Una pioggia di riso, confetti e margherite
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Anteprima del libro
Una pioggia di riso, confetti e margherite - MIna Buccolieri
Table of Contents
Mina Buccolieri - Una pioggia di riso, confetti e margherite
Mina Buccolieri - Una pioggia di riso, confetti e margherite
Prefazione
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
VIII.
IX.
X.
Profilo biografico
Mina Buccolieri - Una pioggia di riso, confetti e margherite
©Musicaos Editore | Aprile 2021 | Narrativa, 28
Musicaos Editore, 2021
Via Arc. Roberto Napoli, 82 | 73040 Neviano (Le)
tel. 0836618232 | info@musicaos.it | www.musicaos.org
Ogni riferimento ai fatti, cose, persone, presenti nel romanzo, è da ritenersi puramente casuale.
Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta su alcun mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’editore.
Progetto grafico | Bookground
Isbn 979-12-80202-123 libro
Isbn 979-12-80202-147 ebook
Mina Buccolieri - Una pioggia di riso, confetti e margherite
Agli occhi degli stolti parve che morissero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza resta piena d’immortalità.
Sapienza 3, 2-4
Figlio, se ti presenti per servire il Signore, prepàrati alla tentazione. Abbi un cuore retto e sii costante, non ti smarrire nel tempo della prova.
Stai unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni. Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore.
Siracide 2, 1-5
Prefazione
Quando mia madre mi ha chiesto di scrivere la prefazione al suo secondo libro, ho pensato a quello che mi volessi aspettare da una prefazione. Per questo ho pensato che il mezzo migliore per comprendere gli stilemi di un artista – quale che sia la sfera in cui verta la sua arte – fosse quello di conoscerlo, o tentare di farlo, nel campo della vita. Mina è sempre stata una donna forte, precisando che questo non vuol dire non avere paura, né vuol dire essere di ferro. Lei mi ha insegnato che la vita può cambiare, guardandola da una diversa angolazione. Mi ha insegnato che la premura e la dolcezza bastano a rassicurare le ansie di chi amiamo. Ma soprattutto mi ha insegnato ad ambire alla serenità, perché questa non è una qualità che si riceve in dono, ma è determinata da vette che si conquistano ogni giorno. Mi ha stimolato, incoraggiato, sconfitto le mie paure. Non ci si limiti ad osservare la superficie di una persona, che fa apparire solo il trenta per cento del reale; si studi ciò che è in ombra – sacrifici, delusioni, dispiaceri, morte e poi rinascita.
Mina ha sempre mostrato amore per la letteratura, ma solo a cinquantadue anni ha deciso di iniziare a scrivere – l’età in cui ha capito di poter iniziare a cucire i pezzi della propria esperienza, impreziosendo la prosa italiana con i propri ricordi e la propria interiorità.
Il romanzo che segue è ambientato in un periodo buio della storia d’Italia, sono gli anni del regime dittatoriale fascista. Tuttavia l’intenzione dell’autrice non è quella di dare una collocazione politica al racconto, infatti si denoteranno solo pochi stralci di contesto. La missione è quella di foggiare un romanzo storico, concentrandosi sui personaggi e sulla loro storia. Personaggi semplici, solari, laboriosi, altruisti; l’autrice fa risaltare le loro vicende e i loro intrecci, nonostante gli anni che si trovano a vivere. Questo è il proposito: dimostrare che, anche quando tutto sembra finito e la sofferenza diventa abitudine, arriva sempre nuova luce a sorprenderci e a confondere le certezze raggiunte.
Ciò nondimeno mi sento di dare una spiegazione di quegli anni – o almeno un mio parere – perché sento che oggigiorno si vive di stereotipi: si apprezza o detesta qualcosa senza andare a fondo, senza indagare sulla motivazione che genera un sentimento. Oltretutto mi trovo nella condizione di pensare che, man mano che passano gli anni, le nuove generazioni ne sappiano sempre meno, perciò mi perdoneranno coloro che, leggendo, vedranno scritte cose ovvie.
Sono gli anni del fascismo, anni delle camicie nere, anni di costrizioni e di controlli, anni di limitazioni e di persuasioni politiche e sociali, anni di clandestinità e di torture, anni in cui la gente semplice è succube e non lo sa. Io vorrei concentrarmi su alcuni punti, innanzitutto l’ideologia contraddittoria. Il fascismo è collocato all’interno della tradizione nazionalista, ma riconosce la realtà delle classi sociali e del loro contrasto. Tuttavia proprio questo costituisce un controsenso al principio nazionalista, il quale legittima un unico popolo, rappresentante la nazione. Umberto Eco è dell’opinione che il fascismo risulta essere un collage di diverse idee filosofiche – non avendone una propria – e pertanto un alveare di contraddizioni (coesistenza di monarchia e rivoluzione, esercito regio e milizia personale del duce, privilegi concessi alla chiesa e istruzione statale che incentiva la violenza).
Un meccanismo meschino, insito nel disegno politico-dittatoriale mussoliniano, che si evince, è l’assoggettamento dei sindacati, affinché essi siano organizzati dallo stesso Stato per il raggiungimento del "bene comune", quello nazionale. Ma ciò cosa comporta? Questo si traduce nel controllo e repressione dei lavoratori, i quali, non solo si vedono abbassare i salari e non trovano i mezzi per difendere i propri diritti tramite associazioni nate a tale fine, ma si vedono privati anche del diritto di sciopero. Il sindacato, che ha il dovere di tutelare i lavoratori, non fa fronte alle loro necessità, è inerte poiché è una nuova periferia dello Stato. Oltre a ciò vengono rese illegali, e successivamente soppresse, tutte le associazioni considerate antifasciste, ma su questo si deve fare una considerazione. Il fascismo non è aperto al confronto, anzi è propenso a considerare la diversità una minaccia. La mia generazione è stata istruita con un insegnamento antico risalente, addirittura, alla Grecia, ravvisando nel disaccordo un confronto che genera conoscenza. Ma per il fascismo disaccordo vuol dire tradimento. Pertanto il regime cresce coltivando la paura per la diversità. Una costrizione al consenso – omologazione – è manifesta con il tesseramento obbligatorio al P.N.F., il quale risulta essere l’unico modo per poter accedere al lavoro. Coloro che non attuano il tesseramento, prima vengono privati del loro diritto al lavoro e successivamente multati, lo stesso per chi assume dipendenti non iscritti al partito. Sempre per tale ragione di omologazione, si sviluppano sospetti verso il mondo intellettuale, verso gli uomini capaci di riflettere, di elaborare un proprio pensiero critico, di sviluppare una propria individualità e compromettere in questo modo l’identità pubblica – determinata, secondo il regime fascista, da cittadini individualmente privi di diritti, ma costituenti un popolo che esprime la volontà comune. Questa volontà comune però non può essere concretizzabile, poiché tante teste non possono trovarne un’unica ed è qui che entra in campo il ruolo del leader il quale si assume l’incarico di rappresentante della volontà nazionale, la quale va al disopra di quella individuale e per questo è da considerarsi quella giusta. È nell’ottica di formare nuovi cittadini (forse incapaci di controbattere?) che si realizzano testi scolastici fondati su un lessico impoverito e sintassi elementari, ovviamente al fine di limitare gli strumenti per lo sviluppo di ragionamenti complessi e critici. Dietro tutta la politica mussoliniana c’è la retorica e tanti espedienti, che nascondono il vero fine di ogni azione, garantendo l’adesione di quella gente semplice, che non comprende o si lascia ingannare dai discorsi patriottici e sontuosi del duce, discorsi che parlano di volontà comune, identità nazionale, infrastrutture statali o privilegi sociali, ma che nascondono un governo unidirezionale, improntato sulla grandezza, capace di impoverire culturalmente i cittadini perché non diventino un ostacolo e di distruggere i diritti che ognuno di noi, invece, deve difendere con i denti.
Allora prima di dire "Si stava meglio quando si stava peggio", rendiamoci conto da cosa siamo stati liberati, meditiamo sulla libertà che abbiamo ottenuto: libertà di parola, di pensiero, di stampa, di associazione politica, libertà di essere diversi, di essere controcorrente. Meditiamo su quante cose sono venute a galla solo dopo, ma soprattutto facciamo sentire la nostra voce, perché l’abbiamo guadagnato.
Noemi Puricella
I.
Il luglio di quell’anno era cocente, la notte non era riuscita a rinfrescare l’aria. Già dalle prime luci dell’alba, nella campagna silenziosa, l’eco delle cicale era assordante. Si poteva percepire il profumo d’erba secca inumidita dalla notte. Da lontano s’intravedevano due viandanti che viaggiavano su una bicicletta sgangherata e rumorosa, deformata per la troppa strada percorsa e arrugginita dal tempo che l’aveva invecchiata. Percorrevano una strada della piana del Salento, piena di stoppie riarse. Una di loro era una bimbetta dai lunghi capelli rossi, ricci in modo ribelle, seduta sul telaio della bicicletta. Versava lacrime silenziose. L’altro viandante era un prete, un uomo buono, con una tonaca polverosa e il cappello usurato e deformato dagli anni, che copriva il suo capo ormai privo di capelli. L’uomo s’intratteneva ponendosi delle domande per ingannare il tempo sulla lunga strada terrosa, sotto il cielo greve dell’estate, nell’ora in cui il campanello della bici suonava tristemente nella desolata campagna, e cantava la sua nenia melanconica per non lasciarsi vincere dalla tenerezza di quella ragazzina indifesa.
«Di chi saranno questi terreni?». Ma non aveva una risposta. Erano vicini ad una grande fattoria, con granai ricolmi che sembravano distese di dune dorate di una costa inesplorata. Le galline raggruppate razzolavano sotto l’ombra di un’enorme quercia vicino ad un pozzo dall’acqua fresca e dolce. Molte volte il prete si era trovato a passare da quella strada per andare a trovare un parroco, suo caro amico, confidente e confessore, di un paese distante pochi chilometri dal suo. Quel percorso lo aveva sempre fatto con la sola compagnia della sua bicicletta. Questa volta trasportava con sé Doretta, una bambina dolcissima rimasta orfana. Questo compito gli pesava molto, ma per il bene della piccola si era deciso a compierlo.
«Ci fermiamo per dissetarci» le aveva detto. Doretta si asciugò le lacrime con la manina, tirò su con il nasino e fece segno di sì muovendo la bellissima testolina ramata.
Una signora, con un grembiule dalle grandi tasche traboccanti di fichi appena raccolti, andò loro incontro. I due si fermarono vicino al pozzo, scesero dalla bicicletta un po’ intorpiditi. Il prete si sfregò la schiena dolorante e si concesse un respiro scrutando il cielo limpido, senza l’ombra di una nuvola che lo coprisse, poi si rivolse alla brava donna che si era loro avvicinata: «Buongiorno signora, possiamo dissetarci?» chiese lasciando la bicicletta appoggiata al pozzo e asciugandosi con il fazzoletto madido il sudore dalla fronte. «Questo caldo secca anche la nostra bocca!».
«Certo, fate pure. L’acqua del pozzo vi darà ristoro».
Il prete era curioso di sapere chi fosse il proprietario di quei terreni; da sempre la curiosità lo aveva sollecitato e aveva sempre desiderato saziare questo interesse.
«Ditemi signora, a chi appartiene tutto questo ben di Dio?».
«Non lo sapete? Eppure una volta al mese vi vedo passare con la vostra bicicletta, è impossibile non udire il vostro passaggio dal rumore beffardo che fa».
Il prete con una risata fragorosa disse: «Eh sì, ne ha vista di strada la mia cara bici ed ancora trasporta le mie stanche membra! Ma non mi avete risposto!» non si era mai lasciato sfuggire una risposta per colmare le sue curiosità.
«Sì, signore! Tutto questo ben di Dio, come voi lo chiamate, è del cavaliere don Ruggero».
«Che bel posto! È tutto ben curato. Ma dite, don Ruggero è sposato e ha dei figli? Non vedo molta gente intorno a questo ben di Dio!».
«Sì, signore, don Ruggero è sposato e ha dei figli. Oggi non c’è nessuno, perché sono andati a una fiera. Pensate, hanno portato in fiera il loro bellissimo cavallo: è un puro sangue, corre come un fulmine, sicuramente lo venderanno a caro prezzo e arricchirà ancora di più le tasche di don Ruggero. Anche la signora è andata con le sue figliole: voleva acquistare delle stoffe pregiate».
Doretta ascoltava silenziosa le parole della gentile signora, aveva per quei minuti dimenticato la sua situazione. Immaginava la bella donna con le sue figlie ridenti, parlare chiassosamente mentre erano intente a scegliere le stoffe pregiate dai variopinti colori e dalle tante sfumature. Vedeva i mercanti urlare per attirare la gente e vendere la merce, e le signore accompagnate dai loro mariti passeggiare tra le bancarelle.
La voce del buon prete la fece tornare alla realtà.
«Bene signora, vi ringraziamo per aver permesso di rifocillarci, ma adesso dobbiamo riprendere il nostro cammino, altrimenti, attardandoci, il sole ci cuocerà per bene. Andiamo tesoro, su, riprendiamo la nostra strada, la meta ci attende».
La ragazzina ubbidiente seguì il prete dando un ultimo sguardo alla signora gentile che la salutava con la mano e con un dolce sorriso. Lei le ricambiò il gesto, ma subito abbassò lo sguardo tornando triste.
«Quanta fortuna: a chi tanta e a chi niente» il prete borbottava a denti stretti con la voce che gli moriva dentro.
A Doretta quella sosta fece bene: non pensava più da dove veniva, ma verso dove era diretta. Seguì la strada che rimaneva da percorrere con pensieri svogliati, riflettendo tra sé, col capo reclinato sulla spalla e lo sguardo perso lontano e, anche se la strada non fosse stata quella giusta, purtroppo era quella da seguire verso il suo futuro incerto.
Prima di lasciare il paese natio, tra le cui allegre vie era cresciuta, i legami e le tenerezze, che la trattenevano, lentamente si erano sciolti. La sua famiglia era caduta