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Gioco a nascondere
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E-book184 pagine2 ore

Gioco a nascondere

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Info su questo ebook

Una nuova indagine di Pietro Messina, l’irrequieto ispettore bancario de La Confraternita, questa volta inviato a Messina, la città della sua infanzia.
In quella struggente terra senza storia, dopo il terremoto del 1908, Pietro si imbatterà in tracce di fantasmi mai esorcizzati, frammenti di intrighi loschi, incontrerà prelati equivoci ed affascinanti donne tormentate, figure tutte legate più o meno consapevolmente all’antico passaggio del “mostro- terremoto”.
Solo l’incontro con la piccola Franca, la bambina che si ritroverà a proteggere, sembrerà riconciliarlo con il passato e con la città. In questo affresco dalle forti tinte, Pietro ci riserverà una sorpresa: la scoperta dell’empagine di un racconto dimenticato del Mongitore che favoleggia su un’antichissima e spaventosa catastrofe siciliana.
LinguaItaliano
Data di uscita19 mag 2021
ISBN9791220805872
Gioco a nascondere

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    Anteprima del libro

    Gioco a nascondere - Salvatore Savoia

    L’Autore

    Elegante e cretino

    Palermo, ottobre 1988 Elegante e cretino come un bancario. Quella che in fondo non era altro che una battuta, una di quelle che i vecchi della banca amavano ripetere cento volte per esorcizzare i fantasmi che li infastidivano, non voleva proprio, quel giorno, lasciare la mente di Pietro Messina, come una canzone ascoltata alla radio o una storiella stupida che non smette di far ridere.

    Si era appena seduto al suo posto di lavoro, alle otto e mezza di un martedì d’autunno, e stava per iniziare quei riti di acclimatazione alla giornata d’ufficio che aveva appreso dai colleghi più anziani, a cominciare dal primo lento caffè al bar aziendale. Sapeva di dover affrontare il gioco dell’oggi pago io di qualcuno, con le varianti pagatemi un caffè che non ho spicci, preludio alla sicura barzelletta del dottor Mangia, che mai nessuno aveva potuto trattenere dall’esordio d’obbligo, addentando la seconda ravazzata: io sono napoletano, e da noi si dice magna e fotti. Con questo nome, c’aggi’à fà!.

    Per la verità la principesca espressione sarebbe stata chiagne e fotti ma una correzione da parte di Messina avrebbe comportato l’avvio nefasto di un dibattito talmente lungo e noioso che, anche quella volta, lo sventurato preferì ridere. E non s’incupì nemmeno quando si accorse, sbirciando dalla finestra dell’ultimo piano di via Ingham, che sulla strada alcuni operai stavano smontando le insegne del suo adorato I sorci verdi, l’antico bar di fronte alla banca tra i cui mille piccoli specchi anni trenta amava rifugiarsi nelle pause estive. La sensazione di essere sull’orlo di una delle sue continue crisi di disagio si fece pressante. E si era macchiato pure di caffè la camicia. Elegante e cretino. Era Pitigrilli ad averla detta. Capirai, neanche fosse stato Stendhal. Al di là delle apparenze, e con l’eccezione degli addetti agli sportelli, che utilizzavano come valvole di sfogo le battute e confidenze con i clienti, quella dei famosi bancari massacrati era una leggenda. Le dieci ore dall’entrata all’uscita includevano da sempre un’infinità di piccoli gesti e relazioni, la cui coltivazione era meglio di niente. Meglio certo del fantasticare di altri colleghi di Pietro Messina, che non si rassegnava a dibattere quotidianamente sul calcio o sulle gambe della signorina Palumbo, mitico argomento plurigenerazionale. Anche se, per la verità, Pietro Messina, che un poco ipocrita lo era, una sbirciatina a quelle gambe gliela aveva data mille volte.

    «Il dottor Messina in Direzione!» Il commesso del Direttore lo cercava.

    «Cominciamo colla mattinata» fu il pensiero, in puro linguaggio da impiegato, che espresse il convocato, pensando alla camicia macchiata di caffè, cui cercò di porre ri medio. Intinse nell’acqua della patata americana semidecomposta troneggiante sul bancone del bar un lembo del fazzoletto e lo stropicciò con forza sulla camicia, mentre il commesso lo sollecitava a far presto. La macchia, prima grande e nera come una mosca, divenne larga come una mano, ma di color caffelatte.

    «Messina, carissimo, abbiamo bisogno di lei. Ma che ha fatto alla camicia? Si è versato del brodo?».

    Ecco, per mettere a disagio uno come Messina, un approccio del genere era l’ideale. Ma l’interessato se ne uscì con una smorfia idiota di imbarazzo e di rammarico.

    «Allora, ascolti: che ne direbbe di due, tre settimane a Messina? C’è di bisogno di lei. Un Messina a Messina, in fondo…».

    Peggio della battuta c’era solo quel di bisogno che ahimè andava diffondendosi nelle conversazioni di tutti. Ma il buon Messina glissò su tutto e tentò di sapere qualcosa di più.

    «Mi spiego meglio. Battute a parte, abbiamo la necessità di mandare un ispettore in missione a Messina, perché c’è qualcosa che non va in alcuni servizi: le cassette di sicurezza, il personale… Di più non le dico, anche perché il direttore della sede, l’amico carissimo Cucinotta, mi ha chiesto di mantenere per ora la massima riservatezza, pregandomi di scegliere un funzionario tra i più abili e più riservati. Le dirà lui. Poi mi pare che lei abbia parenti laggiù, e così la vita le sarà più facile. Forza, dottore Messina, vada il più presto che può e mi riferisca ogni settimana. Si prenda il tempo che le serve e…acqua in bocca. Ufficialmente lei va per una normale verifica, una ispezione di routine prevista dalle norme di servizio. Conto su di lei».

    Sulla Freccia del Sud

    Insoddisfatto e tormentato come sempre, Pietro Messina non riuscì a godersi in pace quella imprevista pozione di libertà che pure poteva intravedersi nell’incarico: neppure la constatazione che si trattava di un’attestazione di successo, quel successo che alle viscere più intime di Pietro dava grande gioia, riuscì a incidere sull’ansia che, appena chiusa la porta dell’ufficio del direttore, lo prese.

    Bisogna dire che frasi come ammuccamu, ma ‘stu Messina cu è? tutte a iddu…. borbottate da un paio di colleghi di quelli sempre parcheggiati nei paraggi della porta del direttore, avevano contribuito a farlo scappare verso il portone di via Ingham già infastidito.

    Ma non era questo il punto. A Messina piaceva, sì, nutrirsi di piccole ansie, coccolarsele, pure cercarsele se necessario, ma questa strana missione, questo incarico così vago, senza spiegazioni e senza dettagli, poteva non essere una passeggiata o un incarico facile, ma una di quelle cose con cui in banca uno si fotte, anche se teoricamente pare esattamente l’opposto. Gli venne in mente, senza nes suna apparente ragione o collegamento logico, un’immagine di tanti anni prima, quando sulla spiaggia di Ganzirri uno zio lo aveva quasi lanciato in mare - Pietro aveva sì e no sette anni - per costringerlo ad imparare a nuotare. Quel brutto film dimenticato gli fece pensare a quanto odio avesse riversato su quel brav’uomo che in fondo pensava di aver avuto solo una buona idea per sciogliere le paure di un nipote troppo sensibile e pieno di fobie.

    Dalla scena di una spiaggia di tanti anni prima alla novità che lo portava proprio in quegli stessi posti il passo fu breve. E persino un inedito sorriso osò sorgere sulle sue labbra dinanzi al commesso sulla porta che ebbe l’ardire di dirgli si macchiò la camicia di caffè, dottore.

    Quel sole violento d’ottobre che a Palermo ignora le più elementari regole della buona educazione meteorologica lo investì sulla strada, mentre attraversava vicoli e budelli lerci per raggiungere l’Olivella. Il suo vestito marroncino – color cacca di piccione, lo definivano i colleghi – gli si appiccicava addosso, mentre correva verso le sue statue. Più che l’organizzazione di quel viaggio e la preparazione di una banale valigia, era il regolamento dei conti con i suoi Santi, Ignazio, Francesco Saverio e soprattutto Rosalia a preoccuparlo.

    Non è che Pietro Messina fosse mai stato un grande viaggiatore. Sì, aveva frequentato quel campionario di viaggetti facili facili, visitato capitali tranquille o spiagge confortevoli che rispondevano ad una interpretazione molto morbida del concetto di partenza, mentre sul versante delle sorprese, e meno che mai degli imprevisti, Pietro stesso ammetteva di esser scarsetto. E poi, andare a Messina, la città della sue vacanze d’infanzia, la terra di sua madre, onestamente forse non poteva nemmeno essere considerato viaggio. Sapeva persino quali treni si dovevano prendere, ed almeno da una cosa era rinfrancato: non lo aspettavano sorprese, era prevedibile persino il colore marrone vomito del locomotore 636. La sua Freccia del Sud che lo avrebbe portato a Messina.

    Restavano da risolvere quei minuti problemi organizzativi che in ogni viaggio Pietro drammatizzava ed enfatizzava: la preparazione della valigia, certo, ma soprattutto la gestione del distacco dall’Olivella e dalle sue abitudini.

    Al tramonto, in autunno, si scatena a Palermo una tempesta di colori: fra le nuvole, sulle facciate lerce dei palazzi barocchi, sui vestiti delle donne, che si colorano di fiori violenti rossi e neri, sull’intensità degli stessi raggi di luce che avrebbero dovuto essere più saggiamente conservati per i tempi bui dell’inverno, come si fa con la salsa nelle bottiglie. Persino le statue sembravano di un rosso trasparente e malizioso, poco consono al rango di modelli di misticismo. Messina sorrise loro, cercando di cogliere, specie nel severissimo Ignazio, una qualche smorfia di complicità o almeno di benevolenza. Con lui non succedeva mai, qualche volta al più con Rosalia, ma lei era troppo lontana ed in quel momento sembrava squarciata da fughe di luce infuocata. Non si poteva pretendere che stesse ad occuparsi di Pietro Messina e della sua paura di partire.

    La mattina dopo, alle 8 e a piedi, compiendo uno sforzo che gli sembrò enorme rispetto alle sue abitudini, raggiunse la stazione centrale, nera come si deve e squallida come tutte le stazioni ferroviarie. Sì, per fortuna non si verificavano alterazioni nell’ordine delle cose.

    In quanto funzionario ispettivo della Banca, aveva diritto al biglietto di prima classe, il che comportava la fortuna di restare con ogni probabilità da solo, senza cioè subire le consuete famiglie con bambini, ma soprattutto le offerte di cotolette che ad un giovane tutto solo non mancavano mai: vuole gradire? Le ho fatte con le mie mani stamattina, non faccia complimenti, sa, le faccio per i bambini! E lì, vai con le uova sode appena il treno si muoveva, le melanzane dentro il pane e persino il vino rovente dentro il thermos. La dimensione alimentare di quei viaggi del resto non era aspetto secondario: a Termini il primo caffè, a Sant’Agata le granite (solo nel messinese se la fidano a farle) a Patti il salame di Sant’Angelo. Il tutto, in aggiunta alle personali provviste portate da casa, ovvio.

    Da solo, come previsto, Pietro ebbe il tempo di giocare con le sue fantasie d’infanzia, che in uno scompartimento della Freccia del Sud erano alimentate da lunghi fili di ricordi da assaporare con calma: la lettura delle indicazioni sulle pareti, in italiano ma anche in tedesco, sicuramente in ricordo di antiche alleanze, le stampe in bianco e nero al di sopra delle sei poltrone, raffiguranti immancabilmente paesaggi d’Abruzzo o nuraghe sardi, i lenzuolini sui poggiatesta con le cifre FFSS ricamate, il lampadario anni venti che nel buio delle gallerie spargeva una luce violacea appena appena dannunziana, i sedili ricoperti di una sorta di broccato di lana marrone, le tende agli angoli colorate allo stesso modo, il vassoio retrattile alla grande finestra, sotto la quale una indicazione italo-germanica ricordava il divieto di sporgersi. Altri divieti si trovavano nel bagno, e soprattutto quello di farne uso all’interno delle stazioni (e l’ansia, quel la volta che da piccolo Pietro non era riuscito ad interrompersi durante una sosta a S.Agata, ed aveva passato minuti di terrore temendo che i carabinieri controllando sotto i va- goni potessero risalire al responsabile!).

    Ecco cos’era un viaggio del genere per uno fatto come Pietro. Ma c’erano gli incanti senza tempo del gustare il paesaggio dal finestrino, con gli occhi e le labbra incollati ai vetri, come ricordava d’aver sempre fatto e come sempre gli era stato rimproverato di fare. Già da Cefalù il paesaggio diventava dominato dal mare vicinissimo, dalle calette su cui il treno sembrava volare, dai passaggi a livello vicino ai quali si poteva scorgere il viso di una bimba che salutava il treno e persino ascoltare una coppia che litigava su una vespa, partecipando in qualche modo alle storie private di tanti viaggi che si incrociavano col tuo. Per poi annegare in un odore di mare e di fumo, col caldo della costa che si fondeva con quello della pasta al forno, quest’ultima non prevista nella sceneggiatura.

    Mentre Pietro era distratto dalle sue fantasie, infatti, una inattesa famiglia aveva tirato giù dalle retine portavaligie un contenitore di plastica bianco ed arancio probabilmente ideato per picnic assai più morigerati. L’invenzione del moplen dagli anni 60 in poi aveva del tutto cancellato la modesta poesia nei riti dell’alimentazione da viaggio, sostituendo romantici canestri in vimini e servizi in alluminio con altri fatti dello stesso materiale adoperato per le coperture dei servizi igienici. Anzi, per usare un linguaggio ferroviario, per i cessi, parola del resto utilizzata ormai solo nel lessico delle stazioni, ove cartelli antichi indicano ancora l’ufficio del Capo Stazione, le differenti

    sale d’attesa - quella di prima classe con i sedili in cuoio e quelli di seconda con le panche di legno - e persino l’autarchico Ristoratore. Un pianeta povero ed aggraziato né più né meno delle aiuole stracolme di fiori che scorrono sotto i finestrini quando il treno salta le fermate.

    Pietro non si era accorto che già da Termini Imerese si era insediata nel suo scompartimento una piccola famiglia, che malgrado il livello dichiaratamente borghese dei modi e dell’abbigliamento, alla pasta al forno non aveva saputo rinunciare.

    «Stiamo andando a Roma dai miei suoceri, che fanno quarant’anni di matrimonio, e saremo ricevuti dal Papa, pensi..» fu la giustificazione della giovane donna che apparecchiava una vera e propria tavola sul vassoio sotto il finestrino, e si accingeva a servire il marito compiaciuto.

    « …chissà quando ne potremo mangiare un’altra. Ci deve fare l’onore, dottore, di assaggiarla: l’ho fatta con le mie mani stanotte; ci sono uova, salame, caciocavallo, piselli, ragù, concentrato…». Erano le undici e mezza, e fra meno di un’ora sarebbero giunti a Messina. Tentò di dire che lo aspettavano a pranzo in famiglia, ma non ebbe bisogno di aspettare risposte, scorgendo una vera e propria espressione di desolazione e di sofferenza negli occhi della signora, che mentre parlava non smetteva di assistere il marito, la cui giacca era costellata di frammenti di ragù e di macchie di vino, attorniate da molliche di pane panormita (perché, a Roma pane sanno fare? ).

    E Pietro assaggiò gli anelletti al forno e bevve di quel vino domestico che pareva bollito, tanto caldo era, sorri dendo, ringraziando e insieme sbirciando, quando ci riu- sciva, attraverso i continui cambiamenti di paesaggio, quanto ancora lo attendeva per la fine di quel supplizio.

    Non si accorse nemmeno che al suo fianco era seduta, chissà da quanto, un’altra donna, questa di una certa età e di una eleganza inconsueta. Tentava anche lei di sbirciare dal finestrino, sollevandosi dal suo posto che era un po’ più interno. Col suo scialle di seta rosso alle spalle ed un cappellino fuori moda, e soprattutto con quei guanti bianchi aggrappati ad una bella borsa da viaggio d’altri tempi, sembrava una viaggiatrice inglese degli anni ‘20.

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