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Four Fingers
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E-book464 pagine6 ore

Four Fingers

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Info su questo ebook

Custer Phillips è uno scrittore americano che ha raggiunto il successo narrando le avventure della comunità di Four Fingers City e in particolare dello sceriffo Pat Gatter, in lotta contro il suo acerrimo nemico: Tayllarand Jackson Cooper, capo della banda degli “Speroni d’Argento”. La saga – Footsteps – ambientata nelle Smoky Hills (Kansas) di inizio Novecento, ha una caratteristica distintiva: i suoi personaggi sono tutti gatti antropomorfi, che presentano caratteristiche e sentimenti umani. Dopo la presentazione del suo ultimo libro alla New Amsterdam Library di New York, Custer si allontana con la moglie Dony; la coppia prende il treno diretto a Kansas City e la stanchezza della lunga giornata cede il passo a un necessario sonno. Ma il risveglio dello scrittore viene scosso dai marcati sbuffi di una locomotiva e dalla vista di un edificio in legno che reca l’insegna: FOUR FINGERS! Incredibile: lui e sua moglie Dony si sono trasformati in due gatti e hanno appena raggiunto la fantasiosa comunità descritta dalla penna di Custer. Questa li accoglie festosi, ma sottoporrà loro una stringente questione: i personaggi malvagi partoriti della mente dello scrittore vanno contrastati. Custer e Dony, sensibili al dolore di quelle meravigliose creature, si preparano ad affrontare Tayllarand e i suoi compari e si immergono a cuore aperto in questa straordinaria avventura…

Riccardo Riganti è nato a Varese in una luminosa domenica di maggio del 1976. Laureatosi in Filosofia presso l’Università Statale di Milano, lavora oggi nel settore HR. Vive a Roma, in compagnia di sua moglie Dodò e di quattro splendidi gatti. E sono proprio i suoi amici felini che, la notte di Natale, gli raccontano meravigliose favole vere… Oltre a “Four Fingers”, ha pubblicato “Buonanotte Dodò” (Edizioni Caosfera, 2020) e “Lo strano caso del signor Duebaffi” (Amazon Publishing, 2020).
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2021
ISBN9788830635425
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    Anteprima del libro

    Four Fingers - Riccardo Riganti

    FINGERS

    Introduzione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: «Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere».

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei Santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo. Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’ editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A Donatella

    dedico il mio paradiso.

    A me non interessa che tutti gli Uomini siano felici,

    ma che ciascuno di loro lo sia.

    (Boris Vian)

    1

    Custer Phillips si sistemò gli occhiali e fece una breve pausa, prima di affrontare la lettura delle battute conclusive del suo nuovo racconto, Four Fingers.

    Il pubblico presente nella grande sala della New Amsterdam Library di New York lo osservava in silenzio: si trattava per lo più di bambini accompagnati dai rispettivi genitori ma, tra le dodici file di sedie sistemate dinnanzi a lui, Custer poteva incontrare anche gli occhi di numerosi adulti senza prole al seguito, giunti unicamente per il piacere di sentire narrare, direttamente dall’autore, le incredibili avventure della comunità di Four Fingers City e, in particolare, dello sceriffo Pat Gatter e del suo acerrimo nemico, il malvivente Tayllarand Jackson Cooper, capo degli Speroni d’Argento, la banda criminale più ricercata nel territorio delle Smoky Hills, nello stato del Kansas.

    Riportando lo sguardo sul leggio di fronte a lui, Custer si schiarì la voce e riprese la narrazione.

    Tayllarand Jackson Cooper portò la zampa alla fondina sinistra, accarezzando leggermente il calcio della pistola, con la speranza che quello sarebbe stato, finalmente, il giorno in cui avrebbe avuto la meglio su Pat Gatter e in cui si sarebbe potuto assicurare che le Smoky Hills fossero, a tutti gli effetti, territorio di sua esclusiva proprietà.

    Pat Gatter, il tutore della legge più impavido che Tayllarand avesse mai conosciuto, stava in piedi di fronte a lui, a circa una ventina di passi.

    Indossando il cappotto di tweed nero, aperto sul fianco destro allo scopo di facilitare l’estrazione della propria Colt Peacemaker a sei colpi, lo sceriffo Gatter lo fissava con occhi verdi smeraldo, incuranti della polvere che il vento, ululante da Nord, sollevava tutto intorno.

    La città di Four Fingers era deserta, fatta eccezione per il saloon, dove il proprietario Cliff Montgomery, armato di un Winchester semi automatico, aveva invitato la popolazione presente per la strada a trovare un sicuro ricovero.

    Il sole calava silenziosamente, alle spalle di Pat, ben oltre le colline rivestite di bianche magnolie e di ippocastani.

    Tayllarand fece qualche passo avanti, certo di poter contare sulla copertura di Maurice Bourbon Smith, la sua fidata zampa destra, il quale teneva lo sceriffo nel mirino del proprio infallibile fucile Remington da dietro un calesse posizionato accanto al pozzo, alla fine della strada.

    Tra loro giaceva a terra il più giovane della banda degli Speroni d’Argento, Cyril Dumb, con la zampa posteriore sinistra sanguinante e privo di sensi.

    «Non un altro passo, Tayllarand!» gridò Pat, pronto a estrarre.

    «Tayl, abbiamo i soldi!» urlò Bourbon Smith con il fucile puntato dritto sul volto dello sceriffo «Cyril è spacciato! Andiamocene, maledizione!»

    «Kurt e Robinson sono morti, Tayllarand. Lindsey Fleetwood è già stato tradotto in prigione, a Kansas City, e Cyril «lo stupido» ci finirà presto anche lui. Siete rimasti solo tu e Maurice!» urlò lo sceriffo «E poi Curtis, laggiù, vi tiene sottotiro dal campanile della chiesa!»

    Dicendo questo, Pat puntò una zampa in direzione della locale chiesa cattolica, distante circa cento iarde alla sua destra, eretta in cima a Crog’s Height.

    Alle parole dello sceriffo, Maurice Bourbon Smith lanciò lo sguardo verso il campanile alla sua sinistra, senza però avere il tempo di fare alcunché, poiché Tayl, ruggendo, gli lanciò un ordine che parve una condanna a morte: «Prendi i cavalli, Bourbon! Da quella distanza Curtis non può colpirti!»

    «Che dici, Tayl!» obiettò lui «Mi farai ammazzare!»

    «Prendi i cavalli, maledizione!» ripeté Tayl, girando appena la testa su un lato e retrocedendo lentamente.

    Pat, che non aveva intenzione di dare la caccia a quei malviventi un solo giorno di più, strinse i pugni inarcando i guanti di pelle marrone; poi, prendendo la decisione in un battito di ciglia, estrasse e sparò.

    Tayllarand, a sua volta, mentre camminava all’indietro, convintosi che non avrebbe potuto fare nulla per il giovane Cyril e vedendo lo sceriffo estrarre, fece altrettanto.

    Due nuvole di fumo si sollevarono dalle canne delle loro pistole, insieme ai colpi esplosi quasi all’unisono.

    Il proiettile sparato da Pat perforò lo spolverino di Tayllarand, sfiorandone appena la coscia sinistra, per conficcarsi poi nel terreno sabbioso. Quello di Tayllarand, invece, sparato una frazione di secondo dopo, centrò proprio la pistola di Pat, la quale venne strappata dalla zampa dello sceriffio e volò in aria con lo stesso rumore di un martello da fabbro che percuote un ferro di cavallo, per finire dritta nell’abbeveratoio cinque o sei passi dietro di lui.

    Tayllarand, nonostante la ferita, rimase in piedi e, zoppicando, raggiunse il calesse, da cui Bourbon si era lanciato per recuperare le loro rispettive cavalcature.

    Curtis, dal campanile, non perse tempo: armato il fucile, sparò in direzione di Bourbon, che correva a zig-zag, colpendo però solamente il terreno argilloso.

    Raggiunti i cavalli e imprecando per la paura, Bourbon prese le bisacce contenenti il denaro della rapina dal cavallo di Cyril, aggiustandole in qualche modo sul proprio; poi, balzato in sella, raggiunse le briglie di Notte, il destriero di Tayl, e scattò verso il suo capo, che lo attendeva stringendosi la zampa sanguinante e sparando a casaccio in direzione dello sceriffo rimasto allo scoperto.

    Pat, si lanciò a terra ed estrasse la seconda pistola dalla fondina sinistra, mentre i proiettili sputati dalla Schofield di Tayllarand sibilavano accanto a lui, o appena sopra la sua testa.

    Raggiunse l’abbeveratoio dei cavalli strisciando nella polvere e, una volta al riparo, puntò a sua volta, sparando a ripetizione verso il calesse, che venne crivellato di colpi.

    Per ultimo, Curtis caricò nuovamente il fucile, che però si inceppò proprio mentre egli aveva distintamente Tayllarand sotto tiro.

    «Maledizione!» gridò, cercando di sbloccare l’arma.

    Si abbassò, inginocchiandosi dietro il parapetto del campanile e, quando finalmente riuscì a estrarre la pallottola inceppata, si rialzò, deciso a fermare almeno uno dei due banditi.

    Ma si accorse subito che, purtroppo, entrambi erano ormai in fuga: i loro cavalli lanciati al galoppo, infatti, sollevavano polvere lungo la strada che conduceva alle Smoky Hills, passando davanti al mulino di Frank Marshall e di sua moglie Dora. Così, in meno di un minuto, ciò che rimaneva della banda degli Speroni d’Argento svanì dalla vista, lasciando alle proprie spalle solo una nuvola di polvere, che si diradò in fretta nella penombra e tra le sterpaglie verdi.

    Dopodichè, la città di Four Fingers piombò in un silenzio quasi irreale.

    Pat si sollevò e, ripulendosi gli abiti con il cappello, scosse il capo, amareggiato per non essere riuscito a sgominare definitivamente la banda di Tayllarand Jackson Cooper.

    Dal saloon, a piccoli gruppi, i molti presenti si riversarono in strada, alcuni ringraziando Dio per essere usciti incolumi da quello scontro a fuoco; altri, semplicemente, con l’intenzione di verificare le condizioni dello sceriffo.

    Come ogni giorno, il sole calò oltre le colline, all’apparenza più lentamente, come se non avesse voluto allontanarsi dalla città. Forse anche lui sapeva che non era ancora finita.

    Custer Phillips chiuse il libro, e si preparò a ricevere qualche domanda dal pubblico presente.

    Uno scroscio di applausi accompagnò invece il suo silenzio, mentre la dottoressa Loreena Pope, responsabile della New Amsterdam Library, si alzò dalla prima fila e gli andò incontro, battendo a sua volta le mani e sorridendo compiaciuta.

    Custer e la donna si strinsero la destra, gesto che fu immortalato da alcuni fotografi presenti in sala, inviati dalle maggiori testate giornalistiche della città.

    «A nome dell’Assessorato alla Cultura, organizzatore di questo evento, e dell’intero staff della nostra biblioteca, vorrei ringraziare il dottor Custer Phillips per essere intervenuto in questa serata e per averci omaggiato della personale interpretazione del suo ultimo capolavoro, quarto episodio della saga di Footsteps,» disse Loreena sorridendo e guardando Custer con un’espressione di sincera aspettativa «a cui seguirà presto un nuovo capitolo, per la gioia dei suoi numerosi ammiratori.»

    Un nuovo applauso seguì le parole della responsabile, la quale accompagnò Custer a un tavolo rettangolare dalle proporzioni davvero voluminose e su cui erano state disposte una cinquantina di copie del suo libro.

    Nel frattempo, una fila di circa una ventina di persone, tra cui numerosi bambini, si era già formata di fronte al tavolo in attesa di ricevere una copia autografata.

    «La lascio al suo pubblico, signor Phillips. La ringrazio nuovamente e spero di poter presto avere il piacere di riaverla tra noi!» disse la dottoressa Pope con un grande sorriso, prima di allontanarsi verso alcuni giornalisti, che le avevano in precedenza richiesto una breve intervista.

    Custer prese posto alla sedia dalle sottili gambe di metallo e si apprestò ad affrontare, con gioia e reale piacere, quanti si presentavano dall’altra parte di quel pesante tavolo di legno di noce.

    Una bambina sui dodici anni si posizionò dinnanzi a lui, accompagnata da un signore robusto ma dall’aria gentile.

    «Buonasera, mi chiamo Lilian. Potrei avere una copia con una dedica, signor Phillips?» chiese, guardandolo con profondi e vivaci occhi azzurri.

    «Certamente, Lilian!» rispose Custer, agguantando un volumetto alla sua destra e aprendolo alla prima pagina.

    La piccola si sporse in avanti, guardandolo scrivere; poi, ricevendo dalle sue mani la propria copia di Four Fingers, ringraziò con autentica gioia e chiese: «Signor Phillips, dove si trova la città del libro? Esiste davvero… è così?»

    Custer sorrise e, allungandosi appena sul tavolone, rispose: «Certo che esiste!»

    «E posso andarci anche io con il mio papà?» chiese lei nuovamente.

    L’uomo che le era accanto, che doveva essere proprio il suo papà, le strattonò leggermente la manina. «Lilly, ora basta, ringrazia il dottor Phillips!»

    Lilian si allontanò con un’espressione rapita e felice, salutando lo scrittore con un gesto della mano e portandosi il libro sul petto.

    Custer ricambiò e la seguì con lo sguardo.

    Sarebbe stato bello, bello davvero pensò se i protagonisti delle mie storie fossero stati reali.

    Dopo circa un’ora trascorsa a fare autografi e a scrivere dediche, Custer ripose la penna sul tavolo.

    Tutte le copie del libro erano andate a ruba, notò con viva soddisfazione – sua e di Jack Franklin, il suo editore, colui che gli aveva organizzato quelle serate di letture nella Grande Mela.

    Non fece in tempo a muovere un passo, che due uomini, che avevano in mano dei registratori mp3, gli andarono incontro.

    «Signor Phillips, sarebbe possibile adesso?» chiese quello che, tra i due, sembrava essere il più giovane e allungando il registratore in avanti.

    Custer annuì e li invitò a seguirlo.

    Si posizionarono accanto alla finestra, da cui si potevano sentire i rumori della strada sottostante.

    «Molto lieto, signor Phillips. Mi chiamo Jerry Bruckmeier, del Daily News

    Custer annuì nuovamente, pronto a rispondere alle loro domande.

    Bruckmeier riprese: «Four Fingers è stato giudicato dalla critica uno dei suoi lavori di maggior impatto sul pubblico. Questo quarto episodio di Footsteps, dal modo in cui lei lascia aperto il finale, è certamente destinato a un seguito che promette essere molto avvincente. Sa darci qualche informazione? Sta già lavorando a un finale? Ormai sono più di dieci anni che la saga ha preso vita: crede che sia prossimo l’epilogo?»

    Custer aggrottò le ciglia, osservando, in cuor suo, che quel giornalista aveva colto un pensiero che, da diverso tempo, gli frullava in testa: concludere la fortunata saga di Footsteps con un finale eclatante, cui aveva voluto pian piano avvicinarsi già con questo ultimo capitolo.

    La saga, nonostante in effetti afferisse a una narrativa strettamente di nicchia, per via del fatto che aveva gatti come unici personaggi, era stata accolta sin da subito con grande interesse dal pubblico di ogni età.

    Ambientata nello Stato del Kansas nei primi anni del ventesimo secolo: narrava le imprese di Pat Gatter, uno sceriffo dell’immaginaria contea di Four Fingers, territorio a ridosso delle Smoky Hills, sempre in lotta con il suo più famigerato avversario, il bandito Tayllarand Jackson Cooper, capo degli Speroni d’Argento, una banda composta da cinque individui, ognuno caratterizzato da peculiarità ben definite.

    «Signor Phillips?» disse Bruckmeier, con aria interrogativa.

    «Sì, mi scusi... Come lei ha notato, Footsteps si è snodata attraverso una serie di avvenimenti che – almeno questo era il mio obiettivo – hanno permesso ai personaggi principali di crescere a livello individuale, dando modo di costruire una comunità unita contro le forze del male concretizzatesi nella banda degli Speroni d’Argento e del suo capo Tayllarand Jackson Cooper. Il mio obiettivo, all’inizio, era quello di costruire una struttura narrativa di pura avventura, ambientata però non nel mondo umano, bensì in quello animale. In seguito, attraverso lo sviluppo delle singole vicende, ma anche per via – io immagino – di una mia crescita personale, la narrazione si è focalizzata nella ricerca di una morale nei fatti e nelle singole circostanze, tale che essa potesse venire assorbita dal lettore, dando l’opportunità, a ciascuno di noi, di riscoprire una forma di umanità che ritengo si stia ormai perdendo. Ma questo in maniera subdola, forse, vale a dire non apertamente: inserendo fatti e narrazione nel mondo animale, o meglio in un mondo popolato da soli gatti, che, a parte le ovvie differenze anatomiche, hanno tutte le caratteristiche di noi persone, ho voluto condurre il lettore alla riscoperta di sentimenti prettamente umani, utilizzando personaggi che di umano non dovrebbero avere nulla, se non la più semplice ingenuità e la più sincera fedeltà. Mi chiede se è prossimo un epilogo? Beh, credo di sì. Ma sarà qualcosa cui penserò tra qualche tempo, perché sarebbe come chiudere una porta su un mondo magico, a cui personalmente sono davvero legato.»

    «Un mondo anche molto redditizio, dato che le vendite, lo scorso settembre, hanno raggiunto il quinto milione di copie!» esordì il secondo giornalista, senza qualificarsi.

    Custer lo osservò, ma senza rispondere.

    «Mi scusi!» riprese quello «Jefferson Davies, del New York Messenger.com

    «Sì, signor Davies, redditizio! Ma consideri che, da mie precise disposizioni, il sessanta per cento delle mie royalties sono mensilmente devolute ad associazioni animaliste del Paese. Non dico altro, può verificare da sé.»

    I due porsero a Custer ulteriori domande, occupandolo per un’altra ventina di minuti.

    Poi, più o meno nel momento in cui il pendolo dell’orologio all’ingresso della libreria batteva ventidue colpi, si allontanarono soddisfatti parlottando tra loro.

    Come successo dopo le due serate di lettura precedenti, del folto pubblico rimase solo una donna dai capelli castani, che si avvicinò a Custer quasi danzando.

    Lo scrittore scoppiò a ridere, abbassando gli occhi a terra.

    «Allora, signore, si sente troppo stanco per bere insieme qualcosa, prima di partire?» chiese lei, con tono provocante e ammiccando visibilmente.

    I suoi grandi occhi scuri, incastonati in un viso dai lineamenti morbidi, parevano sfidarlo.

    Custer la prese per mano e la tirò a sé.

    «Assolutamente no, amore mio!» rispose abbracciandola, prima di darle un bacio.

    In quel momento, il custode li raggiunse dalla portineria: «Mi scusi, signora Phillips, è arrivato il taxi che ha richiesto poco fa. Vi attende all’ingresso» disse gentilmente.

    La donna si voltò e, come tornando in sé, rispose: «Grazie infinite, arriviamo subito!»

    Si mise il soprabito scuro sulle spalle e, insieme al marito, uscì dalla sala illuminata da cinque grandi lampadari di cristallo, che pendevano dal soffitto intonacato di blu come stelle ancorate al cielo.

    2

    Il taxi li portò all’hotel Reinassance, in East Village, dove i due raccolsero i bagagli lasciati alla reception.

    Custer saldò il conto, quindi raggiunse la moglie all’uscita.

    «I biglietti, Dony?!» disse, infilandosi le mani in tasca con viva apprensione.

    La donna estrasse due biglietti della Southwest Chief dalla borsa nera, sventolandoli con un sorriso e risalendo sul taxi, che era rimasto ad attenderli con il motore acceso.

    L’uomo sospirò e, prima di raccogliere il trolley da viaggio, diede un’occhiata all’orologio del suo cellulare: segnava le 22.37. Salì a bordo dell’auto e, insieme alla bellissima moglie, partì alla volta di Central Station.

    Il treno delle Ventitre e Quindici per Kansas City è in partenza dal binario Undici. Ferma a Pittsburgh, Columbus, Indianapolis, ST. Louis. Affrettarsi all’imbarco, ultima chiamata!

    Quella voce di donna registrata li accolse piovendo dall’alto.

    «Svelto, Custer!» disse Dony, che stringeva in mano i biglietti.

    Scesero la scalinata quasi volando e raggiunsero il binario solo dopo diversi minuti, riuscendo a salire sul treno ormai per ultimi.

    Il controllore, un uomo biondo e dalla sottile barba dorata, li accompagnò alla loro cuccetta, la numero 12 del secondo vagone.

    «Ecco, signori!» disse, sbloccando la porta.

    Custer gli allungò una banconota da dieci dollari, poi, esausto, si infilò con Dony nell’alloggio.

    La moglie, ben conoscendo il suo amore per la comodità, aveva prenotato una cuccetta dotata di bagno personale e di un ampio finestrino, da cui poterono vedere il treno mettersi in moto e partire.

    «Uh! Appena in tempo!» disse Custer, sfilandosi il cappotto scuro e appendendolo nell’armadietto alla sua sinistra.

    «Come sempre!» rispose la donna, scoppiando a ridere.

    Le luci provenienti dalla città e dai lampioni che costeggiavano la linea ferroviaria illuminavano il suo viso di una luce bianca e fredda.

    Custer, come ogni volta che la guardava, la trovò bellissima e la invitò a sedersi accanto a lui.

    Dony si accomodò al suo fianco e gli portò una mano tra i capelli castani, carezzandoli con la dolcezza di una madre.

    «Sei stanco, amore mio?» chiese.

    «Sono esausto! Tre serate consecutive e poi un viaggio di otto ore in treno!» rispose.

    «Dai, vecchio orso! Lo abbiamo già fatto in passato!»

    «Sì, ma avevamo dieci anni in meno! Potevamo prendere l’aereo!» parve obiettare lui.

    «Ma se odi volare! Pensa all’arrosto di mia madre, alle patate al forno, alla lasagna che ti piace tanto!»

    «Ci penso dalle sette di stasera: non abbiamo neanche cenato!»

    «Ah-ah! Povero orsetto!» fece lei, abbracciandolo e distendendo il capo sulla sua spalla.

    «Hai avvisato Mike che domani arriveremo tra le otto e le nove?»

    «Sì, gli ho inviato un messaggio: gli ho detto anche di venirci a prendere alla stazione di Indianapolis.»

    «Okay!»

    «Cerca di riposare!» suggerì Dony, intrecciando le dita della mano tra le sue.

    «Secondo te, come potrei terminarla?»

    «Che cosa?»

    «Footsteps! Come potrei terminarla?»

    «Ma, scusa, il tuo editore che cosa ti ha detto?»

    «Ora che va ancora a gonfie vele e prima che perda di interesse, mi ha suggerito di chiuderla.»

    «Dici che potrebbe succedere che perda di interesse?»

    «Con il tempo, succederà senza dubbio! Non vorrei farlo: sono così affezionato a tutti loro! Sono i miei amici migliori!»

    Dony rise, con voce leggera, e rivelò: «Il mio preferito resta Pat Gatter!»

    «Lo sceriffo?»

    «Sì, proprio lui!»

    «Perché?»

    «Perché ha un carattere forte e una morale tutta sua. E poi ha il senso dell’umorismo! Ma adoro anche Sissy Possee e il dottor Lillecker!»

    Stavolta fu Custer a ridere.

    «Che cosa ti ha detto la bambina? La prima cui hai fatto la dedica?»

    «Lilian! Si chiamava così. Mi ha chiesto se esistono davvero quei personaggi.»

    «E tu che le hai detto?»

    «Le ho detto di sì, che esistono davvero e che si trovano in Kansas. Lei è parsa felicissima!»

    «Che tenero!»

    «Sì. Sarebbe bello!»

    «Che cosa?»

    «Se esistessero veramente. Esseri gentili e innocenti, senza malizia. Anche il più cattivo tra loro, in verità, fa quasi tenerezza. Non trovi?»

    Dony lo baciò, innamorata di lui come il primo giorno.

    «Sì, mio cuore. Sarebbe bello davvero!»

    Lasciata l’area urbana di New York, il treno accelerò viaggiando veloce sotto una pioggia fitta e sottile.

    Prima di chiudere gli occhi e di cadere in un sonno profondo, Custer sospirò con un velo di tristezza.

    Uno scossone improvviso fece ondeggiare l’intero vagone!

    Custer aprì gli occhi, risvegliato da quello che pareva essere stato un sussulto metallico.

    Si guardò intorno: sua moglie Dony dormiva con il viso adagiato su un fianco.

    Si alzò e le distese sul corpo una coperta di lana, che estrasse dall’armadietto.

    Tornato al suo posto, si mise a contemplare il paesaggio che correva fuori dal finestrino, riuscendo a distinguere, con le prime luci dell’alba, unicamente le case di una città che non conosceva.

    Non pioveva più, anzi la luna piena splendeva all’angolo superiore del finestrino in un cielo che si faceva lentamente più chiaro.

    Guardò l’orologio e calcolò che erano in viaggio da circa cinque ore.

    Chiuse gli occhi per quello che gli parve essere un minuto, poi un secondo scossone lo fece sobbalzare.

    Di nuovo, guardò fuori: il sole splendeva alto nel cielo e il paesaggio si era mutato in aperta campagna.

    Il treno procedeva molto più piano ed emetteva un rumore metallico simile a un forte stridio.

    Dopo alcuni secondi, addirittura rallentò, e prese a marciare quasi a passo d’uomo.

    Custer poté così sentire il rumore di quella che pareva essere una locomotiva a vapore, cosa che aveva visto solo da ragazzo in una rievocazione storica nei pressi di Boston.

    Guardò di nuovo l’orologio, stavolta affidandosi a quello a lancette che stava sopra lo sportello d’ingresso della cuccetta: segnava le 11.45.

    Incredulo, si allungò verso la moglie che dormiva coricata su un fianco, dandogli la schiena, con l’intenzione di svegliarla.

    In quel momento, il treno entrò in una stazione e Custer udì distintamente gli sbuffi della locomotiva farsi sempre più definiti e marcati.

    Si voltò verso il finestrino e vide sfilare un edificio interamente costruito con assi di legno, con due finestre dalle vetrate colorate di viola e con un’insegna sul frontone scritta con vernice nera.

    Esterrefatto, lesse quasi meccanicamente e spalancò la bocca: FOUR FINGERS!

    Four Fingers! Stazione di Four Fingers! Il treno farà una sosta di quaranta minuti per ricaricare la cisterna!

    La voce del controllore, nel corridoio adiacente, lo raggiunse in quel preciso momento.

    «Ma che diavolo!» furono le sole parole che gli uscirono dalle labbra, che sentiva solleticate da qualcosa di soffice.

    Si alzò in piedi, accorgendosi di un forte fastidio all’altezza dei glutei: qualcosa che, in verità, gli provocava anche dolore.

    Non se ne curò e si portò da Dony, distesa davanti a lui, la quale sembrava si stesse destando.

    Allungando una mano, con l’intenzione di verificare se fosse sveglia, notò che quella che avrebbe dovuto essere la sua mano destra era invece una zampona ricoperta da folta peluria marrone.

    Fu come ricevere un flash negli occhi, come se qualcuno gli avesse rovesciato una secchiata di acqua gelida dritto sulla testa!

    Estrasse dalla tasca anche la mano sinistra, ma scoprì che era identica alla gemella: due grosse zampone con unghie sottili e ricurve.

    «Oddio!» gridò.

    Dony sobbalzò sul sedile.

    «Custer, che succede?» chiese, voltandosi lentamente.

    L’uomo, con le mani davanti alla faccia e gli occhi ben chiusi, balbettò qualche parola incomprensibile mentre lei si girava sul fianco sinistro, richiamata dal suo grido.

    «Custer!» gridò la donna, a sua volta.

    «Le mie mani, Dony!»

    «No, amore, la tua faccia!» rispose lei balzando all’indietro, più stupita che spaventata.

    Custer aprì gli occhi e l’intera figura della moglie gli si presentò davanti.

    «Santo cielo, Dony!»

    Al posto della giovane consorte, aveva di fronte a sé una gatta dal pelo nero, che lo guardava con grandi occhi scuri.

    «Sei… sei… sei tu?» le chiese.

    «Che ti è successo alla faccia?» rispose lei.

    «Alla mia? Che cosa è successo alla tua, di faccia?!» ribatté prontamente.

    Senza dire un’altra parola, la moglie estrasse lo specchietto da trucco che teneva in borsa, alla base del sedile.

    «Dony!» urlò Custer.

    Dony si guardò riflessa nello specchietto, il quale le cadde dalle zampine quasi subito.

    Custer si mosse in avanti verso di lei, bloccandosi nel momento in cui, guardandolo con quegli occhioni scuri, Dony iniziò a dondolare a destra e a sinistra.

    «Meow!» disse semplicemente, quindi cadde svenuta su di un fianco.

    «Mio Dio!» Custer si gettò in ginocchio e le raccolse il capo con le sue zampone, grosse ma gentili.

    Cercando di farla rinvenire dolcemente, sentì come un colpetto sulla schiena, come una pacca leggera.

    Si voltò, ma constatò che non c’era nessuno.

    Di nuovo, un tocco simile a una pacca sulla schiena lo distrasse dal suo tentativo di soccorrere Dony.

    «Chi c’è?» gridò furioso.

    Riflesso nel finestrino, notò qualcosa che spuntava dal cavallo dei suoi pantaloni di tweed.

    Ammutolito, guardò il vetro più da vicino e scoprì che una lunga coda, anch’essa marrone, sventolava dietro la sua schiena.

    Si girò a sinistra e poi a destra, con l’intenzione di afferrarla.

    Alla fine, riuscì ad agguantarla, quindi la tirò da un lato.

    «Ahi!» gridò di dolore.

    Si alzò e si guardò dietro: la coda fuoriusciva da un buco nei pantaloni, all’altezza dell’osso sacro.

    Si accorse che quel buco era stato come ricamato da un sarto, essendo perfettamente rotondo e senza scuciture.

    «Ma che sta succedendo?» ringhiò, portandosi una zampa sulla testa e scoprendo di avere due orecchie appuntite proprio ai margini del capo.

    Giornali, signore e signori! Acquistate l’ultima copia del Four Fingers Gazette!

    Custer appoggiò entrambe le zampe sul finestrino: fuori, sulla banchina di legno, un gatto completamente nero con una macchia bianca tra gli occhi e vestito con una camicia di stoffa azzurra e due pantaloni di almeno una taglia inferiore al necessario, lo guardava invitandolo a comprare la copia del giornale che aveva in pugno.

    «Sono venticinque centesimi, signor Phillips!» disse, sventolando il giornale come un ventaglio.

    Inebetito, Custer scrollò il capo; così quello raccolse con aria delusa la pila di copie che aveva a terra, tenuta insieme da un filo di spago, poi si allontanò sulla banchina in direzione del vagone successivo.

    Ultima edizione, signore e signori! Tayllarand Jackson Cooper e Maurice Bourbon Smith sono sfuggiti alla giustizia in una rocambolesca evasione verso Nord! Leggete l’edizione di oggi, 28 marzo 1901! Ultima edizione, signore e signori!

    La voce scemò in lontananza.

    Custer rimase impalato al finestrino per alcuni secondi; poi, udendo i gemiti della moglie, si ricordò di lei.

    «Custer! Custer! Che succede?» chiese Dony in lacrime, mettendosi seduta e toccandosi la faccia pelosa.

    «Dony!» Custer la abbracciò, «Non lo so, amore!»

    «Dove siamo?» gli chiese, stringendolo.

    «Siamo a… a… Four Fingers!»

    «Dove?» strillò lei, quasi assordandolo.

    «Four Fingers!»

    Furibonda, Dony lo prese per il collo della camicia e, con il tono di impartire un comando militare, disse: «Custer, non è divertente. Smettila!»

    «Ti assicuro, tesoro, siamo a Four Fingers! E siamo entrambi… due gatti!»

    «Due cosa?»

    «Due gatti, amore mio. Inoltre, credo anche che ci conoscano, perché…»

    In quel momento, lo sportello della cabina si aprì e comparve un altro gatto dal manto giallo e chiarissimo, vestito esattamente come il controllore che li aveva accompagnati in cabina alcune ore prima: in divisa blu e berretto bianco.

    «Mi scusi, signor Phillips! Benvenuti a Four Fingers! Il sindaco Clive Cassidy la attendeva sulla banchina del binario due. Purtroppo, abbiamo urtato violentemente contro un paio di scambi, giungendo in stazione, e siamo quindi stati dirottati al binario uno. In ogni modo, il signor sindaco e il comitato di accoglienza raggiungeranno lei e sua moglie qui fuori. Potete scendere dal primo vagone, così vi incontrerete a metà strada.»

    Custer lo guardava con un’espressione priva di ogni barlume di intelligenza: insomma, da vero idiota.

    Il gatto sollevò il cappello in gesto di commiato: «Signor Phillips, signora Phillips, a nome della compagnia, voglio ringraziarvi per la vostra preferenza. Speriamo di avervi di nuovo presto a bordo!» poi sparì.

    «Custer, quello era un gatto parlante!» disse Dony,

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