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Non parlare con gli sconosciuti
Non parlare con gli sconosciuti
Non parlare con gli sconosciuti
E-book588 pagine7 ore

Non parlare con gli sconosciuti

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Info su questo ebook

Un grande thriller

Arriva dai primi posti delle classifiche irlandesi il bestseller dell’anno

Carla Kelly, una top model di successo, una mattina si sveglia e trova la culla della sua bambina, una neonata di soli due giorni, fredda e vuota. Sua figlia Isobel è stata rapita. Sull’orlo della disperazione, Carla chiede aiuto alle autorità e alla stampa nazionale, ma invece di ricevere aiuto viene giudicata per come si è comportata nei mesi precedenti, quando è apparsa su tutti i media con il pancione, usando la gravidanza per guadagnare visibilità e denaro. Oltre alle offese e alle critiche della gente, le indagini vanno a rilento. Non c’è nemmeno uno straccio di pista da seguire, niente che possa far sperare in una rapida soluzione del caso. Un giorno, però, Carla riceve la lettera di qualcuno che le offre un aiuto insperato. Inizia così la sua personale e disperata battaglia per ritrovare la figlia, un viaggio che la porta indietro nel tempo, a un momento della sua vita che sperava fosse sepolto, per sempre. C’è qualcuno là fuori che ha deciso di vendicarsi…

«Una storia agrodolce di amore e struggimento.»
Evening Echo

«Un romanzo appassionante e commovente.»
Closer
Laura Elliot
è lo pseudonimo con cui June Considine, giornalista e scrittrice di libri per bambini, firma i suoi libri per adulti. È nata a Dublino, e vive a Malahide, una città costiera sul lato nord dell’Irlanda. Ha all’attivo cinque romanzi di successo, Non parlare con gli sconosciuti è il primo tradotto in italiano.
LinguaItaliano
Data di uscita9 set 2016
ISBN9788854198555
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    Anteprima del libro

    Non parlare con gli sconosciuti - Laura Elliot

    1363

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è del tutto casuale.

    Titolo originale: Stolen Child

    Copyright © June Considine 2010

    June Considine asserts the moral right to be

    identified as the author of this work

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Valentina Cabras, Federica Di Egidio, Silvia Russo

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9855-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Cover: Elaborazione da © Shutterstock.com

    Laura Elliot

    Non parlare con gli sconosciuti

    Vieni via, oh, fanciullo umano!

    Verso i boschi e l’acque mai domate

    con una fata mano nella mano,

    ché nel mondo più lacrime ci sono di quanto mai potrai capire.

    WILLIAM BUTLER YEATS,

    Il bimbo rapito

    1

    Susanne

    Solstizio d’estate 1993

    Ho perso mia figlia la notte più corta dell’anno. Eravamo riparate da vecchie mura mentre la seppellivo in una distesa ombreggiata di lillà e sambuco. È stata quasi mia figlia, un sogno infranto. È rimasta nel mio grembo per sedici settimane prima di venire fuori. È nata il giorno più lungo dell’anno, con le dita delle mani e dei piedi non ancora formate del tutto, le vene delicate come una matassa di seta e il visino da scimmietta.

    Il dolore mi ha colta di sorpresa. Quando è arrivato, ero al cancello che portava a Dowling’s Meadow e stavo dando delle zollette di zucchero ad Augustus. Ho sentito degli spari in lontananza: Mitch Moran stava di nuovo tirando agli uccelli di argilla e, al di là del sentiero, il rumore del traffico delle macchine che andavano troppo veloci sulla strada stretta indicava la fine di un’altra giornata lavorativa. Il crepuscolo era bellissimo, con le nuvole simili a lava che striavano il cielo e le cornacchie che volavano in cerchio e strepitavano sopra gli alberi. Poi l’ho sentito, quel crampo familiare allo stomaco che mi ha attraversato la spina dorsale.

    Quando mi sono allontanata dal cancello, le zollette si sono sbriciolate come ghiaccio sotto i miei piedi. All’inizio il dolore è stato leggero ed è passato subito, come a farmi credere di averlo solo immaginato. Mi sono diretta con cautela verso casa, sperando che ci fosse ancora tempo per salvarla. Ma la sera era caldissima, come se un incendio stesse bruciando la campagna, e le cornacchie sembravano carta carbonizzata che volteggiava nell’aria. Anche i fiori delle siepi mi davano fastidio agli occhi: le primule rosse e i papaveri color sangue si sono mossi quando mi sono piegata sopra di loro, tenendomi lo stomaco finché il dolore non è passato e sono riuscita di nuovo a camminare.

    Mi sono inginocchiata sul pavimento del bagno e mi sono aggrappata al bordo della vasca. I crampi andavano e venivano, e man mano diventavano sempre più forti, più crudeli. Ognuno segnava la fine di un altro sogno. Ho pensato di chiamare David, ma sapevo che prima di riuscire a parlare avrebbe sentito la mia voce rotta e avrebbe capito. Era troppo lontano per potermi consolare, e io non avrei potuto sopportare la sua delusione, non ancora. Poi ho pensato di chiamare il ginecologo, un uomo austero con una profonda conoscenza dell’anatomia femminile, ma non era mai stato in grado di rispondere alla domanda che gli facevo: Perché? Avrebbe scosso la testa e detto qualche frase di circostanza, qualche rassicurazione, e mi avrebbe fatto le condoglianze. Ho pensato anche di chiamare mia suocera: Miriam era pragmatica e gentile, sarebbe venuta subito e mi avrebbe portata all’ospedale senza dire nulla, perché era già stato detto tutto prima. Ma sono rimasta ferma dov’ero, perché sapevo che sarebbe successo tutto di lì a poco e velocemente. Nessuna attesa, nessuna falsa speranza, non c’era tempo se non per superare il labile confine tra vita e perdita.

    Ancora una volta il mio corpo mi aveva tradita, ancora una volta si era ribellato al mio desiderio e aveva distrutto quello che io e David avevamo creato con tanta determinazione.

    Il corpo e la mente sono una cosa sola, diceva sempre Miriam. Lo spirito e la carne sono compatibili e si completano a vicenda. Sbagliato… sbagliato. Il corpo trionfa tutte le volte, e di me non resta che un involucro vuoto.

    Questa piccolina non ha dovuto lottare, è scivolata via con facilità; così minuscola ma capace di una forza brutale mentre abbandonava il mio grembo. Mi sono ricordata di piangere. Dovevo elaborare il lutto ed ero felice di essere sola, non soggetta alle restrizioni di un ospedale dove bisognava tenere in considerazione anche gli altri pazienti. Quando ho finito tutte le lacrime, e arrivava sempre quel momento, ho iniziato i rituali per la separazione. Ormai erano diventati familiari, e di solito erano svolti da ostetriche efficienti che avevano sul viso un’espressione comprensiva: ma poi il loro sguardo andava alle altre madri, quelle che avevano motivo di essere felici.

    Ho avvolto mia figlia in un morbido asciugamano bianco e l’ho cullata, poggiando la schiena contro il muro. Fuori si è fatto buio. Ho sentito caldo e poi freddo, e i miei pensieri da lucidi sono diventati confusi. Perché lottare ancora? Alla fine qualcuno ci avrebbe trovate in ogni caso.

    Ho ignorato il telefono che squillava, ma la persona dall’altra parte era insistente. Quel suono mi ha fatta tremare, ma sono rimasta dov’ero. Quando il telefono ha smesso di suonare, il silenzio mi è entrato nelle orecchie e mi sono accorta degli altri suoni: lo scricchiolio del legno vecchio, il fischio e il gorgoglio dei tubi, i rumori di una casa che era stata abitata da molte generazioni. La veneziana del bagno ha sbattuto contro la cornice della finestra attirando la mia attenzione. Volevo alzarmi e chiuderla per non far entrare l’odore delle violacciocche notturne che avevo piantato in primavera e che invece arrivava a ondate in quell’atmosfera soffocante: dolce e nauseante, reclamava la mia attenzione.

    Il telefono ha squillato di nuovo e ho iniziato a spaventarmi. Se era Miriam sarebbe sicuramente venuta a vedere perché non rispondevo. L’avevo lasciata che stava lavorando nel suo studio; probabilmente era ancora lì e avrebbe continuato fino a tardi, come faceva sempre quando aveva una mostra imminente. Se invece era David dalla piattaforma petrolifera, avrebbe chiamato la madre e il risultato sarebbe stato lo stesso: sarebbe corsa qui per controllare che fosse tutto a posto. La porta sul retro era aperta, avrebbe potuto entrare senza preavviso e sarebbe stato troppo tardi.

    Mi sono alzata e ho posato per terra la mia bambina, il mio fagottino immobile e silenzioso. Ho aperto la porta del soggiorno e ho sbattuto il fianco contro la credenza; le rose gialle in un vaso si sono incurvate, alcuni petali erano già caduti e altri li hanno seguiti, spargendosi in silenzio sul legno lucido, come se il mio respiro affannoso avesse interrotto il fragile legame con il gambo. Da quanto tempo mi stavo trascinando? Minuti? Ore? Da qualche parte nella mia testa ero ancora piegata sui papaveri rosso sangue e le cornacchie volavano in cerchio.

    I miei sospetti erano fondati: Miriam era già in ansia, anche se non in modo eccessivo. Mi ha chiesto come stavo e le ho risposto che stavo bene… bene. Avevo la voce ferma e ne sono rimasta sorpresa. Ferma e calma, ma dentro di me urlavo.

    «È la seconda volta che chiamo», ha detto, e voleva una spiegazione. Le ho risposto che stavo facendo una passeggiata, era una serata così piacevole. Mi ha avvertita che il sentiero poteva essere pericoloso, era facile inciampare su un ramo spezzato o scivolare su un mucchio di foglie; lei conosceva ogni centimetro di quel sentiero, così come David, ma io ero una donna di città trapiantata lì.

    «Faccio un salto mentre torno a casa per vedere come stai», mi ha detto. «Voglio farti vedere i nuovi schizzi».

    Mi sono quasi fatta sfuggire la verità, ma poi ho pensato alla volta prima, e a quella prima e a quella prima ancora… e alle solite banalità trite e ritrite, seppure in buona fede, che si erano fatte di volta in volta più forzate. Il giorno dopo, quando sarei stata più forte e più in grado di gestire il dolore, avrei dato la notizia.

    «Sto andando a dormire», le ho detto. «Li guardo domani, ci sentiamo».

    Mi sono diretta verso la porta principale e ho incrociato le braccia, stringendole al petto. La luce mi avvolgeva ma, oltre il portico, un’oscurità impenetrabile si espandeva per tutto il Burren. Mi è sembrato, mentre ero lì in piedi, che la notte stesse bisbigliando, che anche il vento provasse il mio dolore. Nel fruscio delle foglie contro il muro ho sentito i sussurri sovrastare un ululato che si era alzato dall’oscurità. Il cane di Phyllis Lyons aveva ululato alla luna, e quel suono è sparito così com’era arrivato. Ma i sussurri non si sono fermati. Mi sono sentita annegare in quel potente ritornello, e ho mosso le labbra scandendo le parole, rendendole udibili: «Basta… basta… basta…».

    Cosa vuol dire premeditato? È un piano studiato o un semplice pensiero che prende vita nel momento in cui lo si attua? Ho avvolto la mia bambina in un lenzuolo bianco e poi nel suo sudario di plastica, e l’ho portata in braccio fino al vecchio cottage sul sentiero. Un rudere che troneggiava nella penombra, i muri rivestiti di erica e edera e il terreno coperto di ortiche. Un tempo i bambini giocavano tra quelle mura fatiscenti e ci dormivano avvolti nella paglia, ma ormai non c’erano più né i bambini né la paglia. Ho inciampato tra le radici e i cardi viola che facevano capolino dalla pavimentazione in pietra. L’ho posata tra i convolvoli bianchi e ho scavato la tomba fuori dalle mura. Il giardino non era più un giardino ormai da tanto tempo.

    Un muretto separa i confini. In estate i biancospini e i lillà crescono selvaggi, e nei mesi autunnali i frutti maturi cadono in silenzio da un pruno ormai dimenticato. Volevo darle un nome. Tutti meritano che la propria presenza sia riconosciuta in questo mondo, anche se è stata breve. Joy, gioia, ho sussurrato. Ci avresti dato molta gioia. Il mio corpo soffriva, sanguinava, piangeva per quello che aveva perso; ma quando me ne sono andata da lì la mia mente era fredda e determinata, senza spazio per il dolore o i dubbi.

    Nel corridoio mi sono fermata davanti a uno specchio. Il peso che avevo messo su durante la mia breve gravidanza sembrava essersi staccato dalle guance, i miei occhi azzurri erano duri; era una sconosciuta quella che mi stava fissando dall’altra parte dello specchio, con le palpebre gonfie, sfidandomi o condannandomi. I miei capelli sembravano scuri, le ciocche bionde erano sporche per il sudore e il fango. Non sembravo assolutamente la stessa donna che poco prima aveva attraversato il sentiero, eppure questo cambio di pelle sembrava inutile.

    Mi sono addormentata e mi sono svegliata, poi mi sono addormentata di nuovo. Non ricordo i sogni che ho fatto. L’alba stava scacciando dal cielo le stelle quando mi sono alzata. Ho fatto una doccia per togliermi di dosso lo sporco, ho bruciato i vestiti che indossavo, gli asciugamani e il tappetino del bagno; ho lavato il pavimento e i muri, ho buttato via le rose gialle. Fuori dalla finestra della cucina un uccello stava cinguettando. Era un assolo acuto e ripetitivo, finché altri non si sono uniti al canto. Quel coro ha echeggiato per tutta la mattina.

    Ho chiamato Miriam e le ho detto che per qualche giorno avrei lavorato da casa. In ufficio sarei stata interrotta troppe volte e avevo delle tabelle da preparare e delle chiamate da fare. Più tardi ha chiamato David dalla piattaforma. Gli ho detto che la bambina si era mossa, come una farfalla che batteva le ali vicino al mio cuore. Quelle parole si sono trasformate in veleno nella mia bocca, ma ormai le avevo pronunciate. L’ho sentito sospirare, come se mi avesse posato le mani sul pancione e avesse sentito sua figlia. E intorno a me – nelle crepe delle pareti, negli angoli e nelle nicchie di questa vecchia casa – dopo tutto quello che era successo da quando mi ero trasferita lì, le voci sussurravano: Basta… basta… basta

    2

    Susanne

    Settembre 1993

    Carla Kelly è ovunque, è il volto pubblico della linea Dolce Attesa. La vedo sui cartelloni e alle fermate dei pullman in pubblicità sgargianti. Denti bianchi, labbra piene, capelli lunghi e biondi, e quell’espressione negli occhi castani, uno scintillio soddisfatto, che la fa quasi sembrare una dea… è una futura mamma forte e attraente.

    In questi giorni è sempre la prima celebrità a essere intervistata quando si parla di gravidanza. Ha una rubrica su «Weekend di stile» intitolata Diario della mia gravidanza dove spiega come mantenere la propria sensualità e il gusto della moda in quei lunghi nove mesi, e fa sempre pubblicità a Dolce Attesa. C’è da dire che è sempre stata professionale.

    «La collezione pre-maman Dolce Attesa», mi ha detto Dee Ambrose quando quel pomeriggio ho chiamato la boutique Stork Club, «è l’etichetta più popolare che abbia mai avuto. Lorraine Gardner è un’eccellente stilista e Dolce Attesa è la sua gallina dalle uova d’oro». Sono rimasta così impressionata che ho comprato dei bei pantaloni di lana e una blusa di seta.

    «Perfetta per l’ultimo trimestre», ha detto Dee, poi ha avvolto entrambi i capi nella carta velina e li ha messi in una busta. Era nera con la scritta

    DOLCE ATTESA

    dorata, una busta elegante per una collezione elegante. Uscendo dalla boutique, quasi mi sono scontrata contro la sagoma a grandezza naturale di Carla Kelly. Dee ha riso vedendo che mi stavo per scusare con una pubblicità. Ora solo le grandi campagne possono permettersela. La sua carriera era decollata dopo quella campagna promozionale per la biancheria intima: la sua pelle liscia accarezzata dal pizzo rosso che avevamo visto sui cartelloni le aveva dato notorietà. Gli autisti si erano lamentati perché dicevano che era una distrazione, nell’ora di punta. Lorraine Gardner non sarebbe riuscita ad avere successo con la sua linea Dolce Attesa, se Carla Kelly non fosse stata sua cognata.

    Ho tenuto quella borsa come se fosse stata una bandiera mentre andavo al Nutmeg Café, dove avevo appuntamento con mia suocera. La pioggia battente ha continuato a cadere mentre attraversavo Market Square camminando con attenzione sui ciottoli scivolosi. Giorno sfortunato per il mercato del sabato, con il vento che gonfiava le tende e la gente che si affrettava per ripararsi.

    Il Nutmeg era affollato. L’odore di lana bagnata mi ricordava i pullman pieni nei giorni di scuola. Alcune donne si sono fermate al mio tavolo per dirmi che ero raggiante e anche la cassiera, delicata e con le spalle curve, ha sorriso come se mi conoscesse da sempre e mi ha detto che il pancione era diventato enorme dall’ultima volta che mi aveva vista. Non ricordavo che ci fossimo mai incontrate, ma sapeva che David era tornato dalla piattaforma e che stavo organizzando degli sconti di fine stagione alla vetreria di Miriam. Non ero abituata alla folla, ma qui la popolazione è scarsa e tutti sembrano sapere i fatti miei. Miriam è arrivata poco dopo scusandosi per il ritardo e dicendo di aver incontrato conoscenti praticamente a ogni angolo. Poi mi ha abbracciata, e la cosa mi ha colto di sorpresa: non ho fatto in tempo a spostarmi che mi sono ritrovata nella sua stretta. Mia suocera ha l’abitudine di darmi gomitate, pacche e di abbracciarmi quando meno me lo aspetto. Non sono mai riuscita ad abituarmi alla sua espansività, e credo che la cosa abbia a che fare con l’educazione che mi è stata data – nessuna effusione con i miei genitori. Le avevo raccontato della mia infanzia, del silenzio e della separazione; due persone divise da un muro di indifferenza, talmente affogate nella loro infelicità da non riuscire ad aiutarmi.

    «Questo spiega molte cose», aveva detto Miriam, e aveva provato compassione per me, perché non avevo ricevuto affetto.

    Posso sopportare la sua pietà, ma non che mi tocchi. «Non provocare il destino», le ho detto quando mi ha chiesto se il bambino si muoveva. Ora non chiede più il permesso di toccarmi il pancione, ma oggi, al Nutmeg, mi ha abbracciata talmente forte che ho pensato che il cuore mi sarebbe schizzato fuori.

    Phyllis Lyons è entrata e si è diretta al nostro tavolo. Non ha chiesto se poteva, ma ha dato per scontato che, essendo una vecchia compagna di scuola di Miriam e la mia vicina, avesse il diritto di unirsi a noi. Ha preso la mia borsa di Dolce Attesa e l’ha posata sul tavolo.

    «Forza, signorina, facci un po’ vedere».

    Ho tirato fuori i nuovi acquisti e li ho sollevati per farglieli esaminare. Miriam ha apprezzato la blusa, dicendo che il colore era stupendo. «Blu zaffiro, si intona perfettamente ai tuoi occhi», mi ha detto passando la mano sul tessuto. «Elegante, ma anche comodo», ha aggiunto.

    Phyllis ha letto il cartellino del prezzo. «Dio santo», ha esclamato, «ma li fabbrichi i soldi? Che senso ha essere elegante se sembri una balena? Fossi in te, continuerei a non mettere la cintura».

    Ma che ne poteva sapere? Era una zitella di mezza età e il suo periodo fertile era già passato da un pezzo.

    Miriam mi ha lanciato uno sguardo di scuse e ha rimesso i vestiti nella busta. Anche lei trovava Phyllis irritante. «Ma i vicini», mi aveva detto quando mi ero trasferita a Maoltrán, «hanno la memoria lunga ed è meglio tenerseli buoni».

    «Mi dispiace per lei», ha commentato quando Phyllis finalmente è andata via per ritirare una ricetta per la madre. Non è facile badare a un malato, e la madre lo era sempre stata, da che mi ricordassi.

    Miriam mi ha poi chiesto quando avrei dovuto rivedere il dottor Langley. «La prossima settimana», ho risposto. «Mi prendo il pomeriggio libero, è un problema?»

    «No, figurati, ci mancherebbe», ha detto scuotendo la testa energicamente. La sua ansia mi soffocava, e più cercava di non farlo vedere, più era palese. Era preoccupata perché facevo lunghe tratte in macchina; ma ero la sua responsabile marketing e il mio lavoro consisteva nell’incontrare i clienti. Continuava a dirmi di andare in maternità e stare tranquilla per gli ultimi mesi.

    «Ma cosa ci faccio seduta a casa da sola? Sto bene, voglio lavorare fino all’ultimo».

    «David mi ha detto di tenerti d’occhio per non farti strafare», ha replicato. Poi ha aggiunto che era preoccupata a saperlo sulla piattaforma, perché se fosse successo…

    Si è fermata, a disagio per avermi fatto ricordare che non avevo buoni precedenti quando si trattava di mettere al mondo i suoi nipoti. Io cercavo di non darle motivi di preoccupazione.

    Non è stato difficile fingere la gravidanza: avevo costruito un’imbragatura che si fissava sotto il seno e sotto la pancia, che avevo poi imbottito. Stavo sempre attenta che nessuno mi toccasse e tenevo le antenne sempre in allerta, cauta e vigile. Avevo il viso troppo smunto per una donna all’ultimo trimestre di gravidanza, ma la gente vede quello che vuole, e comunque tutti tenevano sempre gli occhi puntati sulla pancia.

    Speravo che il dottor Langley si fosse dimenticato di me. La sua segretaria aveva reagito con fredda professionalità quando le avevo comunicato di voler cambiare ginecologo, e mi aveva mandato la ricevuta dell’ultima visita e le ecografie.

    All’inizio del mese David era tornato a casa per un po’, la pelle abbronzata e rovinata dai forti venti del Mare del Nord. Avevo cercato di nascondere l’imbragatura e avevo bevuto talmente tanta acqua tutti i giorni che la pancia mi si era gonfiata come una zampogna. Mangiavo solo cibi grassi, ne avevo la nausea ma continuavo a prendere peso. Lui aveva trasformato la stanza per gli ospiti in una cameretta, aveva tinteggiato i muri di un bel verde mela e aveva messo una delle giostrine con i cavallucci marini di Miriam sopra la culla portatile.

    Eravamo andati per un fine settimana a Dublino a trovare mio padre e Tessa, avevamo comprato una carrozzina, la culla, un seggiolino e un fasciatoio. I sussurri aumentavano man mano che sceglievamo; ogni volta che vacillavo mormoravano: Ricordati di noi… ricordati… non si torna indietro… Ogni volta che avevo l’impulso di scappare dall’ombra di quel cottage e porre fine a quel sogno, mormoravano: Resta… resta… Quando la verità premeva per uscirmi dalle labbra talmente forte da far male, incalzavano: Non dire niente; Sii coraggiosa, mi dicevano poi, quando David posava l’orecchio sulla pancia e diceva: «Non sento niente… no, aspetta, forse sì… non riesco proprio a capire».

    Quello che sentiva era la mia paura, il grembo che si contraeva per il terrore.

    È così che nostra figlia sta crescendo, alimentata da sospiri.

    Avevo incontrato un uomo che sussurrava ai cavalli, una volta. Era basso e grosso, e indossava un cappello a tesa larga con una piuma di lato. Essere definito un uomo che sussurrava ai cavalli gli dava un’aura di mistero e di forza, ma lui aveva detto di essere semplicemente una persona che capiva quegli animali. Era venuto da noi dopo che avevamo preso Augustus – aveva troppe cattive abitudini ed era impossibile per noi gestirlo da soli. L’avevo guardato piazzarsi davanti al cavallo, prima faccia a faccia e poi guancia a guancia, non in modo minaccioso ma con empatia, raggiungendo la sua anima e collegandosi alla furia che alimentava il suo comportamento. Quando finì, Augustus era sempre focoso ma obbediente. Ora non è più nella prateria, l’abbiamo venduto a un commerciante di cavalli. Ho detto a David che si era imbizzarrito e mi aveva quasi fatta cadere. Vederlo al cancello ogni volta che passavo di lì era troppo da sopportare. Volevo dimenticare.

    Succederà, hanno promesso i sussurri. Fidati di noi… credi in noi… siamo i sussurri di quello che sarebbe dovuto accadere.

    David all’inizio era riluttante a non dormire nel nostro letto, ma gli ho detto che avevo perso un po’ di sangue e aveva capito. Niente avrebbe dovuto mettere in pericolo la nuova vita che avevamo creato; l’ho rassicurato sul mio amore, gli ho spiegato che in gravidanza gli ormoni impazziscono e che fare l’amore era impossibile. Dopo, gli ho promesso, quando la bambina sarebbe nata, sarebbe stato tutto diverso.

    Quand’ero tornata a casa dallo studio, la sera prima che partisse, mi aveva chiesto di sedermi e di parlargli; aveva messo le mani sulle mie braccia e mi aveva tirato sulla sedia.

    «Stai ferma e ascoltami. Tutto questo andare di fretta e lavorare fino a tardi… a parte la gita a Dublino, ti ho vista a malapena da quando sono tornato».

    Poi mi aveva baciata, aspettando una mia reazione. Il mio corpo si era irrigidito e l’avevo accusato di essere troppo esigente, egoista, di pensare solo ai suoi bisogni. Com’è possibile che non abbia sentito il terrore che c’era dietro la mia sfuriata?

    «Perché mi respingi? Pensi che sia una bestia incapace di stare nel tuo stesso letto senza metterti le mani addosso?».

    Per poco non gli avevo detto tutto. Avevo sentito le ginocchia tremare, l’impulso di inginocchiarmi davanti a lui e confessare, ma i sussurri da persuasivi erano diventati perentori, e mi avevano fatto drizzare la schiena. L’avevo respinto, l’uomo di cui avevo tenuto in grembo, per così poco tempo, i figli, tutti e cinque, e che adesso mi spingeva ad andare oltre. Basta… basta… basta.

    Si era scostato da me e mi aveva dato un bacio casto sulla fronte augurandomi la buonanotte. Capivo che voleva essere partecipe della mia esperienza, ma era un viaggio che dovevo fare da sola.

    Aveva smesso di piovere quando siamo uscite dal Nutmeg, e gli acquirenti erano tornati tra le bancarelle del mercato. Una zingara era seduta su un lenzuolo proprio fuori dal locale; era molto giovane, sulla ventina, e aveva un ragazzino in braccio e un bambino con lo sguardo annoiato accucciato a fianco. Ho cercato qualche moneta nella borsa, ma Miriam è tornata nel bar a comprare caffè e panini per la madre e latte per il bambino. «È un maschietto, signora», ha detto la zingara. «Un bel maschietto per la mamma robusta».

    I suoi occhi duri ed esperti sembravano aver capito il mio segreto. Il marciapiede si è mosso, o forse sono stata io a inciampare, e le monete mi sono cadute di mano rotolando sulla superficie irregolare finché il bambino non le ha afferrate.

    Phyllis Lyons è tornata dalla farmacia dove aveva preso le medicine per la madre, e mi ha chiesto se potevo darle un passaggio a casa: la sua macchina era dal meccanico e aveva perso il pullman, che passava ogni due ore. Miriam ha salutato e ci ha lasciate, felice di scappare a casa sua, dall’altra parte di Market Square.

    Durante il viaggio di ritorno, Phyllis ha continuato a parlare dei disturbi della madre e di come stesse cercando di attenuarli. Mi sono fermata davanti al suo cancello e ho aspettato che scendesse dalla macchina.

    «Entra a salutare mamma. Le fa piacere avere un po’ di compagnia».

    Ho guardato le tendine di pizzo grigio della finestra: sua madre ci stava probabilmente osservando, appoggiata al deambulatore. La stanza doveva essere piena di fumo e l’aria viziata.

    «Aspetto una chiamata di David», ho detto, e Phyllis ha annuito come se la mia scusa si fosse persa tra tutte le altre che aveva sentito.

    È scesa dalla macchina e ha fatto il giro a lato della casa, schiacciandosi contro il trattore. Coltivare il suo pezzo di terra e badare alla madre… non era certo una vita facile, ma lei accettava tutto senza lamentarsi.

    Ho imboccato la stradina e sono tornata tra le braccia grigie di Rockrose, chiudendo a chiave la porta. Finalmente di nuovo da sola, in grado di respirare, di togliermi l’imbragatura, di permettere al rumore di calmarsi finché non si fossero sentiti solo i sussurri.

    Parlo sempre con altre donne. Mi guardano il pancione e si fidano. Una mi ha detto che non le era mai capitato, neanche una volta durante la gravidanza, di sentire il suo bambino che si muoveva. Ora ha diciotto anni e ha vinto una borsa di studio sportiva per gli Stati Uniti. A un’altra il ginecologo aveva detto che non riusciva a sentire il battito del suo bambino; quella notte, per la prima volta, lei ha sentito la vita nel suo grembo. Se si mette insieme un gruppo di donne, racconteranno storie che confonderanno le idee sulla professione medica.

    Carla Kelly scrive di loro nel suo diario di gravidanza. Le storie felici di bambini che si muovono, scalciano e sgomitano finché non nascono. Poco dopo quella notte le avevo spedito una lettera, le avevo chiesto come fosse possibile avere ancora speranza quando il corpo rifiuta quel sogno. Ovviamente era una lettera anonima. Lei non era riuscita a gestire la mia storia e aveva inoltrato la lettera ad Alyssa Faye per la sua rubrica di consigli. Come psicologa, Alyssa Faye credeva di poter capire meglio la psiche umana rispetto a una semplice giornalista. La sofferenza era pane per i suoi denti. Per tre settimane aveva analizzato i miei aborti, la mia testa, le mie emozioni. Ma io non avevo certo scritto la mia storia per riempire la sua rubrica, volevo vedere se Carla Kelly avrebbe capito, se fosse capace di empatia. Avevo avuto la mia risposta.

    La scorsa settimana a Dublino l’ho vista col marito da Brown Thomas. Almeno, ho presunto fosse il marito. Si teneva lontano dai riflettori, ma da come lei gli teneva il braccio si intuiva che lui era la sua roccia. Stavano guardando dei vestitini per neonati. Li ho seguiti per tutto il negozio e poi fino a Grafton Street. I fiorai erano impegnati. Le strelitzie risaltavano contro i crisantemi bianchi, e i boccioli di rose legati stretti tra loro sporgevano come lance da contenitori stracolmi. Carla ha comprato le rose e ha proseguito. Quando sono entrati nel centro commerciale Stephen’s Green li ho persi di vista. Probabilmente sarei riuscita a ritrovarla – era alta e spiccava tra la folla – ma ero troppo debole per riuscire ad andare avanti. Mi sono seduta in un bar e ho chiesto un bicchiere d’acqua. La cameriera aveva gli occhi esperti di una donna più grande che valuta i mesi. Mi ha portato l’acqua e mi ha chiesto se volevo che mi chiamasse un taxi.

    «Si pensa che non finirà mai, soprattutto gli ultimi mesi», ha detto. «Ma finisce, e poi si capisce tutto».

    Parlava con soddisfazione – lo facevano tutte – avvertendomi della confusione imminente e delle piccole esigenze che mi avrebbero sconvolto la vita.

    Il taxi è arrivato poco dopo, e mentre me ne andavo ho visto di sfuggita Carla Kelly e il marito. Stavano ridendo per qualcosa che uno dei due aveva detto. Lei aveva la testa piegata all’indietro e la mano che le copriva la bocca, come se la sua risata fosse qualcosa di selvaggio da trattenere. Era da tanto che non ridevo così. L’avevo mai fatto? Sicuramente sì, soprattutto i primi tempi con David. Ora rido a comando. Sembra naturale, spontaneo, addirittura contagioso. Nelle pubbliche relazioni, dov’è necessario adulare e ammirare, ho acquisito delle abilità. Ora dipendo proprio da queste abilità; ma ogni tanto sbaglio, e allora devo solo toccarmi la pancia: con quel piccolo gesto posso permettermi di essere stanca, ansiosa, irritabile, a disagio e, a volte, irrazionale.

    È stato irrazionale seguire Carla Kelly quel giorno? Certo che sì. Ora me ne rendo conto, ma era il volto di Dolce Attesa; ci prendeva in giro, si pavoneggiava, ci diceva che era facile, estremamente facile e naturale portare in grembo per nove pericolosi mesi un bambino.

    Anch’io avevo tenuto un diario. L’ultima volta che ci avevo scritto avevo sedici anni. Strano pensare che ne sono passati venti. Allora ero incinta di otto mesi; ero quasi al traguardo, per così dire, e sul punto di entrare a far parte delle statistiche delle madri adolescenti. Avevo perso il bambino a marzo, prima che avesse il tempo di fare il suo primo respiro. Dopo quella volta avevo lasciato le pagine in bianco. Il mondo era diventato più grigio, non c’era niente che valeva la pena di annotare, non mi era rimasto niente tranne le ecografie e la fantasia di quello che sarebbe potuto essere.

    «L’hai proprio scampata», aveva detto mio padre quando ero stata dimessa dall’ospedale. «La cosa migliore che puoi fare è andare avanti con la tua vita e dimenticare quello che è successo». Si era occupato lui di tutto e mi aveva scoraggiata dal visitare la parte del cimitero di Glasnevin dedicata ai bambini nati morti. Quello spazio comunale, caro, dove i neonati riposano insieme è un posto che suscita emozioni intensissime.

    «È un nuovo inizio per tutti noi, non si guarda indietro», aveva affermato. Mia madre era già morta e lui stava per risposarsi. Non era più l’uomo arcigno e con lo sguardo spento che conoscevo: il suo viso era più paffuto e rideva spesso di gusto. Guardavo Tessa e mi chiedevo come una donna così piccola e insignificante, con gli occhiali senza montatura e che balbettava leggermente quand’era nervosa potesse averlo cambiato così tanto.

    Non l’avevo biasimato se non voleva iniziare la sua nuova vita da sposato con un’adolescente problematica e suo figlio, ma avrei voluto che non fosse stato così sollevato, così determinato a cancellare la mia esperienza. Ma non è mai stata cancellata, solo sepolta appena sotto la superficie… come mio figlio.

    Avevo tenuto il diario per tutti quegli anni, ma non avevo mai avuto voglia di leggerlo fino a quella notte nel cottage. Strano riscoprire me stessa da ragazzina. Stavo senz’altro percorrendo una strada difficile sfrecciando in una direzione obbligata.

    Ora sto riempiendo quelle pagine bianche. Le date non hanno importanza, il tempo è bloccato. Scrivere di quell’esperienza mi aiuta, altrimenti sarei impazzita. Come ho fatto a elaborare tutto quel dolore? Doveva esserci una ragione… doveva. Sono passati tre mesi e il ricordo è aggrappato ai miei sensi. Sento il rumore metallico della pala, l’umido, l’odore della terra. Vedo quel piccolo fagotto riposare nella buca stretta. Sento il terreno argilloso sotto le unghie, le spine graffiarmi le gambe, lo sfogo provocato dalle ortiche sulla pelle. E il sapore che mi rimane in bocca è amaro come bile.

    È ora di chiudere il diario e andare a dormire; chiuderlo e mettere a tacere i sussurri, chiudere quelle pagine ammuffite e intrappolare il futuro, mentre aspetta trepidante.

    3

    Carla

    Ottobre 1993

    Carla Kelly tirò su le braccia per farsi infilare il vestito da sposa. La seta color avorio rivestita di pizzo le si posò sulle spalle prima di avvolgerle il pancione, poi la truccatrice le applicò il fard sulle guance e il mascara. Una costumista strinse il corsetto del vestito da sposa nero in stile gotico di Lizzy Carr, che ai piedi aveva già degli aggressivi tacchi a spillo. Il suo viso bianco era enfatizzato da un rossetto nero. Il trucco di Carla, invece, era una delicata combinazione di rosa pesca e oro.

    Chinò la testa mentre il parrucchiere spegneva il phon e le passava le mani tra i capelli, sistemandoli con le dita finché alcune ciocche disordinate non le caddero sulle spalle. Poi mise a posto delle piume color avorio e fece un passo indietro per controllare il risultato.

    Lizzy teneva in mano un bouquet di rose nere con una rosa rossa al centro e il trucco pesante enfatizzava il suo aspetto emaciato, mentre Carla aveva un bouquet di orchidee e gigli selvatici e appariva florida, feconda, femminile. I fotografi del backstage scattarono foto intorno a loro finché Raine fece segno alle modelle di prepararsi a entrare.

    Lizzy avanzò impettita tra le luci e si diresse fino alla fine della passerella, poi si fermò e aspettò l’entrata di Carla. Il pubblicò rimase senza fiato, poi rise e infine applaudì mentre Carla, sensuale e incinta, avanzava tra la musica vibrante, le luci accecanti e le macchine fotografiche che la spogliavano strato dopo strato, andando verso i fotografi, che la chiamavano: «Da questa parte, Carla! Di là! Dall’altra parte!». Alla fine della passerella si fermò accanto a Lizzy e lasciò che il pubblico assimilasse quel contrasto. Poi le due donne si separarono: ogni movimento faceva parte di una coreografia, ogni centimetro veniva sfruttato al massimo. Carla sorrise e si girò. Da dietro sembrava come le altre modelle: senza un filo di grasso sul sedere e con i fianchi ancora snelli. I giornalisti di moda prendevano appunti, i flash delle macchine fotografiche erano accecanti. Quella era la collezione più ambiziosa di Raine, finora: la presentazione dei vestiti da sposa Dolce Attesa. Il giorno dopo il vestito sarebbe stato sulle prime pagine dei giornali e Raine, entusiasta della pubblicità, si sarebbe fatta una risata quando sarebbero arrivate, nei talk show radiofonici, le inevitabili chiamate che disapprovavano che le spose incinte fossero diventate un oggetto sessuale.

    Il vestito da sposa turbinava intorno a Carla mentre la musica si faceva più veloce e la sfilata giungeva al termine. Le altre modelle uscirono da dietro le quinte e camminarono con grazia sulla passerella fino a formare una fila, e applaudirono mentre Raine avanzava per salutare il suo pubblico. Gli applausi aumentarono quando si inchinò, sorridendo nervosamente, sperando di poter tornare al più presto dietro le quinte per organizzare tutto e tutti.

    Carla si cambiò e si mise un paio di jeans di Dolce Attesa e una maglia blu notte. Le era piaciuto essere il volto o, per meglio dire, la pancia della linea, ma si stava stancando di tutta quell’attenzione.

    Il bambino si mosse, il leggero colpetto del tallone e del gomito che non aveva mai smesso di rallegrarla. Non sapeva se fosse un maschietto o una femminuccia; preferiva, come Robert, aspettare. La vita era una serie di cambiamenti, di assestamenti, e quello più grande sarebbe avvenuto entro tre settimane. Fuori dall’auditorium le sedie tornarono al loro posto e il vociare diminuì man mano che il pubblico andava via. Uscì da una porta laterale e camminò sulla passerella vuota. Gli addetti alle pulizie erano entrati e stavano raccogliendo le brochure e i comunicati stampa. Il tecnico del suono le sorrise mentre recuperava i suoi attrezzi e le augurava la buonanotte.

    Alla toilette sentì il profumo di pot-pourri e cercò di ricordarsi di quando non

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