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Il sipario di velluto rosso
Il sipario di velluto rosso
Il sipario di velluto rosso
E-book457 pagine6 ore

Il sipario di velluto rosso

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Info su questo ebook

Sullo sfondo di una Venezia splendida e pur decadente, soprattutto ai suoi occhi, si aggira Franco, un caparbio, frustrato e maturo professore di filosofia amante della poesia e della propria professione che ambisce a diventare un noto scrittore di romanzi benché perennemente deluso da un susseguirsi di insuccessi. Nel grigiore quasi rassegnato della sua vita, trascorsa tra ricordi e rimpianti, compare a un tratto Mina, una giovane ex allieva perduta di vista molti anni addietro e della quale non ricorda poi molto. Mina è una luce che illuminerà improvvisamente le azioni della sua esistenza fino a farlo diventare protagonista, suo malgrado, di un ingorgo di fatti, circostanze e coincidenze non troppo chiare alle quali non potrà sfuggire. Si piaceranno, è vero, e sempre di più, e per pochi giorni si ameranno furtivamente il più delle volte in una stanza d’albergo, ma la loro storia d’amore, che sembra scorrere senza intoppi, proseguirà invece tra peripezie e delitti ai quali non riusciranno a dare un significato fino a quando un vecchio venditore di granaglie per piccioni che sosta perennemente in Piazza San Marco non li aiuterà a risolvere il mistero che inconsapevolmente li ha uniti da sempre.

Ferdinando Ianniello è nato a Venezia nel 1946 e svolge la professione di Medico Chirurgo Otorinolaringoiatra. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni di carattere scientifico e due romanzi. Il primo edito nel 2007 dalla Casa Editrice AltroMondo Editore con il titolo Il flauto di Lepanto, il secondo edito nel 2010 dalla Casa Editrice AltroMondo Editore con il titolo Il baule di Garibaldi.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2024
ISBN9788830694538
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    Il sipario di velluto rosso - Ferdinando Ianniello

    IannelloLQ.jpg

    Ferdinando Ianniello

    Il sipario

    di velluto rosso

    © 2024 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-8991-6

    I edizione gennaio 2024

    Finito di stampare nel mese di gennaio 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Il sipario di velluto rosso

    A mia moglie e ai miei figli

    La vita è una tragedia in primo piano

    e una commedia in campo lungo.

    (Charlie Chaplin)

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    1

    Venezia 29 dicembre 1998

    Gli furono sufficienti due giri di chiave nella toppa della serratura per entrare e ritrovare l’appartamento come l’aveva lasciato al mattino presto: avvolto da un lieve tepore e solo debolmente illuminato dalla luce proveniente dall’unico lampione piantato tra due platani in fondo alla calle. Il chiarore di una luna invernale, bassa all’orizzonte e solo in parte nascosta dal profilo dell’alto palazzo antistante, filtrava attraverso le imposte rimaste semiaperte fin dal mattino dipingendo di grigio i vecchi mobili e creando lunghe ombre che si proiettavano lungo il pavimento e sulle pareti.

    Accesa la luce, si precipitò a riattizzare il fuoco nella stufa di terracotta gialla la cui bocca aveva già abbondantemente saziato di legna e carbone fin dal mattino. Era quasi spenta. Scosse con l’attizzatoio alcuni pezzi di carbone ancora ardenti che rinvenne sotto la cenere, vi aggiunse un ciocco di legna e dell’altro carbone, vi soffiò sopra tutta l’aria contenuta nei polmoni e attese di vedere sprigionarsi la fiamma. Chiuso lo sportello, pulì le mani annerite dal carbone con uno straccio, le allungò in direzione della stufa e si sedette in attesa che il calore provvedesse a scaldargliele.

    Ebbe così tutto il tempo di osservare il disordine che egli stesso aveva provocato durante quei pochi giorni in cui era rimasto solo e non se ne dispiacque se non per la gran quantità di libri che aveva rimosso dagli scaffali e che ora vedeva sparpagliati ovunque. E se alcuni giacevano appoggiati sulla seduta della poltrona di velluto rosso rivolta alla finestra, altri erano ammonticchiati sul piano dello scrittoio e avevano sommerso la macchina per scrivere. Altri ancora si erano infilati tra le lenzuola del suo letto disfatto da giorni. Ma i suoi appunti, le sue pubblicazioni di filosofia, alle quali era particolarmente affezionato, quelli no! Quelli erano rimasti ben allineati negli scaffali della libreria. Li accarezzò con lo sguardo, ripensò sommariamente a quanto aveva scritto in alcuni di essi e tornò a rivisitare la stanza dopo aver acceso una sigaretta e gettato il cerino a terra, in un angolo.

    Si guardò attorno sbuffando il fumo e scrutò le pareti che aveva fatto ridipingere più volte nel tentativo di far apparire quel luogo meno vetusto: mostravano alcune screpolature che correvano dal pavimento al soffitto e si ricordò che si era ripromesso di protestare con l’imbianchino pretendendo la restituzione del denaro speso anche se in qualche modo era consapevole che, tutto sommato, la colpa di quelle ferite non era dell’operaio ma dell’umidità di cui erano impregnate quelle vecchie pareti acquistate molti anni prima dal padre.

    Volse lo sguardo al telefono. Tardava a squillare e si assicurò che la suoneria fosse alzata del tutto: nutriva molte speranze su quella chiamata e voleva assicurarsi di non poterla perdere per colpa di quella lieve sordità che lo affliggeva oramai da tempo.

    Quel vecchio telefono a disco era in quell’angolo da tempo immemorabile e non aveva mai voluto sostituire né lui né tantomeno i mobili e gli oggetti appartenuti alla sua famiglia. Erano per lui ricordi inseparabili sebbene fossero, tutto sommato, solo vecchi oggetti come lo erano in particolare quei mobili spacciati per antichi acquistati negli ultimi anni di tanto in tanto da un unico rigattiere e che egli aveva arricchito con alcuni soprammobili di poco valore: una piccola coppa ingiallita conquistata da ragazzo al torneo di calcetto parrocchiale, la targa con il suo nome, ben stampigliato a fronte, di un concorso letterario tenutosi in provincia, alcune lettere di encomio inviategli dal Rettore legate con un nastrino rosso ricevute nel corso degli anni, infine, un angioletto di finto oro che la moglie utilizzava per riporvi, prima di coricarsi, gli anelli che teneva al dito infilandoli ad uno ad uno lungo il braccio alzato dell’angelo.

    Alle pareti erano appesi alcuni quadri senza particolare valore e si accorse ora, solo dopo molti anni, che la moglie forse aveva ragione: avrebbe dovuto disfarsi di gran parte di quei mobili e di quegli oggetti, avrebbe dovuto lasciare Venezia e trasferirsi in terraferma ma egli non si sarebbe mai mosso di lì né avrebbe gettato via alcunché tranne quel brutto quadro che, nell’attesa della telefonata, tentò di incartare con fogli di vecchi quotidiani.

    Guardò l’ora. Le lancette dell’orologio della lunga pendola di legno collocata in un angolo della stanza segnavano le dieci di sera e si accorse di aver girovagato per la città per molte ore senza aver toccato cibo. Tra la dispensa ed il frigorifero rinvenne del cibo in scatola che consumò davanti allo schermo della TV guardando un vecchio film americano fino a quando, fattosi molto tardi, si alzò, spense il televisore, gettò la scatoletta nella spazzatura e, dopo aver chiusi ad uno ad uno tutti i balconi, si distese sul letto con la sigaretta pericolosamente appesa alle labbra nell’attesa di ricevere la tanto attesa chiamata.

    Giunse e si precipitò a rispondere.

    Un saluto, un accenno a quanto successo la sera precedente e subito dopo aver pronunciato quelle poche parole, deposta la cornetta del telefono, diede un brusco taglio a quella breve conversazione.

    Ad un capo del ricevitore aveva risposto quella donna conosciuta casualmente alla fine di un dicembre freddo e piovoso dall’altro lui, che aveva abbandonato per pochi giorni la cattedra di filosofia a Ca’ Foscari e trascorreva gran parte del proprio tempo girovagando senza una meta precisa per la città. Talvolta gli capitava di sostare nei campielli per un caffè, talaltra, di percorrere le infinite calli solitamente strette e buie. Alcune volte, poi, si fermava ad osservare meravigliato l’insolito colore di quel mare spalmato sulla vasta tela della città. E quando quel frammento di mare gli appariva in fondo ad una di quelle calli era per lui come se i palazzi avessero avuto da sempre il compito di incorniciare e proteggere quello spicchio d’acqua.

    Spesso si ritrovava a contare i passi ripensando alle proprie letture, camminando lentamente, spostandosi sovente da un lato all’altro delle calli per osservare, riprodotti a due metri d’altezza, i ninzioleti di calce con impressi i loro nomi.

    Soprattutto era alla ricerca di nuove idee, di nuovi spunti, per iniziare a stendere un nuovo libro: alla sua età, non avendo ancora ottenuto il successo duraturo che tanto attendeva e che era convinto di meritare, il desiderio di farsi apprezzare dal pubblico oltre che come filosofo anche come un noto autore di romanzi, era divenuto per lui frenetico.

    Mina l’aveva incontrata in una di quelle mattine gelide e nel breve lasso di tempo nel quale le campane delle tante chiese avevano smesso di suonare e quella della Piazza, battuta dalle pesanti mazze impugnate dai Mori riposava silenziosa in cima alla torre osservando in basso il grande orologio che continuava a segnare sempre la stessa ora ed il medesimo segno dello zodiaco.

    I due, di fronte ad una tazzina di caffè consumato in Campo San Luca, si erano squadrati, piaciuti, avevano discusso a lungo, infine, avevano deciso di appartarsi in un alberghetto, lontani dagli occhi pettegoli dei frequentatori di quella bettola. Ed era stato in quella stanzetta arredata con mobili dozzinali e sgangherati, che lei aveva voluto fare l’amore ai piedi del letto, con lo sguardo rivolto al quadro appeso alla parete opposta, osservando una vecchia tela imbrattata di colore. Lo spessore del blu delle pennellate sormontate da riccioli bianchi e da un cielo rosso porpora, le avevano ricordato un’onda possente e quando aveva sentito salire un brivido lungo la schiena e contrarre i muscoli dell’addome, aveva urlato così forte da costringere i colombi appollaiati sul piccolo davanzale della stanza a fuggire. Lui le aveva subito tappato la bocca con il palmo della mano e la donna, abbandonatasi alla stanchezza e a quel residuo di piacere misto a tristezza che si accompagna spesso a conclusione di un amore consumato in fretta, si era rannicchiata sudata e incredula tra le sue braccia. Franco aveva provato un pentimento superficiale per quel momento di frettolosa intimità senza dispiacersene poi troppo: quel corpo giovane, quelle carni candide e morbide, l’alito fresco e leggero che ancora spirava come un venticello primaverile nella sua bocca, lo avevano fatto ringiovanire, catapultandolo al tempo in cui corteggiando le coetanee sotto le finestre degli alti palazzi della Giudecca, le convinceva ad appartarsi con lui nei Casini ancora presenti nell’Isola colmi di sterpi alti e pungenti e meta solo di qualche coppietta intrepida. Infine, aveva riesumato per lei, traendolo dallo sterminato vocabolario delle sdolcinature, uno dei tanti nomignoli pentendosene subito dopo: era un termine tutto infantile, incompatibile con la sua fantasia di scrittore e filosofo, un vocabolo pronunciato nel momento di maggior piacere, il primo che gli era venuto alla mente. Dopotutto, osservò in seguito, era la verità, quel termine le si addiceva essendo così minuta, con un volto dai lineamenti dolci e le labbra sottili che truccava con un rossetto dai colori tenui. I capelli scuri e riccioluti, poi, le disegnavano una sorta di aureola sul capo e la vita, stretta nei suoi vestitini, ricordavano gli anni in cui dalla matita di Gibson, lo stilista americano, ne era uscita quella figura divenuta presto una icona della bellezza e della indipendenza della donna del ventesimo secolo. Ma Mina non aveva di certo il carattere di un timido fiore, ed ora che lei era sul punto di pronunciare la parola fine alla loro storia, si era pentito ancora una volta di averla chiamata fiorellino e, raschiata la gola per soffocare l’emozione, aveva continuato: Ciao! Allora è così, parti.

    Ciao Franco! Sì, parto.

    Sotto il mento un nodo gli stringeva così forte la gola da non riuscire a rispondere e a respirare a fondo; avrebbe voluto piangere, sì, piangere dopo tanti anni in cui non gli era mai più capitato di farlo ma ai suoi occhi gli si affacciarono solo vecchie e sparute lacrime che gli correvano giù, fin dentro il colletto slacciato della camicia e che non aveva voglia di asciugare.

    Ehi, ci sei? le scivolò dalle labbra.

    Egli non se l’era sentita di continuare la conversazione. Deposta la cornetta sul ricevitore, aveva deciso di rimanere disteso a fissare l’apparecchio, fumare una sigaretta dietro l’altra, riempire la stanza di nuvole di fumo grigio e maleodorante.

    Non partire ripeteva mentalmente non partire. Forse la donna ci avrebbe ripensato, l’avrebbe richiamato e gli avrebbe detto: Ti amo troppo per andarmene, vieni a prendermi! Si sarebbe alzato di scatto e sarebbe corso da lei ma, accortosi che si era fatta ormai notte inoltrata senza che l’apparecchio avesse più squillato, aperta la cassaforte e sfilata l’arma nascosta sotto un cumulo di manoscritti, l’aveva custodita sotto la giacca tra la camicia e la cintura dei pantaloni, aveva indossato l’impermeabile ed il cappello e si era accomodato sulla poltrona di velluto rosso rivolta alla finestra sfilando prima, dallo scaffale accanto, una sua pubblicazione relativa alla vita e le opere di Seneca. Avrebbe atteso pazientemente il mattino in sua compagnia, rileggendo attentamente quanto un tempo aveva scritto e sottolineato, sempre più fermo nel proposito di farla finita con la vita e, come il filosofo che aveva un tempo scelto la nave su cui sarebbe salpato, la casa in cui avrebbe voluto vivere, egli, avrebbe scelto il modo in cui morire. Soddisfatto della propria decisione, si era infine appisolato per poche ore.

    Al mattino, sollevatosi a fatica per il dolore alle ossa, chiusa la porta alle spalle con un lamento, immerso nei suoi pensieri e nella pioggerellina sottile che gli inzuppava gli abiti e colmava l’incavo delle falde del cappello, si era diretto a piedi verso il piccolo locale ove l’aveva incontrata per la prima volta avvolto in quella pioggia silenziosa e senza vento, una pioggia infine serena, buona e pacifica come oramai era divenuto il suo animo.

    Passo dopo passo, pensando a sé stesso e a quanto stava per mettere in atto, davanti ai suoi occhi scorreva l’orrenda fine del suo poeta preferito, un poeta vagabondo, come lui stesso, e la triste Fontana delle Lacrime accanto alla quale era stato assassinato e si vedeva già seduto al tavolo ove aveva conosciuto quella donna, compiere la stessa azione. La sua vita non si sarebbe conclusa come quella del poeta per mano di ignoti sicari, tuttavia, avrebbe chiuso la sua esistenza allo stesso modo: con la propria arma, avrebbe pronunciato la parola fine al romanzo della sua vita. Alla loro breve storia iniziata pochi giorni prima.

    2

    Amo la mia vecchiaia come le mie prime sillabazioni sul quaderno di calligrafia. Come se cominciassi adesso a conoscere la scrittura incerta della vita.

    (Grigore Vieru)

    20 dicembre. Campo San Samuele, Calle de le Carrozze.

    È la calle in cui abitavano Franco e la moglie Lina e di quella calle tutti in Venezia ne conoscevano le origini e la storia; una storia ben nota e che egli non mancava di riferire ogniqualvolta gli chiedevano dove abitasse.

    Pare, che un certo mastro Marco Visin Carozzer raccontava con enfasi fosse il più bravo e celebre costruttore di carrozze a cavalli in Venezia e che avesse la bottega proprio in quella calle, proprio sotto la propria abitazione. La sua notorietà e bravura era tale che Leonardo Dolfin della contrada di San Pantaleone, detto caregheta per il suo umor chiacchierino, podestà e capitano di Brescia, gliene aveva ordinata una che, per la sua magnificenza, superava tutte le altre in circolazione e che aveva fatto portare nella villa di ser Leonardo sul Brenta. Il Visin aveva ottenuto in tal modo elogi, ducati e commesse ma la cosa era durata ben poco: i Provveditori alle Pompe, per conto della Repubblica e per una legge contro il lusso, lo avevano denunciato e costretto, con la minaccia della tortura, a chiudere la bottega.

    È una calle stretta soggiungeva, come tutte le calli di Venezia, quasi un budello, ma io sono felice di abitarci.

    In quel mattino in cui tutto ebbe inizio, i rumori lo avevano raggiunto da ogni angolo della città soffocati e guidati dal lamento lungo e lugubre delle sirene dei vaporetti che scivolavano sull’acqua salmastra dei canali.

    Nell’appoggiare i piedi a terra, lo sguardo perduto nella semioscurità della sua stanza, immaginò la città avvolta nella nebbia: un agglomerato di palazzi apparentemente insicuri, campanili pericolosamente inclinati, chiese e monumenti separati e minacciati dall’acqua verdastra di una millenaria laguna in perenne balia dei capricci delle maree, intersecati da calli e viuzze insudiciate dai tanti turisti, da Campi, ove sorgevano, a centinaia, bancarelle che vendevano gondole di plastica, cappellini e magliette con impresso il simbolo del Leone di San Marco fabbricate ad Hong Kong, infine, il viavai di turisti infreddoliti che vagabondavano sperduti e ignari per la città con le mappe fornite dagli alberghi strette tra le dita. Una città, qualora si fosse aggiunta la nebbia, anonima, una città fantasma, privata del tempo, che sarebbe apparsa scorbutica e deprimente, proprio come era divenuto egli stesso con lo scorrere delle stagioni.

    Seduto sul bordo del letto, sbuffando, passò la mano tra i capelli arruffati e saggiò con una smorfia la lunghezza della barba; giunto al mento si lamentò di sé, di quella pelle in più che gli cresceva lì sotto e che odiava. Di lì a poco, radendosi allo specchio, l’avrebbe rivista: flaccida e coperta di peluria, lo faceva rassomigliare ad uno di quegli strani uccelli che ingurgitano i pesci e li depongono nella sacca che penzola sotto il loro collo.

    Accese la luce dell’abatjour collocato in bilico tra libri e mozziconi di sigaretta precipitati dal portacenere colmo e si mise ad osservare i suoi piedi e le gambe scoperte: lunghi e sottili, talvolta quasi invisibili, canalicoli blu le percorrevano dalle dita fino alle cosce; un reticolo fitto e rilevato, una gabbia di vasi che l’età e la sedentarietà avevano costruito attorno a lui. Provò a lisciarli con le mani e per un momento scomparvero.

    Voltò il capo in direzione di un profondo respiro. Lina dormiva saporitamente e gli girava le spalle mostrando la sagoma del suo robusto corpo rannicchiato sotto le coperte calzate fino alla sommità del capo. Sbarrati gli occhi, si chiese che ci facesse quella donna stesa nel suo letto. Tirò un lungo sospiro: il motivo lo conosceva benissimo ma, non coricandosi più da molto tempo assieme, il fatto di trovarsela accanto gli apparve una stranezza. Era successo infatti che la donna, subito dopo il loro arrivo in città, avesse optato per un letto posizionato sotto alla finestra del soggiorno e lui aveva accettato quella sua scelta di buon grado: era convinto che dormire accanto a lei, avrebbe rovinato il suo sonno.

    Franco, sei tu? mormorò la donna con la voce impastata dal sonno.

    Chi vuoi che sia? le rispose bruscamente dormi, dormi! Stasera ne riparliamo.

    Carmelina, alla quale lui, subito dopo averla incontrata per la prima volta, aveva amputato il nome in Lina, l’aveva conosciuta molti anni prima, in occasione di un lungo soggiorno in Sicilia, al tempo in cui aveva deciso che quell’isola sarebbe stato l’unico luogo che gli avrebbe consentito di descrivere con accuratezza fatti e avvenimenti storici accaduti un secolo prima permettendogli così di produrre il più bel romanzo storico della sua vita.

    Era stato così infatti e, con il romanzo, il successo, le ginestre e i fichi d’india maturati al sole dell’isola divorati ancora caldi appena strappati dalle foglie carnose, che aveva deciso d’impalmare, in un momento di euforica debolezza scaturita dall’inaspettato successo, la sua segretaria divenuta, con il passare delle stagioni, anche la sua amante. Tuttavia, i primi dubbi d’aver commesso un imperdonabile errore, gli erano venuti quasi subito, già al ritorno, seduti in quello scompartimento di treno tutto loro, uno di fronte all’altra. Sì, era vero! Avevano fatto l’amore molte volte nel loro piccolo appartamento siciliano, a Parrino, ma Franco non l’aveva mai osservata con cura, non aveva fatto poi molto caso al suo corpo e solo ora si era accorto che Lina possedeva gambe tozze che sporgevano dalla larga sottana e braccia troppo arrotondate che creavano due piccole pieghe a livello dei gomiti tanto da farli scomparire. I capelli neri e riccioluti, poi, tenuti da fermagli d’osso ai lati, le lambivano le spalle nude nelle quali si immergevano, tra due profonde pieghe della pelle, le larghe spalline del reggipetto.

    Osservando il frenetico viavai delle persone che si urtavano e si spingevano per salire sul vagone, aveva distratto lo sguardo dalla moglie e si era consolato pensando che dopotutto Lina era una donna colta, intelligente e intuitiva, tanto da aver accettato molti dei suoi consigli nel corso della stesura del romanzo salvo pentirsene subito dopo.

    Il capostazione fischiando, aveva agitato la paletta che mostrava il verde in direzione del macchinista e il lungo treno si era mosso abbandonando con una lentezza esasperante Palermo con un clangore metallico chiassoso e stridente voltando le spalle al grande edificio della stazione e alla piazza stranamente intitolata a Giulio Cesare quando al centro era collocata una statua di Vittorio Emanuele II. Posta sopra un monumento di marmo imbrattato dal guano degli uccelli e da graffiti osceni, quello che era stato il re d’Italia, in groppa al suo cavallo, mostrava i fianchi e la coda in direzione della stazione ed il muso verso la lunga Via Roma.

    Aveva abbassato il finestrino e sporto il capo: protetto dalla pensilina malconcia a copertura del marciapiede e fatti due passi lungo il corridoio del vagone ferroviario, si era accorto che il tondo orologio appeso alla colonna mostrava assurdamente, alle opposte facce, orari diversi e aveva pensato che il primo, quello che stava segnando qualche minuto prima di quello opposto, rappresentasse, come lo si era creduto per Giano, il mitologico dio dalle due facce, il passato, mentre l’altro, l’ora del suo futuro, quel radioso futuro di scrittore che pensò l’attendesse a Venezia ora che il suo romanzo aveva ottenuto un’ottima risposta da parte del pubblico. Sulla scia di quello, avrebbe potuto continuare a scrivere e a vendere i suoi romanzi, anche quelli scritti in precedenza, e che avevano riscosso poco successo. Per la prima volta, si era chiesto quale fosse stata la causa di quella singolare metamorfosi che aveva trasformato un buon professore di filosofia in un romanziere ora ricercato dal pubblico, eppure, quei libri di poco successo scritti in precedenza li aveva amati moltissimo e non erano poi molto diversi per lo stile da quest’ultimo. E perché poi avrebbe dovuto pensarci ora che era divenuto uno scrittore affermato? Niente sarebbe accaduto in seguito che avrebbe potuto turbare il fragile equilibrio da lui ottenuto a fatica nel corso degli anni nel tradurre il pensiero in una piacevole scrittura.

    A che pensi, che stai guardando? le aveva chiesto preoccupata del mutismo nel quale egli si era chiuso già dal primo momento in cui erano saliti. Non ottenne risposta.

    Egli, in piedi, appoggiato con i gomiti sul bordo del finestrino dello scompartimento, aveva osservato alcuni uomini di colore distesi sulle panchine di marmo lucido poste tutte in fila sul marciapiede. Sonnecchiavano, mentre le loro donne, con il capo coperto da fazzoletti colorati, allattavano i neonati tenendoli saldamente stretti tra le loro braccia. Gli avevano ricordato un popolo di uomini e nutrici, immobili interpreti di un presepe stabile. Lui da bambino ne possedeva uno che ogni anno faceva la spola dalla soffitta alla sala da pranzo. Costruito dentro una scatola di cartone con vecchie statuine di terracotta scalfite e scolorate nel tempo che il padre aveva incollate alla base, da lì non si sarebbero mai mosse, né sarebbe stato possibile rimuoverle, ed ebbe l’impressione, superando lentamente quelle persone, che sostassero lì da sempre, proprio come succedeva per i personaggi incollati nella sua scatola di cartone, rimanendo immobili, in attesa di un treno che non avrebbe mai abbandonato la stazione ferroviaria con loro a bordo o di una mano che li avrebbe aiutati ad alzarsi.

    Il convoglio si era messo a correre sempre più velocemente e il suo occhio si era perduto oltre il finestrino mentre i suoi pensieri avevano iniziato a viaggiare con lui accompagnati dal ritmo di ferraglia che rilasciava quel vagone ogni qualvolta superava la giunzione tra una rotaia e l’altra.

    Aveva pensato che la vita degli altri scorresse al di là del vetro opaco dello scompartimento al ritmo dei convogli che lambivano le loro città e aveva dedotto come la sua, quella trascorsa lontano da Venezia, fosse passata troppo in fretta, senza concedergli il tempo di pensare ad altro se non alla stesura del romanzo.

    Seduto in quell’angolo di treno, rimanendo in silenzio, ma sorridendo di tanto in tanto a Lina, aveva osservato il paesaggio sfuggire sotto i suoi occhi concludendo che lì fuori, noncurante della velocità di quel mezzo che ora filava spedito, il ritmo della vita stava scorrendo tuttavia per i più in maniera lenta, anonima, una vita complessivamente come la sua, fatta di poco svago, di cibo, della lettura di qualche buon libro, forse di un amore rubato al tempo e alle convenzioni, singole vite che egli avrebbe voluto svelare e interpretare.

    Il tempo! aveva esclamato ad alta voce ripensando a quei film che talvolta si precipitava a vedere al cinema. In quelle pellicole, spesse volte, il tempo non era che un meccanismo infernale dove passato e presente coesistevano. Il tempo non era che un’illusione, un eterno presente. Paradosso assurdo! Aveva concluso, sono invecchiato di un anno, è un fatto incontrovertibile e non un eterno presente." Scosse il capo.

    Quel treno stava correndo lungo la campagna sfiorando i pali infissi ai margini delle rotaie. Le zolle di terra arata recentemente riflettevano il rosso opaco del tramonto ed in lontananza i filari degli alberi, oramai quasi del tutto spogli e con i loro rami rivolti in basso, gli erano apparsi come una lenta e mesta processione.

    Di tanto in tanto si era chiesto quando sarebbe giunta la fermata successiva, quando avrebbe risentito lo stridore delle ruote metalliche fermarsi lentamente e sarebbe riapparsa la vita attorno a quel mezzo: una vita brulicante di persone che trascinavano le loro valigie ed un capostazione che con il fischietto tra le labbra ed una paletta tra le dita, si sarebbe affrettato a chiudere le massicce porte d’acciaio degli scompartimenti dando il via ad una nuova tappa. Avrebbe trovato la sua città come l’aveva lasciata? La folla dei turisti l’avrebbe ulteriormente trasformata nell’enorme tendone di un circo equestre, scalfendola con graffiti e cartacce unte di colazioni abbandonate come se avessero pranzato all’aperto durante una irripetibile scampagnata? Non era riuscito a darsi una risposta ma solo a sperare che tutto ciò non fosse successo.

    Si era alzato e, fatta scivolare la porta, si era avventurato lungo il corridoio del treno gettando inconsapevolmente lo sguardo all’interno degli altri scompartimenti. In uno di essi, un ragazzotto in divisa corteggiava vistosamente una giovane che fingeva di leggere, noncurante delle avances tenendo le gambe accavallate e le cosce nude ben in vista. Nell’altro, un prete leggeva il breviario sotto gli occhi di una famigliola rumorosa stringendo una coroncina di perline azzurre alzando di tanto in tanto lo sguardo al soffitto nel tentativo di ricordare a memoria quanto stava scorrendo con gli occhi e forse raccomandandosi al buon Dio che quei ragazzini così vivaci cessassero di distrarlo con le loro grida.

    Pochi passi e, raggiunta la carrozza ristorante, aveva ordinato un caffè, accesa una sigaretta e si era arrampicato sullo sgabello girevole imbullonato al pavimento di fronte al bancone del bar. La luce del giorno scompariva ogniqualvolta il convoglio attraversava una galleria per ricomparire quando tutte le luci delle lampade appese al soffitto della carrozza si fossero spente. Si era chiesto se le voci che aveva sentito levarsi da molte parti, fossero vere. Sarebbe stato poi vero che una volta chiusi gli occhi al buio della morte ci si sarebbe risvegliati subito dopo feriti da una luce abbagliante? Nemmeno quella volta era stato in grado di rispondere alla domanda che si era posto e che da tempo gli frullava nella testa. L’amico Gawdat gli aveva parlato a lungo di quella sua straordinaria e insolita avventura ancor prima di dare alla stampa il risultato della sua esperienza su di una rivista americana. Lui l’aveva innanzitutto ascoltato, aveva poi letto l’articolo con curiosità, infine, l’aveva gettato via assieme ai pensieri più bui che gli si erano affacciati alla mente.

    «A dire il vero, è stato favoloso aveva scritto l’amico è stato così divertente che non mi dispiacerebbe fare un altro giro» aveva aggiunto. «Ma fino ad allora, lascia che mi concentri sull’altro stato inevitabile: la vita»

    Allontanato quel pensiero e spenta la sigaretta era tornato al proprio scompartimento. Rinvenuta Lina che si era addormentata con il capo appoggiato al cristallo del finestrino, rifiutata la cuccetta, si era sistemato lungo il divano il più comodamente possibile, aveva incrociato le braccia e distese le gambe non riuscendo in alcun modo ad evitare di leggere quella scritta che, alla luce blu dello scompartimento e quella degli sparuti lampioni posti ai margini della ferrovia, compariva e scompariva costantemente sotto ai suoi occhi. Stilato in due lingue, l’aveva ossessionato già dalla partenza con quella sua incomprensibile scritta in tedesco che gli rimbalzava nel cervello come una pallina da pin pong. Keine gegenstaende aus dem fenster werfen, continuava ripetutamente a leggere senza venirne a capo fino a quando finalmente era riuscito a leggerne la traduzione al di sotto. Riportata in lettere di piccole dimensioni e in un minuscolo stampatello, quasi chi l’aveva scritta si fosse vergognato di farlo, era venuto a sapere che era proibito gettare gli oggetti dal finestrino del treno. Ma, a chi mai sarebbe venuto in mente di farlo?" si era chiesto e, chiusi gli occhi, aveva tentato inutilmente di addormentarsi.

    I due avevano trascorso interminabili ore l’una di fronte all’altro scambiando saltuariamente qualche parola che il più delle volte consisteva solo in sbrigativi monosillabi tranne quando Lina gli aveva rinfacciato d’averla sposata troppo in fretta, senza averle dato la possibilità di rispettare le tradizioni della sua Terra e tutto ciò avrebbe in seguito portato sfortuna al loro matrimonio: sarebbe inesorabilmente fallito.

    Ma di che ti lamenti? le aveva risposto mi sembra fossimo d’accordo.

    Non me ne hai dato il tempo.

    Di far che?

    Rispettare le tradizioni! Ad esempio: la sposa il giorno del suo matrimonio deve indossare qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di prestato e qualcosa di blu. Io, invece, ho indossato solo quello straccetto bianco con il velo.

    Lina parlava con enfasi, convinta di quanto stava dicendo, sottolineando le frasi e battendo il pugno sulle ginocchia e Franco, vedendola agitarsi, aveva pensato che forse la donna si fosse già pentita, in fondo come era successo a lui, di quel matrimonio deciso solo sull’onda dell’entusiasmo per il successo ottenuto dal libro e che in parte attribuiva anche a sé stessa.

    Quello straccetto ci è costato una fortuna!

    Sei un taccagno! Ecco quello che sei.

    Tuttavia, a ben pensarci, non ti è mancato nulla: il bianco dell’abito lo avevi, di vecchio avevi indossato qualche gioiello appartenuto a tua madre, ci hanno prestato una macchina per raggiungere la stazione, infine, di blu c’era il mare attorno a noi. A questo punto mi pare non ti sia mancato proprio nulla. Aveva sorriso con sarcasmo ma Lina non ci aveva fatto caso e aveva continuato: Avessi almeno cucito il nastrino blu dentro l’abito!

    A che ti sarebbe servito? aveva chiesto Franco incuriosito.

    A nulla! È il colore del manto della Madonna, un simbolo di purezza…

    Franco aveva sorriso.

    Perché ridi come un idiota? gli aveva urlato Vergine mi trovasti! Infine, aveva taciuto.

    Egli, smesso di sorridere, l’aveva mandata a quel paese con il solo gesto della mano, si era disteso e aveva chiuso gli occhi.

    Lina, visibilmente annoiata e indispettita, toglieva e rimetteva gli occhiali, accendeva e tornava a spegnere la luce dopo aver letto qualche pagina del libro acquistato in fretta a Palermo nel tentativo di appisolarsi.

    Che leggi? Fai vedere!.... Valentino aveva commentato ad alta voce osservando il titolo in copertina "la storia del primo omosessuale descritto nella letteratura contemporanea. Ne ha avuto di coraggio quella Ginzburg! E glielo aveva riconsegnato rimettendosi disteso nella speranza di ricevere, al suo rientro, il premio Campiello, quel riconoscimento tutto veneziano, dal nome preso a prestito da una famosa commedia di Goldoni, che gli sarebbe stato consegnato direttamente dalle mani del Sindaco.

    Non è un romanzo quello che stai leggendo, è più un racconto aveva continuato senza aprire gli occhi "bisogna darle atto però che ha affrontato un tema piuttosto scabroso con quella delicatezza tutta femminile, come in fondo lo

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