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L'inganno dell'individualismo
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L'inganno dell'individualismo
E-book139 pagine1 ora

L'inganno dell'individualismo

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Info su questo ebook

La crisi economica di questi anni ha messo in luce i limiti di un sistema economico e produttivo che non funziona più. Disoccupazione, precariato e nuovi poveri sono argomento quotidiano di reportage e servizi di giornale. Ne conosciamo effetti, disagi e sofferenze. Ma deleghiamo ogni risposta alla politica e alle alte sfere di potere.

L'Inganno dell'Individualismo, con linguaggio chiaro e diretto, affronta tutto questo da un punto completamente opposto e molto concreto. Le crisi ci sono sempre state, si sono sempre superate. Soprattutto, sono state superate dalle persone comuni.

Mettendo a confronto società tradizionali (nello specifico, la società europea e italiana tra il tardo medioevo e la prima modernità) con la società moderna, L'Inganno dell'Individualismo rende evidente che il limite della società odierna è la sua mentalità individualistica.

L'individualismo ha fallito perché crea solo persone sole; mentre dovremmo viceversa ricreare quello che i nostri antenati dell'età pre-industriale conoscevano. La Comunità. Ripartire da una struttura sociale che permetta a tutti di sentirsi importanti, necessari e indispensabili.

È una nostra forza, una nostra capacità e una responsabilità in mano a ciascuno di noi.

Con tutte le difficoltà, le sfide ma anche le prospettive che tutto questo comporta.
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2016
ISBN9788822847805
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    L'inganno dell'individualismo - Marco Ceroni

    Marco Ceroni

    L'inganno dell'individualismo

    UUID: 3c0448d2-7e8e-11e6-b08e-0f7870795abd

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    Parte prima – Andata e ritorno

    1) Lavoro precario e disuguaglianza

    2) Diseguaglianza ed effetti collaterali

    3) La nascita della forza lavoro a basso costo

    4) I mendicanti, gli immigrati ed i senza lavoro durante il periodo pre-industriale

    5) I mendicanti, gli immigrati ed i senza lavoro nei giorni nostri

    6) Lobby

    Parte seconda – Prospettive

    7) Responsabilità

    8) Verso la Comunità – la riscoperta del soggetto

    9) Comunità: una possibile soluzione

    10) L'altra comunità: il virtuale

    11) Obiezioni

    12) La creazione di una comunità

    ​Conclusione

    Appendice – Aspetti politici

    Bibliografia essenziale

    Musicografia

    Note

    Ringraziamenti

    Parte prima – Andata e ritorno

    Questo è un libro strano. È un libro che non avrei mai pensato di scrivere. Di solito gli argomenti che attirano la mia attenzione sono altri. Ma la vita è così, piena di sorprese.

    Tutto ebbe inizio quando mio padre ebbe il suo secondo infarto. Eravamo nell'ottobre del 2011. Passai la notte in ospedale, senza sapere se l'avrei potuto abbracciare il giorno successivo. I medici ci dissero che l'infarto aveva provocato un enfisema polmonare (in sostanza, la comparsa di acqua nei polmoni). Avrei potuto portarlo in ospedale prima: se solo avessi saputo che quella tosse non era semplice tosse, ma il sintomo di un infarto in atto.

    Decisi che avrei imparato a riconoscere quei sintomi. Così, mi iscrissi al programma di primo soccorso presso la Croce Rossa di Modena.

    Proprio perché la vita è piena di sorprese, durante le lezioni ci informarono di un nuovo programma assistenziale, a favore dei Senza Tetto. Lo abbracciai in pieno.

    Così, in una notte di gennaio, mi ritrovai con altri volontari a portare cibo e the caldo ai senza dimora. In realtà portare cibo e the caldo non è la cosa più importante. Ben più importante, è stare con loro e parlargli. Ascoltarli. Non farli sentire soli. Hanno un bisogno incredibile di sentire che sono visti e che esistono per davvero.

    Dirlo è facile, farlo è diverso. Alcuni volontari, imbarazzati, li evitavano e chiacchieravano tra loro del più e del meno. Ricordo che una volontaria, di ritorno dalla stazione, si era convinta che i senzatetto che avevamo incontrato non erano veri «barboni». Perché? Perché ridevano. Perché scherzavano. Pochi, mi rendevo conto, riuscivano a trattarli davvero per quello che erano: persone.

    Ne ho conosciuti tanti, da allora. Alcuni venivano dalla Tunisia. Erano giunti in Italia negli anni '90 e avevano lavorato come idraulici, elettricisti, muratori. Poi venne la crisi, e con la crisi si sono ritrovati in mezzo alla strada. A volte facevano finta di dormire. Si vergognavano. Avevano paura che la gente potesse riconoscerli. Questo, fino alla sera in cui finalmente si fidavano e ti raccontavano la loro storia.

    Ricordo un egiziano che viveva in Italia da vent'anni. Aveva una laurea in agraria. Mi sembra si chiamasse Kemal. Per anni era riuscito a pagarsi un appartamento in affitto passando da un lavoro temporaneo ad un altro. Dopo la crisi perse tutto, tranne la macchina in cui dormiva. Ogni giorno leggeva i giornali e ne faceva motivo d'orgoglio. Era un po' come se, in quel modo, volesse dimostrarci di essere ancora «umano». Di essere «come noi». Una persona come tante. Infatti ci riusciva, perché alcuni volontari tornando indietro commentavano che Kemal sembra una persona normale. Un commento che trovavo mostruoso.

    Alcuni avevano anche un lavoro: lavori umili, sottopagati, che non gli permettevano nemmeno di pagare una camera in affitto. Persone reali. Con una loro storia, un loro volto, una voce.

    Negli anni mi ero approcciato alla povertà in tanti modi. Come sociologo, avevo studiato le cause del vagabondaggio, le politiche e le motivazioni dei vari governi (che desiderano non tanto risolvere, quanto nascondere tutto sotto il tappeto). Come antropologo, studiando la sotto-cultura della strada. Avevo affrontato la povertà nel lavoro, come consulente politico prima e in una multinazionale del settore finanziario poi. Ricordo che in quello stesso periodo mi ritrovavo a parlare con dirigenti di piccole e medie imprese che mi dicevano Abbiamo a malapena i soldi per pagare i nostri dipendenti. Per far quadrare i conti dovrei licenziarne qualcuno, e non posso farlo. Lavorano con me da almeno vent’anni, come posso dirgli che li licenzio?. Pochi mesi più tardi, scoprivo che l'azienda era fallita. Aprivo il giornale e leggevo di imprenditori che si erano uccisi.

    Per questo ho scritto questo libro. Per questo l'ho scritto in questo modo. Per spiegarmi quello che sta succedendo. Per cercare una soluzione, visto che una soluzione va trovata, prima o poi.

    Come ho scelto di procedere? Per cominciare, ho guardato alla storia. Perché la storia ci insegna che le crisi ci sono sempre state. Anche altri lo hanno fatto, paragonando l'attuale crisi con il crollo di Wall Street del '29. Quello, è un paragone che non mi piace. Per cominciare perché le due situazioni hanno origini, problematiche e conseguenze completamente diverse tra loro. Secondo, perché non credo si debba necessariamente attraversare l'Atlantico per trovare risposte. L'Europa e l'Italia sono più che sufficienti.

    In particolare, ho scelto il periodo preindustriale, ovvero quel periodo che va dal tardo medioevo fino alla fine del 1700. In quell'epoca una crisi economica molto grave sconvolse l'Europa. Attività economiche chiusero perché incapaci di reggere il passo con la concorrenza estera, oppure si trasferirono altrove in una sorta di delocalizzazione ante-litteram. Le lobby di potere fecero scudo, tentando di proteggere vecchi privilegi che, se avevano un loro senso al tempo del basso medioevo, ormai risultavano inadatti e dannosi. Di conseguenza fallirono tutti, anche chi difendeva e traeva beneficio da quei privilegi. Aumentarono i mendicanti, aumentarono le persone che vivevano di espedienti. Aumentarono i crimini.

    Ho deciso di volgere un occhio a quel periodo, perché mi sembra che i paralleli con l'Italia moderna siano tanti. Sia per i fatti di cronaca attuali, che per le soluzioni tentate dagli ultimi governi.

    Certo: forse questo non aiuterà a capire dove stiamo andando perché, con buona pace sia di Nietzsche che di Giolitti, se da una parte è vero che la storia si ripete, è vero anche che non lo fa mai allo stesso modo. Ma ci aiuterà a cogliere meglio le coordinate in cui ci stiamo muovendo, cosa c'è in gioco, quali rischi ci aspettano e, soprattutto, cosa possiamo fare noi.

    1) Lavoro precario e disuguaglianza

    Tutti abbiamo sentito parlare di lavoro precario. Giornali e mass media ci hanno riempito la testa sulla precarietà così tante volte, che crediamo sia una cosa normale. Falso. Il lavoro precario è diventato la normalità solo da pochi anni. Troppo pochi per permettere al nostro sistema economico e allo stato sociale di trovare una sua regolarizzazione. Ma abbastanza perché gli effetti più aberranti possano essere evidenti a tutti. Anche perché riguardano tutti noi.

    La storia della precarietà moderna ha inizio negli Stati Uniti. Il presidente è un Democratico, Carter. Carter è ricordato per: l'episodio degli ostaggi in Iran; non esser stato rieletto; l'aver distrutto i sindacati e, con loro, il più importante bacino di propaganda del suo stesso partito. Soprattutto, è con Carter che povertà e disoccupazione crescono. Le aziende prima licenziarono, poi congelarono gli stipendi ai sopravvissuti. L'effetto immediato fu il crollo del potere d’acquisto di operai e impiegati. È appunto sotto Carter che i lavoratori americani, più poveri e con più precarietà, scoprirono la flessibilità.

    Flessibilità significava: accettare turni di lavoro più lunghi con straordinari non pagati e crescente incertezza del posto di lavoro.

    Poco dopo, lo stesso fenomeno in Inghilterra. Al governo, Thatcher, conosciuta anche come «Lady di ferro». A quel tempo (ma anche più tardi) la vulgata economista sostenne che la Lady di Ferro prese in mano un paese disastrato e lo risollevò con la riforma del lavoro. Il dato nudo e crudo osservato dagli analisti fu: «la ricetta Thatcher ha permesso la ripresa economica inglese». Ricetta idolatrata come fosse il santo graal. Risultato: la politica abdica e lascia che a governare siano l'economia e gli economisti.

    Parlo di vulgata economista perché gli economisti, tanto attenti a ragionare in termini di indici e statistiche, a volte rischiano di perdere un po’ di vista il sostrato umano a cui quelle statistiche fanno riferimento.

    Infatti, la medicina economica manifestò pesanti effetti collaterali: rese la popolazione più povera e innestò un circolo vizioso di aumento della disuguaglianza e calo della qualità della vita.

    Gli stessi effetti giunsero nel Bel Paese quando, con i ministri Treu prima e Maroni poi, fu importato il precariato. Peccato che quello adottato in Italia fosse particolarmente privo di tutele.

    Non penso tuttavia che i politici volessero destabilizzare il futuro di intere generazioni di italiani. Credo fosse più che altro un fatto di miopia tecnicista. Cosa intendo per 'miopia tecnicista'? Provo a spiegarlo con un esempio.

    Fino agli anni ’50 e '60, la Mongolia era una grande prateria, ed i mongoli dei pastori. Poi, un bel giorno, i cinesi decisero di trasformarla in una immensa distesa di campi coltivati. L’idea, sulla carta, era buona. Tuttavia i mongoli non erano convinti. Noi, dicevano, siamo pastori da generazioni. Sappiamo che se i nostri padri hanno voluto così c’è un motivo. Questa terra non è adatta all'agricoltura. Eppure i cinesi non si scomposero. Noi, dissero, abbiamo «la scienza». Noi sappiamo come fare, perché lo abbiamo letto sui libri, perché abbiamo i macchinari, perché siamo civilizzati. Quale pensate sia stato il risultato? Un disastro. Dopo pochi anni di faticosa colonizzazione agricola, la Mongolia subì una desertificazione da cui non si è ancora ripresa.

    Cosa intendo con questo? Che non esistono regole buone per tutte le stagioni; ma regole e soluzioni che possono essere adatte in questo ma non in quel contesto. Il precariato può essere una buona soluzione negli U.S.A., dove è abbastanza facile cambiare

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