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Amanti
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E-book164 pagine1 ora

Amanti

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Info su questo ebook

Lucrezia è una donna con una promettente carriera davanti a sé e, tuttavia, sente che le manca qualcosa, un amore rifiutato in passato che adesso torna a farsi sentire come una forte esigenza. 
Desiderosa di un partner, accetta il fidanzamento con Jacopo, ricco uomo d’affari, nonché figlio del suo direttore di lavoro. 
Stabiliscono di sposarsi in Sicilia, loro terra d’origine, ma prima passeranno qualche giorno a Cefalù. Lì Lucrezia incontra due sue vecchie conoscenze: Domenico, compagno di scuola, nonché parente di Jacopo, e Bastiano, l’amore della sua adolescenza. E la scintilla di un sentimento mai dimenticato, scocca per entrambi, sulle note delle più belle canzoni di Mia Martini. 
Giunge per Lucrezia il momento di scegliere: continuare l’ambiziosa scalata al successo o gettarsi finalmente tra le onde della passione. 
LinguaItaliano
Data di uscita25 nov 2021
ISBN9788893471725
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    Anteprima del libro

    Amanti - Mattia Vanfiori

    cover.jpg

    Mattia Vanfiori

    AMANTI

    Prima Edizione Ebook 2020 © R come Romance

    ISBN: 9788893471725

    Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione

    img1.png

    www.storieromantiche.it

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave 60

    41121 Modena – Italy

    romance@loggione.it

    http://www.storieromantiche.it    e-mail: romance@loggione.it

    img2.jpg

    La trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.

    Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.

    Mattia Vanfiori

    AMANTI

    Romanzo

    Indice

     Donna sola

    I

    II

    III

    IV

    IV

    Da capo 

    I

    II

    III

    Amanti 

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII     

    IX

    X

    XI

    XII  

    XIII

    XIV   

    XV

    XVI

    Piccolo uomo

    I

    II

    III

    IV

    V

    L’autore

    Catalogo

    Donna sola

    I

    Passeggiavano lungo la spiaggia dove il quieto silenzio non ammetteva altre voci se non quella del mare che, sereno, baciava la battigia, mentre la spuma cancellava le tracce del loro passaggio.

    Il ragazzo e la ragazza camminavano lenti, rispettando il silenzio. Lei procedeva poco più avanti, lui la seguiva.

    Quello era forse l’anno dei cambiamenti, l’estate del loro diploma, che ora volgeva al termine e l’inizio di una nuova stagione. Segnava l’inizio di una nuova vita per entrambi. 

    Il ragazzo lanciò un’occhiata al sole sempre più basso, pochi minuti ancora per assistere a uno dei più bei tramonti e quell’angolo di spiaggia era tutto per essi.  

    Non un ombrellone, non un lido, neppure un cane, le uniche creature oltre a loro, erano i gabbiani nel cielo.

    Tutto sembrava perfetto, eppure il ragazzo non osava raggiungere il fianco della ragazza che, di contro, non sembrava intenzionata ad aspettarlo.

    Una lenta fuga, un vano inseguimento. Alla fine giunsero agli scogli.

    La ragazza gli dava le spalle, il ragazzo la sentì canticchiare un motivetto a bocca chiusa, che si sposava magnificamente con la voce del mare.

    Le riconobbe, erano le note di Donna sola, Mia Martini.

    Avanzò verso di lei.

    «Bastiano.»

    Si fermò di colpo, attendendo. L’apprensione lo divorava.

    La voce della ragazza era dolce come sempre, ma quella sera una nota di tristezza malcelata la rendeva sgradevole all’udito, amara al cuore.

    «Ti lascio.»

    Per un bel po’ non ci furono altre parole, né note canticchiate. Solo la voce del mare riempiva il silenzio, sposandosi magnificamente col cuore infranto di Bastiano.

    II

    Si svegliò, infastidita dai raggi del sole sulle palpebre. Dimenticava sempre di chiudere tutti quanti i buchi della serranda, era uno dei motivi che le faceva odiare di avere il letto così vicino alla finestra. Eppure, le piaceva quando poteva stendersi nelle ore pomeridiane e fissare il cielo dipinto di nuvole. Si perdeva nella contemplazione e chi la vedesse poteva dirla persa in pensieri profondi, ma in realtà non pensava a niente.

    A niente che non fossero quelle nuvole simili allo zucchero filato. Quel cielo azzurro che assomigliava troppo al mare. Odiava il mare.

    Lo odiava perché lo aveva amato troppo in passato.

    Il cellulare squillò e quando lesse il nome sul display, non poté fare a meno di sbuffare.

    «Pronto? Lucrezia?»

    «Ezio, per l’amor del cielo, so di essere in ritardo, ma già telefoni?» partì all’attacco la donna.

    Il sogno di far carriera le toglieva molto spesso il sonno e ogni assillo da parte di superiori e colleghi diventava un incubo.

    «Lo so, lo so, ma non è che ci sono solo io in ufficio. Beh, dovranno aspettare. Lo so che sono in ritardo, ma cosa posso fare? Non hanno ancora inventato la macchina del tempo.»

    Continuare quell’inutile discussione le dava il mal di testa.

    «Sì, lo so che è importante arrivare in orario. Sì, lo so che ci faccio una pessima figura. Sì, lo so che ricopro un ruolo importante e che di conseguenza do una cattiva immagine all’azienda. Sì, lo so che il signor Sergio Bianchi ha grandi aspettative su di me. E sì, lo so che è brutto tardare, ma so anche che si farà ancora più tardi se mi tieni al telefono.»

    Fu una violenza per lei riattaccare ancor prima che l’altro finisse di parlare, ma sapeva fin troppo bene che a quella paternale non ci sarebbe stata una fine.

    Tutte le conversazioni con quel suo collega dovevano per forza interrompersi bruscamente, essendo Ezio saccente e fastidiosamente, terribilmente, logorroico.

    Si preparò in fretta e furia, doccia in due minuti, vestiti già pronti dalla sera prima, una fetta biscottata tra i denti ed era già pronta ad andare.

    Con una mano guidava la macchina, mentre con l’altra teneva la fetta biscottata, divorandola a grandi morsi.

    «Potevo anche metterci della marmellata… quell’Ezio sarà la mia rovina! Ma chi si crede di essere? Non è neppure il mio capo.»

    Seguitò a lamentarsi da sola, finché un pezzetto di cibo non le andò di traverso e per poco non soffocò.

    Posteggiò davanti a un grande edificio e, prima di scendere dall’auto, si pulì con un fazzoletto le poche briciole rimastele sulle labbra, dopo di che, si diede un’altra passata di rossetto, specchiandosi col retrovisore interno.

    Quando entrò, fu quasi assalita dai clienti, che uno dopo l’altro entravano e uscivano dal suo ufficio, non dandole un attimo di respiro. Se il suo ufficio chiudeva al pubblico, doveva poi pensare ad altre mansioni affibbiatele dal capo, per non parlare del lavoro arretrato e non mancavano i colleghi dallo scarso rendimento, che avevano sempre bisogno dell’aiuto di chi aveva più esperienza.

    A fine giornata passò il direttore, che si complimentò per i risultati ottenuti quell’oggi, ma a rovinarle la serata ci pensò Ezio che, intrufolandosi nel suo ufficio, si pose al fianco del direttore.

    «Lucrezia sa fare il suo lavoro, ma non dimentichiamo che stamattina ha riportato un ritardo di quasi mezz’ora.»

    «Ma, Ezio, erano solo quindici minuti.»

    «Solo? Ah, quindi sminuisci il tuo ritardo. Bell’esempio ai nostri colleghi più giovani.»

    Lucrezia si morse le labbra.

    Come diavolo faccio a cadere sempre, giornalmente, nei trucchetti infantili del mio collega nullafacente?

    L’invadenza di Ezio mise in imbarazzo lo stesso direttore, che si limitò a raccomandarle la puntualità. Soddisfatto, Ezio lasciò l’ufficio della collega, dietro al direttore Sergio Bianchi.

    Grazie tante, Ezio. Farmi concludere la giornata con l’amaro in bocca. Che nullità di uomo… ma che dico, uomo? Parassita!

    Neanche quello era un appellativo adatto, quantomeno per rispetto agli stessi parassiti che si sarebbero visti messi sullo stesso livello di quell’essere. Ma non ci poteva far niente. Ad Ezio Bianchi, figlio del direttore, nessuno diceva nulla. 

    E dinanzi a quella figura mingherlina, occhialuta e con le guance piene di acne, peggio di un adolescente, e che portava ancora l’apparecchio, colorato come quelli che Lucrezia aveva visto a qualche bambino, si doveva fingere quantomeno un po’ di ammirazione e di rispetto.

    A me, quel tizio fa solo ribrezzo.

    Rincasò presto, come spesso faceva negli ultimi tempi, rifiutando gentilmente gli inviti dei colleghi che si riunivano per bere o mangiare. In quel periodo sentiva il corpo distrutto, come se invece di svolgere gli incarichi di ufficio, il suo lavoro fosse quello di sollevare pesanti sacchi di cemento sulla schiena e portarli dove servissero. 

    Si liberò delle scarpe, lasciandosi sfuggire un sospiro sollevato. Perfino quei tacchi bassi erano una tortura. Indossò i pantaloni di una tuta, sentendo insopportabile persino la gonna che le stringeva troppo le gambe. Si liberò del tailleur e della maglia, rimase in canottiera. Con l’estate alle porte, faceva un gran caldo in città.

    Andò in soggiorno, dove teneva un giradischi.

    Era una collezionista di vinili fin da adolescente e anche adesso non rinunciava a questa passione. Ascoltare il suono di un vinile, passare dal lato A e a quello B e viceversa le metteva in cuore una particolare nostalgia, un sentimento che non avrebbe potuto avere, poiché cresciuta nell’era dei cd. Eppure non avrebbe saputo descrivere diversamente questo suo sentimento, l’immaginarsi catapultata in un passato mai vissuto, solo ascoltando uno dei tanti dischi della sua vasta collezione.

    Chissà se in una vita precedente, io sia stata una donna di quel tempo, una ragazza che ogni volta si alzava dal letto per cambiare il lato del disco e riascoltare all’infinito le canzoni che amava. Chissà se in quella mia vita precedente, io sia stata meno stupida di adesso.

    Mise un disco e sedette. Sull’immagine di copertina, la foto della cantante più amata. Sul bordo una piccola dedica per lei, firmata da Bastiano.

    Già, me l’ha regalato lui. Me lo comprò coi soldi della paghetta.

    Ascoltò la prima canzone, ma fu la seconda ad arrecargli una tremenda stretta al cuore. Occhi tristi di Mia Martini. Gli stessi occhi tristi che Bastiano aveva nel suo sogno. Gli stessi occhi tristi di quel giorno di diversi anni fa, quando lo lasciò e partì per intraprendere gli studi universitari.

    Queste parole, nella canzone, la affliggevano come tanti pugnali conficcati fin nelle ossa:

    Io potevo essere sua.

    Giorni che ho buttato via

    Ora certo che vorrei.

    Come il vento andrei da lui.

    Ma i suoi sospiri non potevano tramutarsi in vento e soffiare via i suoi pensieri, che altrimenti lo avrebbero raggiunto, volando fin lì, in Sicilia, in quel paese di mare dove era rimasto, mentre lei partiva per cominciare una nuova vita, pronta a qualsiasi rinuncia. Lui compreso.

    Quando arrivò il momento di girare il disco, non si alzò. Si sentiva di nuovo pesante, sentiva come un sacco di cemento sulla schiena, che la schiacciava fino a terra.

    A pesarle era l’anima, colma delle sue frustrazioni, dei suoi pentimenti, di tutti i pianti trattenuti e di quei sogni che il giorno non riusciva a spazzare via e che trovavano rifugio nella parte più vivida della memoria, immagini indimenticabili che la inducevano a una dolorosa nostalgia, quella che si insegue, che si afferra e che sfuma nella realtà di

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