuto il privilegio di chiamarsi come lei, a parte una città del Lazio: il suo nome è Ardea, con l’accento sulla prima a, e il suo cognome lo svelo con orgoglio perché so che farebbe piacere a lei e soprattutto a suo padre che lei non ha mai nemmeno visto: Lancia, sì proprio così Ardea Lancia, una bellissima Ardea Lancia dal colore blu, cinque marce, guida a destra, un sogno, una favola e poco costosa e solo 900 di cilindrata. Non vi sto prendendo in giro, è una vera confessione questa: il primo grande amore della mia vita è stata lei, Ardea!

    E chi può vantare di essersi innamorato in Italia di Ardea? Probabilmente ci sarà e la sua storia sarà tanto bella quanto la mia, perché Ardea è sinonimo di stile, bellezza, eleganza e ha un cognome conosciuto in tutto il mondo: Lancia. La mia Ardea era sempre con me, almeno quasi sempre perché saltuariamente andava dal suo medico personale, un signore anziano che aveva una piccola officina in via Crocefisso a Milano da dove, dopo brevi sedute, ritornava più scattante e smagliante di prima. Insieme abbiamo fatto dei bei viaggi, con molta prudenza perché Ardea, 5 marce, 1951, aveva la guida a destra e quindi nei sorpassi dovevo metterci tutta la mia grazia e concentrazione.

    I suoi sedili grigi e morbidi erano assai confortevoli e le sue portiere, ah! le sue portiere! si aprivano in un modo strano e quando erano aperte, come potevi rifiutare di approfittarne... Si chiudevano emettendo un rumore impercettibile tanto era soft. Non mi fate pensare a quei tempi da ventenne... ma si sa, lo abbiamo detto prima, un giorno o l’altro i sogni finiscono, si deve ritornare con i piedi per terra e l’amore per Ardea da parte mia si affievolì un po’. Ma non la lasciai mai, Ardea mi seguiva ovunque io andassi.

    Nord, sud, est, ovest della Penisola, un posticino al coperto per lei c’era sempre, perché lei, auto di classe, il mio primo grande amore, l’auto oggetto della mia ostinazione di neoautomobilista, meritava attenzione e cura, sempre, fin che morte non ci avesse separato, ma questo mi pare esagerato, insomma il più a lungo possible... L’ultimo viaggio importante l’ha vista impegnata attraverso Umbria, Lazio, Campania, Puglia Abruzzo e di nuovo Marche dove risiedevamo e dove godeva di un comodo garage sotto casa, mai freddo d’inverno e mai troppo caldo d’estate e poi viaggi e sempre il punto di arrivo di quei lunghi itinerari.

    Si comportò sempre benissimo, come la mia Ardea degli anni settanta, ma ora erano gli anni novanta e le mie possibilità di riservarle un trattamento privilegiato si affievolivano sempre più. In famiglia, ora era patrimonio familiare, desideravamo che la sua carriera di regina delle strade terminasse con un viaggio memorabile e quindi come dicevo prima, Perugia, Roma, Napoli, Bari con una puntatina al Gargano e poi L’Aquila e di nuovo le Marche dove l’aspettava il meritato riposo. Sempre bellissima, nel suo vestito blu, sempre con me, resta con me, sembrava mi dicesse. Sempre con me, fino a quando... fino a quando le nostre condizioni di vita fossero rimaste invariate, con la possibilità di trovarle sempre in qualsiasi parte d’Italia un posto al sicuro dalle intemperie, perché un’auto di 35 anni nata nel ‘51 soffre molto il caldo e il freddo, non ama la pioggia perché potrebbe creare problemi sia all’esterno sia al suo interno, insomma condizioni a lei congeniali con l’assoluta priorità di poterla mantenere sempre efficiente e brillante.

    Queste le condizioni che le avevo da sempre garantito fino a quando, all’inizio degli anni novanta, un imprevisto cambiamento di abitazione che non prevedeva un garage per Ardea fece precipitare il tutto. E lei sembrava che mi dicesse: non mi lasciare sola….

    E invece dovetti prendere una stoica decisione, lasciarla e affidarla a qualcuno che si prendesse cura di lei, ma chi? Non mi fidavo di nessuno, non c’era chi potesse risolvere il mio problema, Ardea era ancora in condizioni molto buone, ma sapevo che me l’avrebbero declassata per fare il grande affare.

    Io non volevo ‘venderla’ a qualcuno, ma ‘affidarla’ a qualcuno di fiducia, che avesse un posto adatto per custodirla e soprattutto badasse anche ai suoi primi acciacchi dovuti all’età. E mentre passavo notti insonni per la mia incapacità di trovare una soluzione, dalla strada sottostante dove alle intemperie Ardea attendeva il suo destino, mi sembrava di sentirla piangere, quasi dicesse... tutt’al più lasciami qui affinché io almeno ti veda... Il rapporto tra me e Ardea era cambiato, io uscivo di casa e non avevo il coraggio di guardarla, quasi la stessi tradendo con un’auto più giovane e più disponibile e con la carrozzeria, come si dice, indifferente a qualsiasi intemperie. Ma non era così, lei continuava ad essere molto importante per me, non la consideravo il giocattolo di quando ero un ragazzotto, ora ero un adulto con famiglia e a lei si erano affezionati anche coloro che vivevano con me. Un giorno mi avvicinai a lei e l’accarezzai sul tettuccio blu e sul fanalone bagnato dalla pioggia, quasi le dicessi, vedrai, Ardea, vedrai che tutto si risolve. E le cose cambiarono eccome, e come accade sempre o quasi sempre per puro caso.

    Il bidello di mio fratello, quando lui a Milano frequentava la scuola media, si era trasferito nella nostra stessa città e guarda caso era un collezionista di auto d’epoca e, incontrandolo su una bellissima Fulvia, cuginetta di Ardea perché sempre Lancia era il suo cognome, mi congratulai con lui e così iniziammo a parlare di Fulvi, a di lui e alla fine di Ardea. E lui ebbe una bellissima reazione e capii che era la persona che mi poteva aiutare.

    Mi disse che voleva vederla, e se avessi un posto in cui conservarla senza provocarle dei danni. Così seppe la verità e mi fece una proposta sensazionale di cui ancora oggi lo ringrazio: si offrì per custodirmela nel capannone dove teneva e curava altre auto di pregio.

    Accettai subito e ci accordammo su un punto preciso: tra di noi non ci sarebbe stato mai uno scambio si quattrini, ma solo un cambio di tutore, con il permesso di poterla vedere, sempre, quando l’avessi desiderato. Andai da Ardea e le dissi la verità, ma una verità che guardava verso il futuro per entrambi. E così la storia incredibile tra me e Ardea Lancia ebbe una svolta, una svolta che speravo fosse la più dolce possibile e le cose si erano messe proprio in questa direzione.

    Qualcuno era venuto in mio aiuto, avrebbe avuto cura di lei, quel ‘qualcosa’ che non avrei potuto più garantirle nei giorni a venire.

    Eravamo convinti entrambi che la nostra relazione, se si fosse interrotta, avrebbe dovuto portare con sé i segni indelebili di ciò che avevamo passato insieme, i panorami che avevamo visto, gli imprevisti sempre superati, qualche bizza da entrambe le parti, ma un affetto che non si sarebbe mai deteriorato, anzi avrebbe fatto parte dei ricordi di ciascuno, quei ricordi così netti nella nostra mente che è praticamente impossibile che svaniscano con l’avanzare del tempo.

    Il nostro ‘mai dire mai’ consisteva appunto nell’affrontare una realtà, una volta considerata impossibile, oggi incombente e che insieme abbiamo dovuto affrontare, perché poi, si sa, domani è un altro giorno…

    AL DI Là DELLE DUNE

    di Rodolfo Andrei

    Quella foto quasi sbiadita e ingiallita dal tempo era ancora impregnata di lontani ricordi che mai si sarebbero dissolti: una vecchia Fiat 509, tre uomini e alle loro spalle solo l’infinità silenziosa del deserto. Mi era capitata tra le mani mentre curiosavo dentro un vecchio baule di legno quasi dimenticato nella soffitta di casa, riportato in Italia dalla Tunisia molti anni prima, quando i miei antenati furono cacciati, contro la loro volontà, da quelle terre arabe.

    Quel forziere era stato poi lasciato là, in disparte, colmo di oggetti e di vecchie memorie che mai il tempo avrebbe potuto cancellare; lucenti tappeti fatti a mano da operosi artigiani tunisini, candidi pizzi e bianchi merletti ricamati a tombolo da sapienti mani sicule, e una miriade di fotografie che con i loro scatti immortalavano istanti singolari e unici di un tempo ormai passato. Avevo visto più volte quella vecchia foto che ritraeva nonno Giovanni accanto alla sua adorata Fiat modello 509; vicino a lui Alfio, suo cognato, cassiere della Paris Banque di Tusini, e Calogero Montalbano, il meccanico più bravo di tutta la Sicilia.

    Ogni volta riguardavo curioso quell’istantanea e subito mi ritornava alla mente la meravigliosa avventura che mio nonno amava spesso raccontare nelle calde sere d’estate a noi piccoli marmocchi.

    L’avvincente racconto aveva sempre inizio dall’interminabile e faticoso viaggio che portò molte famiglie siciliane, agli inizi del ‘900, a trasferirsi in cerca di fortuna in Tunisia, dove Giovanni, bravissimo calzolaio siciliano di Lentini, riuscì da subito a far valere le proprie capacità di bravo ciabattino anche in quella terra araba, ritagliandosi così una buona posizione nella comunità italiana di Tunisi. Nel suo piccolo negozio di pellame, a Rue de la Kasba numero 17, ideava e sfornava scarpe di eccellente livello, arrivando addirittura a essere richiesto dal potente Bey, il Signore di Tunisi, l’allora Muhammad VI° Al-Habib, per realizzare le sue scarpe personali. Lo stesso Bey in persona gli conferì, poco tempo dopo, una medaglia di merito per l’ottimo lavoro svolto; una delle gratificazioni più importanti che si potevano assegnare a quei tempi a un artigiano locale. In quella realtà quotidiana, formata da laboriosi e attenti operai italiani, tunisini e francesi, vi era anche spazio per eventi e gare di vario tipo, e quando fu organizzata dalla Rappresentanza italiana di Tunisi una gara automobilistica dalla Capitale Tunisina alla città di Tripoli, nonno Giovanni non si fece sfuggire quell’occasione. La corsa era stata ideata per creare spirito di gruppo tra i connazionali italiani, e nello stesso tempo per poter accorciare le distanze tra la Tunisia e la Libia, a quei tempi colonia italiana.

    Era l’anno 1927 e la partenza era prevista per i primi di marzo. Il percorso, viste le impegnative vie di comunicazione che esistevano a quei tempi non era certo dei più agevoli, ma era un tragitto meraviglioso per i centri abitati e i villaggi che toccava; città conosciute e famose oggi, importanti oasi di ristoro per chi si inoltrava nel deserto allora. Si partiva dalla città di Tunisi dirigendosi verso Hammamet, si fiancheggiava la dorata costa tunisina arrivando a Sousse e, inoltrandosi verso l’interno, si toccava il villaggio di El Jem, già conosciuto per il suo anfiteatro romano in miniatura, gemello del più famoso Colosseo della Capitale italiana, poi nuovamente ci si dirigeva verso il litorale percorrendolo fino a Sfax, arrivando poi a Gabes per addentrarsi nel deserto del Sahara fino alla città di Medenina e affrontare quindi la tappa finale, la più lunga e faticosa che portava al traguardo di Tripoli. Nella comunità italiana Giovanni era uno dei pochi ad avere un’automobile, e il suo spirito battagliero e grintoso lo spronava a mettersi sempre in gioco. Malgrado il premio finale consistesse in una manciata di pochi dinari tunisini, il prestigio per aver partecipato a una corsa così importante era molto grande, e riuscire ad arrivare alla conclusione della competizione o addirittura poter essere tra i primi concorrenti all’arrivo, avrebbe portato a tutto l’equipaggio una maggiore stima e notorietà tra i propri connazionali.

    Nei pochi giorni che precedevano la partenza della corsa nonno Giovanni, Alfio, suo improvvisato co-pilota e Calogero, il meccanico siciliano, sistemarono e misero a punto la scintillante e cromata Fiat 509.

    Era tutto pronto: viveri per il viaggio, piccoli pezzi di ricambio per eventuali manutenzioni, giacconi e calde coperte per riposare e dormire nelle fredde notti in mezzo alle dune del deserto, lungo il tragitto per Tripoli. Quella mattina di inizio marzo alcune nuvole minacciose oscuravano gran parte del cielo, mentre i concorrenti erano già da molte ore posizionati ordinatamente davanti l’antica porta in tufo della città vecchia di Tunisi, in silenziosa attesa del via. Calogero ruotò con forza la manovella dell’accensione della Fiat mentre, quasi all’unisono, si accesero i motori di tutti gli altri mezzi in gara.

    Subito dopo una lunga fila di veicoli, simile a un grosso serpente variopinto, si allontanò dalla porta della città per dirigersi in fila indiana verso Hammamet.

    I primi chilometri della corsa furono i più duri e i più pericolosi; profonde buche, grossi sassi e tanta polvere, avevano già fatto uscire dalla gara alcune vetture, mandandole poi ad arrestarsi su una sabbia traditrice e infame. Arrivati all’altezza di Sousse l’equipaggio di nonno Giovanni, appena dietro una curva, si ritrovò quasi addosso a una Bugatti Torpedo del 1921 guidata da due tunisini, andati a sbattere contro un enorme masso e poi rimbalzati nel mezzo della strada. Giovanni, facendo una grossa frenata, riuscì a evitare quel veicolo, mentre l’auto andava in testacoda.

    Prontamente entrò in

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