Attimi nel tempo
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Anteprima del libro
Attimi nel tempo - Elena Falconi
indice
Prologo
(I)
(II)
(III)
(IV)
(V)
(VI)
(VII)
(VIII)
(IX)
(X)
(XI)
(XII)
(XIII)
(XIV)
Ringraziamenti
A nonno Peppe
e nonna Titina
Elena Falconi
Attimi nel tempo
Temperino rosso edizioni
Temperino rosso edizioni
Prima edizione Brescia 2018
Grafica Afo-TR designer
© 2018 Temperino Rosso Edizioni Fortini
ISBN 978-88-31909-23-5
ATTIMI NEL TEMPO
Prologo
È l’alba del mio ottantaduesimo Natale.
Oggi la casa tornerà a vivere.
Intorno alla tavola imbandita, gusti antichi ci riporteranno al sapore di un’altra vita.
Ed io potrò rivederci un’ultima volta, come eravamo.
Sì, un’ultima volta.
Da giorni ormai sento le forze abbandonarmi e fatico a respirare: dicono che è un banale raffreddore, che presto starò meglio.
Ma io so che non sarà così.
È strano come una vita di gioie, dolori, paure, rimpianti, sogni e speranze possa spegnersi d’un colpo.
Domani cosa sarà rimasto di me, della fatica che ho fatto per arrivare fino a qui, dei sacrifici, dell’amore che ho dato e ricevuto?
Possibile che tutto debba svanire come cenere al vento?
Ricordo un giorno, nel pieno del mio tempo, una lunga passeggiata in riva al mare: il sole caldo, le onde che andavano e venivano bagnandomi i piedi nudi, il cielo limpido senza nuvole e la sabbia bianca, umida.
Davanti a me un orizzonte luminoso, una meta da raggiungere.
Dietro, ciò che lasciavo, senza rimpianti.
In fondo la vita è proprio questo: un lungo cammino incontro ad un destino che, come il mare, può sorprenderti da un momento all’altro e cambiare inaspettatamente il tuo percorso.
Così è stata anche la mia vita…
(I)
Sono nato in Liguria, a La Spezia, nel 1908.
Mio padre, classe 1886, era un marinaio di origini pugliesi.
Si era arruolato nella Regia Marina Militare a diciassette anni, all’inizio di un secolo nuovo che prometteva grandi cose.
Era al porto di La Spezia quella mattina di maggio e passeggiava distratto, quando la vide per la prima volta: carnagione ed occhi chiari, esile ed elegante nel suo abito verde, i capelli lucenti di un colore che sembrava quello del grano ad agosto.
Non ebbe il coraggio di avvicinarla, ma la seguì per le vie della città, finché la vide entrare in un palazzo antico, in pieno centro.
Curioso si avvicinò al portiere e chiese: Chi è quella signorina?
. L’altro, un uomo anziano e con la schiena curva, lo squadrò divertito È la figlia del signor Sgorbini. Cambia rotta marinaio!
Stava per allontanarsi rassegnato, quando si accorse che la ragazza dagli occhi blu, aveva aperto una finestra al primo piano e lo guardava sorridendo.
Da piccolo mia madre mi raccontava che, per strada, aveva notato quel giovane in divisa e ne era rimasta subito affascinata: occhi di un nero brillante e capelli folti, scuri, lucenti, pelle abbronzata e corpo atletico.
Non aveva mai visto un tipo così, fino ad allora.
I ragazzi che frequentavano la casa dei suoi genitori erano tutti uguali: ossuti e con la carnagione del colore del latte…uomini del nord! Con i modi affettati dell’alta società che lei detestava e lo sguardo rivolto più ai soldi di suo padre che a lei.
Invece quel giovane era diverso: nei suoi occhi vivaci ed intelligenti aveva letto dolcezza, simpatia, sensualità.
Ma l’affascinante marinaio sparì per settimane.
Era già finita l’estate quando lo rivide, sotto la sua finestra.
Fuggirono insieme meno di sei mesi dopo.
Io nacqui l’anno successivo, nel 1908 e, nel 1912, mio fratello Mario.
Eravamo nel pieno dell’età Giolittiana, l’epoca dell’industrializzazione e dello sviluppo economico nelle città del Nord, insomma l’inizio di un tempo di progresso e prosperità pieno di ottimismo e leggerezza che anche noi respiravamo in quegli anni a La Spezia.
Quando non era imbarcato, nostro padre trascorreva molto tempo in famiglia: d’inverno ci costruiva giocattoli di legno e navi in miniatura dentro bottiglie trasparenti.
L’estate ci portava alla spiaggia: ci insegnò a nuotare, a pescare e a riconoscere ogni rumore ed ogni riflesso dell’acqua marina…
Credo sia per questo che il mare mi scorre nelle vene.
Per noi papà era una roccia sicura cui aggrapparsi e il suo sorriso aperto e gioioso dava luce alla casa e riempiva soprattutto il cuore di mia madre.
Ce l’ho ancora stampato nella mente il suo sguardo quando lo guardava: era giovane, due figli piccoli da accudire, una casa di due stanze, pochi soldi, ma un grande amore.
Sto parlando dell’amore dei vent’anni, del sogno senza corazza dove tutto è possibile, quando sembra che niente potrà mai arrivare a scalfire quella felicità.
Vivevano questo sogno i miei genitori quando l’Italia entrò in guerra, la Grande Guerra…
Ricordo che era l’alba di un giorno d’inizio estate del 1915, quando mio padre partì per il fronte.
Mio fratello dormiva ed io sentivo mia madre piangere come una bambina tra le sue braccia: sbirciavo da sotto le lenzuola i loro baci di addio; papà a tratti sembrava sorreggerla e a volte era come se cercasse in lei sostegno. L’occhio del fanciullo curioso non era certo in grado di leggere la profondità di quei gesti, il dolore che lacerava i cuori di due giovani costretti a separarsi, il rumore sordo di un’illusione che si sbriciola tra le mani.
Da allora spesso mi sono chiesto come l’uomo possa accettare, anzi provocare, catastrofi così grandi come la guerra: come mai non sente in sé l’istinto di fermarsi, rendersi conto e tornare indietro…
Le notizie dal fronte erano pochissime e sempre drammatiche: molti amici dei miei genitori morirono nel fiore degli anni, lasciando a casa vedove disperate e figli senza futuro.
Vedevo mia madre trasformarsi di giorno in giorno: solo la dignità cui era stata educata, forse l’amore per noi e certamente la speranza di rivedere mio padre, le diedero la forza di andare avanti.
Quando finalmente rientrò a casa, papà non era più la stessa persona: una bronchite cronica devastò gli ultimi anni della sua breve vita, ma non fu certo quella a portarcelo via…
In lui qualcosa si era spezzato per sempre: non ho più rivisto nei suoi occhi la luce divertita ed impertinente del giovane spensierato dei miei primi anni di vita.
Non ci raccontò mai niente di quell’esperienza, anzi la guerra e tutto ciò che ne era derivato, in casa nostra, rimasero per sempre un argomento tabù.
Anche con mia madre non riusciva più ad essere lo stesso: ricordo terribili discussioni tra di loro.
Ma lei non si arrese: l’amore per quell’uomo era totale e non conosceva momenti di scoraggiamento.
Non la fame, né la fatica del lavoro di sarta, grazie al quale manteneva la nostra famiglia in quegli anni, la fecero arrendere.
Era certa, nel suo cuore, che fosse solo questione di tempo e che prima o poi avrebbe rivisto negli occhi di papà la passione di una volta.
Mi ha sempre stupito il modo in cui alcune donne sanno amare: la convinzione cieca che un sentimento così profondo non possa mai spegnersi, le spinge ad azioni eroiche che in condizioni normali nessuno farebbe e che, purtroppo, spesso risultano assolutamente inutili.
Mio padre si spense lentamente e quando lui morì, un qualsiasi giorno d’autunno del 1920, mia madre, che gli era accanto, consumò tutte le lacrime di una vita intera: da quel giorno, infatti, non la vidi mai più piangere.
Il cuore le si indurì come pece al sole e la passione, l’energia che l’avevano animata in quegli anni, scomparvero per sempre.
Chi la conobbe dopo quel giorno ebbe di lei l’idea di una donna forte ma fredda, austera, incapace di slanci emotivi. Per chi l’aveva conosciuta prima, come me e mio fratello, fu evidente che, insieme a mio padre, era morta anche una parte di lei, forse la parte migliore, certamente quella delle illusioni di gioventù.
Proprio il giorno della sua morte venni a sapere che papà, in Puglia, aveva un fratello: mia madre ce lo disse mentre cercava il suo indirizzo per inviargli un telegramma e comunicargli la notizia.
Aveva tra le mani una lettera che zio Angelo, così si chiamava, aveva scritto a suo fratello subito dopo la guerra per avere notizie di lui. Sul retro della busta una via, la città era Taranto.
Ricordo che mamma spedì un breve telegramma:
La cognata Ilde ed i nipoti Michele e Mario danno dolorosa notizia della morte di Vostro fratello Vito dopo lunga malattia – stop
.
Avevo conservato la lettera di zio Angelo tra le mie cose per parecchi anni: in quelle poche pagine scritte a mano, raccontava a mio padre che, dopo gli orrori della guerra aveva aperto un laboratorio fotografico a Taranto dove viveva con la moglie Rosalia, una donna di Nardò di cui si era perdutamente innamorato anni prima e che aveva sposato contro il volere dei genitori di lei, formando una bella famiglia con tre figli: Umberto, Rino e Elio.
Con loro vivevano anche le nipoti di Rosalia, Clara ed Eliana, rimaste orfane dopo la guerra.
Pensavo spesso a zio Angelo in quegli anni: mi consolava l’idea che da qualche parte in Italia vivesse il fratello di mio padre, un pezzo di lui, della sua storia e quindi anche di me e della mia storia…
Pur non avendolo mai veramente conosciuto, ho sempre saputo di assomigliare molto più a mio padre che alla mamma.
Anche fisicamente: solo i capelli chiari ed il grigio dei miei occhi, che evidentemente incrociano i colori di quelli dei miei genitori, mi distinguono da lui.
Mario invece è alto, biondo, magrissimo ed il suo sguardo è lo stesso della mamma: azzurro come il cielo.
Ricordo che, negli anni dell’adolescenza, mi guardavo allo specchio ed ero fiero di somigliare a papà, era come se una parte di lui rivivesse in me: a volte quasi sentivo addosso la responsabilità di dare seguito alla sua esistenza, esaudire i suoi sogni, insomma dargli un’altra possibilità.
Insieme a me, in quegli anni, anche il mondo stava cambiando: la crisi economica del dopoguerra, la disoccupazione e l’inflazione crescenti, i conflitti sociali e gli scioperi nelle fabbriche del nord, l’avanzata del partito socialista divenuto il primo partito alle elezioni del 1919, avevano creato le condizioni per un grave indebolimento delle strutture statali e fatto emergere il timore, da parte di alcuni, di una rivoluzione