Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le avventure di Jack Courtney. Tempesta
Le avventure di Jack Courtney. Tempesta
Le avventure di Jack Courtney. Tempesta
E-book311 pagine4 ore

Le avventure di Jack Courtney. Tempesta

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Cosa faresti se ti trovassi molto lontano da casa, in un luogo dall’aria pericolosa e poco familiare? Saresti in grado di affidarti all’istinto e sopravvivere? Be’, è in questa situazione che si trova Jack Courtney. Ma Jack non sta solo cercando di sopravvivere. La sua missione è più grande ancora: salvare non sol¬tanto se stesso, i suoi amici e i suoi genitori, ma anche il mondo intero. Il nostro pianeta è già abbastanza minacciato senza che ci si mettano altri cattivi che tentano di distruggerlo. Eppure basta un solo eroe per fare la differenza. Perciò preparati all’avventura più esplosiva della tua vita…
WILBUR SMITH E CHRIS WAKLING

VIVI L’AVVENTURA INSIEME AL QUATTORDICENNE JACK COURTNEY, NELLA PRIMA SERIE PER RAGAZZI FIRMATA DAL MAESTRO DELL’AVVENTURA WILBUR SMITH.

Jack Courtney non si è mai allontanato dall’Inghilterra, ma questa volta i suoi genitori hanno deciso di portarlo con loro nella Repubblica Democratica del Congo, dove parteciperanno a un impor¬tante convegno sullo sviluppo sostenibile, e gli hanno permesso di portare con sé due amici: Amelia e Xander.
Mentre i tre ragazzi sono impegnati in un safari nella foresta pluviale, i genitori di Jack scompaiono misteriosamente, rapiti, sembra, da una banda di mercenari. Nessuno sa che fine abbiano fatto, ma Jack è deciso a ritrovarli, e per farlo è disposto a sfidare i pericoli della giungla e a spingersi persino nelle miniere di tantalio della zona per indagare. Tra gorilla, banditi, bracconieri e un molesto cugino che li ostacola a ogni piè sospinto, lui e i suoi amici dovranno mettere in gioco tutte le loro risorse e capacità per salvare non solo i genitori di Jack, ma anche le loro stesse vite.

LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2021
ISBN9788830526020
Le avventure di Jack Courtney. Tempesta
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

Correlato a Le avventure di Jack Courtney. Tempesta

Titoli di questa serie (3)

Visualizza altri

Ebook correlati

Per bambini per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Le avventure di Jack Courtney. Tempesta

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le avventure di Jack Courtney. Tempesta - Wilbur Smith

    1

    Quando l’aereo è entrato nella zona di turbolenza io stavo dormendo. Deve essere sceso di un centinaio di metri in mezzo secondo. Il vuoto d’aria mi ha lanciato lo stomaco nel petto e ho sfiorato con la testa il soffitto prima che il mio sedere tornasse a schiantarsi sul sedile. Ho aperto gli occhi e un avviso elettronico si è messo a suonare sopra di noi. Il segnale che invitava ad allacciare le cinture di sicurezza si è acceso.

    «Un po’ tardi, ormai» ho detto ad Amelia accanto a me.

    «Io la mia non me la sono mai slacciata» ha replicato lei, mostrandomi la fibbia ben stretta prima di tornare a concentrarsi su qualsiasi cosa stesse facendo sul telefono. Lo stava riprogrammando, immagino.

    «Ovviamente» ho risposto io, proprio mentre l’aereo sobbalzava di nuovo in modo violento.

    La mamma si è sporta dal sedile davanti a noi. «Tutto ok, Jack? Amelia?»

    «Tutto benissimo… Perché?» abbiamo risposto noi, all’unisono.

    Gli altoparlanti hanno diffuso la rassicurante voce del copilota. «Signore e signori, sembra che ci siamo imbattuti in una perturbazione improvvisa. Faremo del nostro meglio per evitarla, ma nel frattempo, per la vostra sicurezza e comodità, vi chiediamo di rimanere seduti con le cinture allacciate.»

    Accanto ad Amelia c’era l’oblò. Mi sono allungato davanti a lei per guardare fuori. L’interminabile cielo blu era picchiettato di nuvole sporadiche, eppure non sembrava particolarmente tempestoso. Riuscivo a distinguere senza alcuna difficoltà la verde e lussureggiante foresta pluviale sotto di noi.

    «A me sembra una bella giornata» ho detto.

    «La Repubblica Democratica del Congo registra in media più temporali all’anno di qualsiasi altra parte del mondo» ha replicato Amelia.

    «Buono a sapersi. Comunque non oggi, eh?»

    Come a dimostrarmi che avevo torto, in quel momento l’aereo ha urtato un altro muro d’aria, scagliandomi di lato, al mio posto. Sono scoppiato a ridere. Fino a quel momento il viaggio da Londra a Kinshasa via Bruxelles era stato lungo e noioso. Ora ci si divertiva.

    La mamma, però, tende a essere nervosa quando viaggia in aereo. Attraverso lo spazio tra i sedili davanti ho notato il suo collo, rigido per la paura. A voce più alta di quanto volesse ha chiesto a papà, seduto accanto a lei: «L’aereo reggerà, Nicholas?».

    «Certo» ha detto lui, accarezzandole la mano sul bracciolo.

    Sfortunatamente anche Amelia aveva sentito. Amelia ha sempre buone intenzioni, più o meno, ma ha un talento particolare per dire la cosa sbagliata. Così si è sporta in avanti e ha commentato: «Signora Courtney, le ali di un Airbus A330 sono collaudate per reggere uno spostamento di 5,2 metri. Ci vorrebbe uno sbalzo di pressione improvviso ed eccezionale per strapparle».

    La mamma ha ritratto la mano da quella di papà, le nocche bianche.

    «Ma da dove tiri fuori questa roba?» ho chiesto ad Amelia.

    «Quale roba?» ha replicato lei, sinceramente confusa.

    La mamma di Amelia e la mia si erano incontrate nel reparto maternità quattordici anni prima; noi ci conosciamo da quando eravamo piccoli. Come funziona il suo cervello, però, non lo capirò mai. Non le manca certo la capacità di elaborazione, lo ammetto, ma la usa per le cose più assurde.

    «Amelia intende dire che siamo perfettamente al sicuro, mamma» ho detto io, mentre un’altra turbolenza mi sollevava dal sedile, facendomi ridacchiare. «Il vento ci sta soltanto dando una mano. Arriveremo a Kinshasa in men che non si dica.»

    2

    Mi sbagliavo. Le turbolenze sono peggiorate. Qualcuno, un paio di file dietro di noi, ha vomitato (verso l’alto!) e qualcun altro più avanti è crollato completamente mettendosi a piangere. Qualche minuto più tardi, benché dal finestrino non riuscissi ancora a vedere nulla oltre al cielo blu, la voce supercalma del copilota ci ha informato che il brutto tempo si era concentrato sopra Kinshasa. Per ragioni di sicurezza ci stavano dirottando dall’aeroporto di N’Djili a un altro posto che iniziava con la R, o forse con la D. In ogni caso Amelia ci ha fatto sapere immediatamente che era distante cinquecento chilometri. Questa notizia ha trasformato la paura della mamma in frustrazione: si è dimenticata dell’ansia che le ali potessero staccarsi e precipitare e ha iniziato a temere di perdere il primo degli incontri che aveva programmato nei giorni precedenti al summit sull’ambiente, per partecipare al quale lei e papà stavano arrivando in volo fin lì.

    Ho cercato di calmarla. «È solo a qualche ora di macchina, mamma.»

    «Su un’autostrada asfaltata, sì» ha precisato Amelia. «Ma per una distanza del genere ci possono volere diversi giorni su strade sterrate, specie nella stagione delle piogge, in cui siamo adesso» ha aggiunto, credendo di essere d’aiuto.

    Anche papà ha cercato di rassicurare la mamma sul fatto che sarebbe andato tutto bene. Saremmo arrivati in tempo per esercitare un peso reale sul voto, ha detto, ma con lo stesso tono di voce che aveva utilizzato per dirmi che il collegio sarebbe stato una passeggiata – cosa che non era – e si capiva che neanche lei gli credeva.

    Questo voto che papà e mamma – Janine e Nicholas Courtney, tra i fondatori della Courtney Conservation Foundation, per chiamarli con i nomi che esercitavano tanta influenza tra gli ambientalisti – speravano di contribuire a far approvare era il più recente di una lunga serie di interventi organizzati dalla fondazione. Da quando sono andati in pensione anticipata dai loro lavori in ambito finanziario nella City, l’ecoattivismo tramite la fondazione è diventato il loro unico scopo. È un modo piuttosto generoso di spendere il proprio tempo e il proprio denaro, immagino, ma se devo essere onesto, benché io supporti completamente tutta questa faccenda del salvare il pianeta, non riesco a entusiasmarmi quanto loro. E questo era il motivo per cui la mamma aveva insistito che li accompagnassi in quel viaggio. Mentre nella capitale, Kinshasa, i miei avrebbero fatto pressione su dirigenti d’azienda, funzionari governativi e ministri, io e Amelia saremmo partiti per un safari in uno dei parchi nazionali del paese, per dare un’occhiata alle meraviglie naturali che mamma e papà erano qui per proteggere. Anche se non lo aveva ancora detto chiaro e tondo, sapevo che la mamma sperava che una volta visto di persona ciò che veniva minacciato sarei stato più propenso a fare la mia parte per aiutare. E forse sarebbe stato davvero così. Di certo ero pronto a incontrare un po’ di gorilla. In ogni caso, il loro habitat e la grande votazione per decidere se proteggerlo o svenderlo alle compagnie minerarie erano la ragione per la quale ora stavamo atterrando nell’aeroporto sbagliato da qualche parte nella Repubblica Democratica del Congo.

    Per ore sotto l’aereo non si erano visti che alberi. Come mi aveva fatto notare Amelia, stavo guardando la seconda foresta pluviale più grande del mondo dopo quella amazzonica, in un paese che aveva grossomodo le dimensioni dell’Europa occidentale, proprio al centro dell’Africa. Non ho potuto non pensare che se i gorilla non erano in grado di organizzarsi, laggiù, la fondazione Courtney avrebbe avuto il suo bel daffare per aiutarli; ma non l’ho detto alla mamma, ovviamente. Non sono un completo idiota. Invece mi sono messo ad ascoltare Amelia, che – come al solito – aveva fatto le sue ricerche e mi ha tenuto una minilezione sulla corruzione endemica che i cittadini della Repubblica Democratica del Congo dovevano tollerare.

    «È dilagante» ha detto. «Probabilmente è il paese più corrotto della Terra. Ci sono più tesori minerari nel sottosuolo qui che in qualsiasi altro posto, eppure la popolazione è tra le più povere al mondo. Perfino quelli che scavano in prima persona per estrarre l’oro, il cobalto e il tantalio – che viene usato per i cellulari – vedono a malapena un’ombra del loro valore. Le aziende straniere cinesi e occidentali corrompono le forze dell’ordine, acquistano per un’inezia quello che viene estratto, lo vendono all’estero e si intascano i profitti. Se il governo non si farà avanti sul serio – e i tuoi sono qui per influenzare proprio questa votazione – la nazione perderà il novantacinque percento della sua foresta pluviale nei prossimi otto anni. Aggiungi i miliziani, che hanno trasformato la maggior parte del territorio in una zona di guerra, e la deforestazione per produrre carbone, e le minacce alla fauna selvatica derivanti dai bracconieri…»

    A poco a poco la sua voce si è spenta. A guardare il placido paesaggio verde sotto di noi era difficile credere all’enormità di quei problemi. Ma Amelia non mente – è una delle cose che mi piacciono di più di lei – e mamma e papà non avrebbero concentrato lì i propri sforzi se non fosse stato necessario.

    Il pilota ha frenato con violenza quando finalmente abbiamo toccato il suolo. Per me è stato quello il momento più spaventoso. Come per qualsiasi salto, l’atterraggio è la parte peggiore. Abbiamo proseguito a scossoni fino a rallentare alla fine della pista, la cintura stretta sullo stomaco, e poi siamo tornati indietro al piccolo terminal.

    Al controllo passaporti c’erano due tizi. Il nostro indossava un cappello di circa quattro taglie più piccolo rispetto alla sua testa. Quando ho fatto l’errore di indicarlo ad Amelia, lei ha detto a voce alta: «È da bambino, dev’essere scomodissimo», e per un terribile momento ho pensato che l’uomo avesse sentito, perché ci ha fulminato con lo sguardo. Quello che papà mi aveva raccontato del paese e dei suoi problemi – scontri tra miliziani, rapimenti di turisti e un’epidemia di furti di strada – mi è tornato alla mente. A quanto pare aveva organizzato il tutto in modo che nel nostro safari fossimo scortati da ex militari, per scongiurare qualsiasi minaccia. «Noi Courtney non ci faremo intimidire, ma ho preso ogni precauzione per assicurarmi che voi ragazzi restiate al sicuro. Non si è mai troppo cauti, qui» aveva detto.

    3

    Si è scoperto presto che papà per primo avrebbe dovuto seguire il suo stesso consiglio. Abbiamo recuperato i bagagli (dal nastro trasportatore più cigolante della storia) e siamo usciti, ritrovandoci sul bollente cortile di cemento di fronte all’aeroporto, dove una folla variopinta, a giudicare dal rumore delle voci, sembrava volere disperatamente qualcosa: soldi, è ovvio, in cambio di corse sui taxi, stanze d’albergo, banane, cofanetti di dvd pirata e perfino, a dar retta alla vecchia signora che indossava buffe scarpe da ginnastica, barattoli di colla. Gli altri passeggeri del nostro volo dirottato erano in piedi nel sole accecante e cercavano di capire come agire. Ci siamo fatti strada a fatica attraverso la folla sul marciapiede. Il tizio accanto a noi sembrava si fosse portato in viaggio tutto ciò che possedeva, compreso un set di mazze da golf che sono cadute dal carrello dell’aeroporto quando Amelia ci è andata a sbattere contro. Le mazze sono scivolate fuori, le palline hanno cominciato a saltellare.

    L’ho aiutata a recuperarle mentre papà, mani sui fianchi, gambe divaricate, sosteneva che avremmo dovuto trovare un albergo prima di decidere cosa fare. La mamma non voleva sentirne parlare, però.

    «Dobbiamo noleggiare un aereo che ci porti immediatamente alla capitale» ha detto.

    «Ma il tempo…» La voce di papà è stata sovrastata dallo stridulo sferragliare di una motocicletta che si avvicinava.

    «Probabilmente ora che torniamo là sarà migliorato!» ha tuonato la mamma sopra al rumore. Aveva cambiato disco, la paura di volare non poteva stare alla pari con la sua determinazione ad andare fino in fondo.

    Come mi succede spesso, ho percepito che qualcosa non andava prima che accadesse. La motocicletta ha virato verso di noi. Nessuno dei tizi che c’erano sopra portava il casco. Avrei scoperto più tardi che in Africa è la norma, eppure in quel momento sono rimasto sorpreso nel vedere goccioline di sudore sulla fronte del guidatore. Il passeggero sul sedile posteriore si è chinato verso papà mentre si avvicinavano. Papà va in palestra tre volte a settimana e i suoi riflessi sono ancora abbastanza rapidi da permettergli di battermi a ping-pong la metà delle volte, ma si è reso conto di quello che stava succedendo come se fosse sott’acqua, e non ha fatto niente di ragionevole per proteggersi; è rimasto in piedi sul posto e basta. La motocicletta gli ha tagliato la strada e papà è incespicato in avanti mentre il ladro, dopo avergli strappato di mano la valigetta, lo spingeva a terra.

    La motocicletta era vecchissima, il tubo di scappamento distrutto, la capacità di allontanarsi velocemente abbastanza irrisoria. Ma è riuscita a superarci prima che io potessi riafferrare la valigetta e, vedendola zigzagare tra la folla che si era radunata, ho capito che non l’avrei potuta raggiungere.

    Oltre ad avere conosciuto il mio amico Xander, non era accaduto quasi nulla di buono durante il mio primo anno di collegio, a parte imparare un gioco chiamato tetti. È vietato e perciò è popolare, e prevede di tirare una pallina da tennis dal cortile fin sul tetto dell’edificio di quattro piani dello studentato: l’idea è che il ragazzo successivo nella fila prenda al volo la palla quando torna giù. Sembra semplice detto così, ma lo studentato è un vecchissimo relitto vittoriano e il tetto è punteggiato da ogni sorta di spioventi, abbaini e contrafforti. Se lanci la palla abbastanza in alto e con precisione, quelle assurde pendenze si trasformano in un flipper e fanno sì che sia molto difficile prenderla al volo. Se lanci ancora più in alto potresti rompere una tegola, che è il motivo per cui il gioco è vietato, ed ecco spiegate quattro delle sei punizioni che ho ricevuto durante il primo trimestre.

    Mentre la motocicletta si faceva strada tra la folla di passeggeri sbalorditi e rumorosi venditori ambulanti, mi sono reso conto che stavo ancora stringendo una delle palline da golf che erano rotolate fuori dalla sacca di mazze rovesciata. In nessun modo avrei potuto colpire la moto, il guidatore o il passeggero in quella confusione. Ma la strada passava vicino al lato dell’edificio in mattoni del terminal subito dietro la folla, e prima di capire cosa stessi facendo avevo scagliato quella pallina da golf dritta contro il muro con tutta la pratica accumulata in un anno da distruggitegole. Le palline da golf rimbalzano con violenza. Quella che avevo gettato stava ancora volando parallela al suolo quando ha colpito i mattoni. Avevo azzeccato l’angolo: certo, era un lancio fortunato – Amelia non avrebbe perso tempo a farmelo notare, dopo – ma va detto che ho un buon braccio. In ogni modo la pallina da golf ha colpito il tizio che guidava la motocicletta dritto in faccia, con sufficiente forza da fargli perdere il controllo. Ha scartato contro il cordolo e sono caduti entrambi. Quando sono riuscito a superare la folla il guidatore era di nuovo a cavalcioni della moto, e dava gas come un pazzo. Il suo passeggero si era messo a correre e a saltare per tornare in sella.

    La valigetta era caduta durante lo schianto. L’ho raccolta e l’ho restituita a papà. Lo scemare dell’adrenalina mi ha lasciato scosso, nel ridargliela, ma, avendo fatto una cosa evidentemente utile, non erano solo i postumi dell’essermi gettato nell’azione che mi hanno impedito di incrociare il suo sguardo. Stranamente, il successo mi rendeva ancora più difficile del solito guardarlo dritto negli occhi. Questo imbarazzo non era nuovo; era un bel po’ di tempo che non riuscivo ad affrontarlo faccia a faccia.

    «Grazie!» ha detto lui. «Il passaporto, il portatile, tutti i nostri soldi. Sei stato fantastico, Jack. Che gesto…» Si è zittito a mano a mano che parlava. Ho sentito il suo sguardo su di me. Dalla voce sembrava contento, ma adesso, quando mi guardava, cosa vedeva davvero?

    4

    Per provare a indovinarlo, devo tornare indietro di quattro anni, a quando ne avevo solo dieci, e Mark, mio fratello, dodici e mezzo. Mark era bravo in tutto: sport, matematica, arte, suonare la chitarra elettrica, cucinare i pancake, programmare, camminare sulle mani, parlare francese, giocare a scacchi, fare le impennate… e la lista prosegue. Ma era modesto. Quando faceva qualcosa bene, al massimo sorrideva, si passava una mano tra la massa di capelli biondo scuro, faceva spallucce. Non era nemmeno competitivo. La metà delle volte, qualsiasi cosa stessimo facendo, mi lasciava vincere. Lo adoravo per questo, ma allo stesso tempo non lo sopportavo.

    Un venerdì pomeriggio stavamo tornando a casa a piedi da scuola. Era estate e avevamo appena passato una giornata a fare sport. Avevo ancora la sabbia nei calzini per via del salto in lungo, che avevo vinto – per la squadra del mio anno, quantomeno. Avevo vinto anche i cento metri. Sia Mark sia la mamma lo sapevano: mi avevano visto trionfare, e tuttavia non potei trattenermi dal menzionarlo nuovamente mentre passavamo davanti al ferramenta. Avevo solo dieci anni, ma perfino allora capivo che dir loro che avevo vinto quando lo sapevano già era patetico. Eppure nessuno dei due lo fece notare. Potevo accettare la gentilezza della mamma, ma il «Grande!» di Mark mi fece solo vergognare di più.

    «Davvero grande» ripeté.

    «Sono diventato più veloce» dissi. «Il più veloce del mio anno.»

    Lui non replicò.

    «Sì, probabilmente sono veloce come te.»

    Lui sorrise e si passò le dita nella frangia.

    «Non mi credi, vero?»

    «So che la tua gara l’hai vinta.»

    «Posso dimostrartelo, se vuoi.»

    Lui si rivolse alla mamma e cambiò argomento. «Cosa c’è per cena?»

    «Posso. E lo farò» proseguii io.

    Un camion della nettezza urbana si era fermato all’imbocco della nostra strada, e uomini in gilet fluorescenti stavano dividendo plastica, cartone e vetro in pile diverse. Il poco traffico che c’era si era incolonnato dietro al camion. Passammo davanti a una Mini decappottabile col tettuccio abbassato. Il guidatore aveva i capelli corti e una barba lucida e rifilata. Dalla macchina si alzava della musica classica, uno svolazzo di violini accompagnato dallo schianto delle bottiglie che cadevano dai cassonetti. L’autista stava sporgendo il capo per vedere cosa c’era oltre il camion mentre l’odore acre dei fumi del motore si spandeva bollente nell’aria.

    «Fish&chips. Che te ne pare?» propose la mamma.

    «Squisito» rispose lui.

    «Facciamo a chi arriva prima a casa, Mark. Vedrai» dissi io.

    «Ma dopo questo pomeriggio sarai stanchissimo.»

    «No. Fino al lampione davanti a casa.»

    «Be’, non so se ho abbastanza energia» disse Mark. «Con questo caldo.»

    «Non fa così caldo» ribattei io. «Secondo me hai paura.»

    «Allora ho paura» replicò lui.

    «Se non vuoi correre è perché hai paura che vinca io. Perciò in un certo senso ho già vinto.»

    «Hai vinto, quindi. Congratulazioni.»

    Il rifiuto di Mark di accettare la sfida peggiorò solo le cose. Visto che non raccoglieva le provocazioni, con grande imbarazzo sentii me stesso implorare: «Ti prego…».

    A quel punto rifiutare sarebbe stata una cattiveria, così cedette. Sorrise e scosse il capo. «Oh, va bene. Ma vacci piano con me.»

    «No. Devi correre sul serio. Come se fosse una gara. Perché lo è.»

    «Certo.» Passò alla mamma lo zaino. Lei stava già portando il mio, tenendo il telefono tra la spalla e l’orecchio.

    Da davanti venne un altro schianto di bottiglie; da dietro si alzarono i violini, insieme ai giri del motore.

    «Fino al lampione» disse Mark.

    «Sì, quello davanti a casa.»

    Non era la nostra prima gara; sapevamo entrambi qual era la linea del traguardo.

    «Vuoi un po’ di vantaggio?» chiese Mark.

    «No.»

    Si strinse nelle spalle. «Dai tu il via, allora.»

    Alzai lo sguardo su di lui. Aveva i tratti marcati di papà, addolciti dalle lunghe ciglia e dalla bocca ampia della mamma. Il sole gli aveva fatto spuntare le lentiggini. I suoi occhi erano verdi, sorridenti eppure in un certo senso seri, proprio come mi meritavo in quel momento.

    Feci un respiro profondo, un passo indietro, urlai «Via!» e partii sfrecciando.

    Ero migliorato sul serio. Uno scatto della crescita o qualcosa di nuovo nella tecnica mi aveva aiutato a vincere la gara del pomeriggio con facilità, proprio come ora avrei battuto Mark. Udivo i miei piedi battere sul marciapiede, sentivo le braccia spingermi avanti, ero sbalordito dalla sensazione della mia stessa accelerazione. Il mio riflesso baluginava nei finestrini delle macchine parcheggiate. Ero in testa. Riuscivo a percepire Mark dietro di me, ma quando girammo attorno alla cassetta delle lettere all’angolo ero ancora primo. Lì il marciapiede si allargava. Mi misi sulla linea di mezzo e corsi con tutta la forza che avevo, convinto che avrei potuto batterlo eppure nello stesso tempo aspettandomi di vederlo superarmi.

    Il lampione era in vista, proprio davanti a casa nostra. Per arrivarci dovevamo attraversare la strada. A mano a mano che ci avvicinavamo al margine del marciapiede i nostri passi presero lo stesso ritmo, ma la sua falcata era più lunga. Lo sentivo accostarsi a me, avvertivo il suo respiro ansimante, che recuperava terreno a ogni passo. Stavamo volando. In quel momento lo amavo e lo odiavo con tutto il cuore.

    Da qualche parte dietro di noi l’uomo nella Mini era finalmente riuscito a passare davanti al camion dei rifiuti. Con i suoi violini e la sua barba curata e il tettuccio abbassato nel sole doveva provare una sensazione di libertà, che lo spingeva anche ad accelerare. Ma io non lo sapevo. Non udii il rombo del motore aumentare né sentii altro oltre allo sforzo del mio corpo che correva alla sua nuova massima velocità, appena scoperta. Non mi accorsi di niente finché non saltai giù dal marciapiede davanti all’attraversamento pedonale e avvertii una terribile frenata, qualcosa di enorme e compatto sterzare dietro di me, quindi vidi la luce riflessa dalla vernice verde metallica rimbalzare sui parabrezza mentre la Mini sbandava di lato schiantandosi contro il passaruota posteriore di una Ford Fiesta parcheggiata e facendola volare come un ariete contro Mark.

    Non morì sul colpo. Quando mi resi conto di quello che era successo e mi girai, vedendo il guidatore della Mini scendere dalla parte del passeggero e la mamma correre più veloce che poteva sul marciapiede, togliendosi di dosso gli zaini, Mark era ancora cosciente, anche se incastrato tra la Ford distrutta e il muretto di un giardino. Fui io a raggiungerlo per primo. Sembrava confuso. Agitava debolmente il braccio libero mentre cercava di respirare. Era come se io non ci fossi. Batté le palpebre e il suo sguardo mi attraversò senza vedermi e poi la testa gli ricadde di lato contro la spalla, e la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1