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Carson di Venere: Carson di Venere 3
Carson di Venere: Carson di Venere 3
Carson di Venere: Carson di Venere 3
E-book275 pagine4 ore

Carson di Venere: Carson di Venere 3

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Fantascienza - romanzo (233 pagine) - Nel terzo romanzo del divertente e avventuroso ciclo di Venere dal creatore di Tarzan e John Carter di Marte Carson Napier deve rubare l'unico aeroplano esistente su Venere!


Sul pianeta Venere, avvolto dalla nebbia, civiltà avanzate benedette dall'eterna giovinezza coesistono con città infestate dai morti viventi, mentre gli uomini-animali assetati di sangue si aggirano nelle notti luminose. Il terrestre Carson Napier ormai sa come sopravvivere ai molti pericoli del pianeta, ma adesso uno spietato tribunale ha condannato a morte l'amata principessa Duare di Carson. Per salvarle la vita, il coraggioso terrestre deve rubare l'unico aeroplano esistente su Venere.

Attraverso oceani inesplorati brulicanti di feroci mostri marini e attraverso cieli dove l'uomo non aveva mai volato prima, Carson di Venere rischia la vita per contrastare il piano di un malvagio tiranno…


Edgar Rice Burroughs (1875-1950) è senza alcun dubbio uno degli scrittori d'avventura di maggior successo. Eppure la sua carriera è nata quasi per caso: senza istruzione oltre la scuola dell'obbligo, non riesce né nella carriera militare né in quella professionale, passando da un lavoro all'altro senza mai fortuna. Ormai sull'orlo del suicidio prova con la scrittura: il suo primo romanzo, Sotto le lune di Marte, pubblicato a puntate sulla rivista The All-Story, viene accolto con entusiasmo e sarà l'inizio di un ciclo – quello di John Carter di Marte – che arriverà a contare undici volumi.

Ma è nulla rispetto al successo che ottiene due anni dopo, con la pubblicazione di Tarzan delle scimmie. Una serie che diventa un clamoroso fenomeno che darà il via non solo a numerosi romanzi, ma a oltre trenta film, e fumetti, serie tv, cartoni animati. Al punto che ben due città, Tarzana in California e Tarzan in Texas, prendono il nome dal suo personaggio.

Oltre a Marte e alla giungla Burroughs visita il centro della Terra con la serie di Pellucidar, la Luna col ciclo del Popolo della Luna, e Venere col ciclo di Carson di Venere, che presentiamo in questa collana.

LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2021
ISBN9788825415261
Carson di Venere: Carson di Venere 3
Autore

Edgar Rice Burroughs

Edgar Rice Burroughs (1875-1950) had various jobs before getting his first fiction published at the age of 37. He established himself with wildly imaginative, swashbuckling romances about Tarzan of the Apes, John Carter of Mars and other heroes, all at large in exotic environments of perpetual adventure. Tarzan was particularly successful, appearing in silent film as early as 1918 and making the author famous. Burroughs wrote science fiction, westerns and historical adventure, all charged with his propulsive prose and often startling inventiveness. Although he claimed he sought only to provide entertainment, his work has been credited as inspirational by many authors and scientists.

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    Anteprima del libro

    Carson di Venere - Edgar Rice Burroughs

    9788825415285

    Capitolo primo

    Disastro

    Chiunque abbia mai volato ricorderà senza dubbio l’eccitazione del suo primo volo su un terreno familiare, l’emozione di vedere scene ben note da una nuova angolazione che conferiva a esse la stranezza e il mistero di un mondo sconosciuto… il tutto però sempre accompagnato dal conforto derivante dal sapere che l’aeroporto era vicino e che anche nel caso di un atterraggio di fortuna non si avrebbero avute difficoltà a orientarsi e a tornare a casa.

    Quell’alba in cui decollai da Havatoo insieme a Duare, con l’accompagnamento del suono scandito dei fucili amtoriani, io mi trovai però a sorvolare un mondo realmente sconosciuto, dove non c’erano campi di atterraggio e dove non avevo una casa. Quello fu probabilmente il momento di maggiore eccitazione e di maggiore felicità di tutta la mia vita perché la donna che amavo aveva finalmente ammesso di ricambiare il mio amore e stavo volando al sicuro al di sopra delle innumerevoli minacce che popolano la superficie di Amtor. Senza dubbio altri pericoli ci aspettavano nel corso della nostra apparentemente disperata ricerca dell’isola di Vepaja, ma per il momento nulla contaminava la nostra felicità o destava timori di sorta… almeno non per quanto mi concerneva. Quanto a Duare, è possibile che lei nutrisse sentimenti un po’ diversi dai miei e avesse qualche premonizione di disastro, se si considera che fino al momento in cui ci eravamo levati in volo al di sopra delle mura di Havatoo lei non aveva mai neppure immaginato che potesse esistere un mezzo mediante il quale l’uomo fosse in grado di volare nell’aria come un uccello. Naturalmente la cosa l’aveva alquanto sconvolta, ma si era mostrata molto coraggiosa e aveva accettato senza obiezioni le mie assicurazioni sul fatto che non correvamo pericoli di sorta.

    L’aereo era una macchina assolutamente perfetta, come lo saranno anche gli aerei della vecchia Terra quando da noi la scienza avrà compiuto i progressi che ha già fatto in Havatoo. La sua struttura era stata realizzata mediante materiali sintetici estremamente resistenti e leggeri, e gli scienziati di Havatoo mi avevano garantito che sarebbero trascorsi almeno cinquant’anni prima che si rendessero necessarie revisioni o riparazioni di sorta, a parte quelle derivanti da un incidente. Il motore era silenzioso ed efficiente al di là di qualsiasi immaginazione e a bordo avevamo carburante sufficiente per tutti i cinquant’anni di vita dell’apparecchio, una scorta così poco voluminosa da poter essere tenuta sul palmo di una mano. Questo apparente miracolo aveva però una spiegazione scientifica assai semplice e basata su un concetto noto anche agli scienziati della Terra, e cioè che l’energia liberata dalla combustione di una sostanza è soltanto l’infinitesima parte di quella che potrebbe essere generata dall’annientamento totale di quella stessa sostanza… nel caso del carbone, per esempio, la proporzione è di diciotto miliardi a uno. Il combustibile utilizzato dal mio aereo consisteva di una sostanza nota come lor, che contiene un elemento chiamato yor-san e un secondo elemento definito vik-ro, il cui effetto sul yor-san porta all’assoluto annientamento del lor.

    Per quanto concerneva la funzionalità dell’apparecchio, quindi, avremmo potuto volare per cinquant’anni di fila, salvo avverse condizioni atmosferiche, ma il nostro punto debole consisteva nel fatto di essere privi di provviste perché la partenza così precipitosa aveva reso impossibile predisporre a bordo scorte di rifornimenti: eravamo fuggiti con la pelle intatta e con gli abiti che avevamo indosso e niente di più, ma eravamo felici e io non avevo voglia di alterare la nostra felicità sollevando domande inerenti al futuro.

    In realtà, però, gli interrogativi che avevamo di fronte erano molteplici e alla fine fu la stessa Duare a sollevarne uno con la massima naturalezza.

    – Dove stiamo andando? – mi chiese.

    – A cercare Vepaja – risposi. – Ho intenzione di riportarti a casa.

    – No, non possiamo andare là – protestò lei, scuotendo il capo.

    – Ma Vepaja è il solo posto in cui hai desiderato di andare fin da quando sei stata rapita dai klangan – obiettai.

    – Ora non più, Carson, perché il jong mio padre ti farebbe uccidere. Ci siamo scambiati parole d’amore e nessuno può parlare d’amore alla figlia del jong di Vepaja prima che abbia compiuto i vent’anni… lo sai benissimo anche tu.

    – Non ne dubito, considerato che me lo hai ripetuto di continuo – la stuzzicai.

    – Lo facevo per il tuo bene, ma mi è sempre piaciuto sentirti dire che mi amavi.

    – Dall’inizio?

    – Dall’inizio… ti ho amato dalla prima volta che ti ho visto, Carson.

    – Allora sei una maestra della dissimulazione, dato che sei quasi riuscita a convincermi che mi odiavi, anche se qualche volta ne ho dubitato.

    – e è perché ti amo che non dovrai mai cadere nelle mani di mio padre.

    – Ma dove possiamo andare, Duare? Conosci un solo posto di questo mondo dove potremmo essere al sicuro? Non ce ne sono, e se non altro a Vepaja tu saresti al sicuro… quanto a me, dovrò correre il rischio e sperare di riuscire a convincere tuo padre.

    – Non potresti mai farcela. La legge non scritta che regola queste tradizioni è antica quanto l’impero stesso di Vepaja. Tu mi hai parlato degli dèi e delle dee delle religioni del tuo mondo… ebbene, in Vepaja la famiglia reale occupa una simile posizione nella mente e nel cuore della gente e questo vale in modo particolare per la figlia vergine di un jong, che è assolutamente sacrosanta. Soltanto guardarla è già un’offesa e rivolgerle la parola è un crimine punibile con la morte.

    – È una legge assurda – ribattei in tono secco. – Dove saresti adesso se io mi fossi attenuto a essa? Saresti morta, quindi oso dire che tuo padre dovrebbe se non altro sentirsi in obbligo nei miei confronti.

    – Come padre certamente, ma non come jong.

    – E suppongo che lui sia prima di tutto un jong – puntualizzai con una certa amarezza.

    – Esatto, e è per questo che non possiamo tornare a Vepaja – confermò Duare, nel tono di chi considera chiuso un argomento.

    Che ironico scherzo mi aveva giocato il destino: con un’infinità di opportunità su due mondi di selezionare una ragazza per me aveva finito per scegliere una dea… ma amare Duare e sapere di esserne riamato era meglio che trascorrere una vita intera con un’altra donna.

    La decisione presa da Duare di non tornare a Vepaja mi aveva però lasciato in preda a un dilemma, perché anche se non avevo la certezza di poter trovare Vepaja esso costituiva se non altro una meta verso cui puntare, mentre ora non sapevo più quale direzione scegliere. Havatoo era la città più splendida che avessi mai visto, ma l’assurda decisione da parte dei giudici che avevano esaminato Duare dopo che io l’avevo salvata dalla Città dei Morti e la nostra successiva fuga rendevano impossibile tornarvi; d’altro canto, cercare una città ospitale in quello strano mondo sembrava un’impresa inutile e priva di speranza, in quanto Venere è un pianeta di contraddizioni, di anomalie e di paradossi, dove si possono incontrare bestie spaventose in mezzo a uno scenario di pace e di bellezza oppure usanze barbare e crudeli nell’ambito di una cultura erudita e amichevole, dove la qualità della misericordia è assolutamente sconosciuta ai tribunali di una città abitata da uomini e donne dotati di un’intelligenza superiore e della massima dolcezza di carattere. Che speranza potevo quindi avere di trovare un luogo sicuro per me e per Duare? Decisi di conseguenza di riportare Duare a Vepaja, affinché almeno lei potesse vivere serenamente.

    Stavamo volando verso sud lungo il corso del Gerlat kum Rov, il Fiume della Morte, alla volta del mare al quale sapevo le sue acque mi avrebbero infine guidato, e mi tenevo a bassa quota perché tanto io quanto Duare desideravamo osservare il panorama che si allargava maestoso sotto di noi: c’erano foreste, colline, pianure e, in lontananza, le montagne, il tutto sovrastato come dal telo di una vasta tenda dallo strato interno di nubi che avviluppa interamente il pianeta e che, insieme allo strato esterno tempera il calore del sole e rende possibile la vita su Venere. Vedemmo mandrie di animali che pascolavano sulle pianure ma non scorgemmo città di sorta né tracce di presenze umane… quella che si stendeva sotto di noi era una landa selvaggia splendida ma letale, com’era tipico di Amtor.

    La nostra rotta era dritta verso sud e io ero convinto che quando avessimo incontrato il mare non avremmo dovuto far altro che attraversarlo per trovare Vepaja e ammarare… sapendo che Vepaja era un’isola e che un giorno avrei potuto desiderare di tornarvi, io avevo infatti attrezzato il mio aereo con galleggianti retrattili oltre che con i normali carrelli d’atterraggio.

    La vista delle mandrie che pascolavano sotto di noi mi fece pensare al cibo e stimolò il mio appetito, inducendomi a chiedere a Duare se anche lei avesse fame; mi rispose che era affamata, ma che non sapeva a cosa questo potesse servirle.

    – Laggiù c’è la nostra cena – replicai, indicando.

    – Sì, ma nel tempo che impiegheremo a scendere se ne sarà andata – sottolineò. – Aspetta che si accorgano di questo arnese e non ci sarà più un solo capo nel raggio di chilometri… a meno che la sua vista non ne faccia morire qualcuno di paura.

    Naturalmente Duare non usò il termine chilometri ma parlò di klookob, il kob essendo un’unità di misura delle distanze che equivale a quattro chilometri terrestri, mentre kloo è il prefisso che indica il plurale; quanto all’aereo, però, usò effettivamente l’espressione amtoriana corrispondente a «questo arnese».

    – Per favore, non definire così la mia bella aeronave.

    – Ma questa non è una nave – ritorse lei – perché una nave viaggia sull’acqua. Forse ho trovato il nome giusto, Carson… questo è un anotar.

    – Splendido! – approvai. – Anotar è una definizione perfetta.

    Quello era in effetti un nome appropriato, perché notar significa nave mentre an è il vocabolo amtoriano equivalente a uccello… nave uccello. Quella definizione mi parve addirittura migliore di aeronave, forse perché era stata Duare a coniarla.

    Ci trovavamo a una quota di circa trecento metri dal suolo, ma poiché il motore dell’aereo era assolutamente silenzioso nessuno degli animali sottostanti si era ancora accorto della strana cosa che si librava su di loro. Quando cominciai a scendere a spirale verso il basso Duare ebbe un piccolo sussulto e mi toccò il braccio… non lo strinse, come un’altra donna avrebbe forse fatto al suo posto, ma si limitò a sfiorarlo come se il semplice contatto le desse una certa dose di sicurezza… perché quella doveva certo essere un’esperienza spaventosa per qualcuno che prima di quella mattina non aveva mai visto un aereo.

    – Cosa intendi fare? – chiese.

    – Sto andando a procurare la nostra cena. Non temere.

    Lei non aggiunse altro ma continuò a tenere la mano sul mio braccio. Stavamo calando rapidamente di quota quando all’improvviso uno degli animali intenti a pascolare sollevò la testa e ci vide, emettendo un sonoro sbuffo di avvertimento e lanciandosi al galoppo attraverso la pianura. A quel punto l’intera mandria si diede alla fuga e io mi lanciai all’inseguimento continuando a scendere fino a trovarmi appena al di sopra del dorso delle bestie in corsa. Dall’alto, Duare doveva aver avuto l’impressione che stessimo viaggiando lentamente, e ora che volavamo a pochi metri da terra rimase sorpresa nel rendersi conto che avremmo potuto facilmente distanziare anche il più veloce di quegli animali.

    Di solito non considero molto sportivo cacciare da un aeroplano, ma in quella circostanza non stavo indulgendo in un’attività sportiva… ero in cerca di cibo e quello era il solo modo in cui avrei potuto ottenerlo senza mettere in pericolo la vita di entrambi braccando la preda a terra. Fu quindi senza la minima remora che estrassi la pistola e abbattei un grasso e giovane capo di un’imprecisata razza erbivora ignota sul nostro mondo… o meglio, suppongo che fosse giovane, perché il suo aspetto era tale.

    Intanto l’inseguimento ci aveva portati piuttosto vicini al limitare della foresta che cresceva lungo le rive del Fiume della Morte e questo mi costrinse a una brusca virata per evitare di andare a sbattere contro gli alberi; quando lanciai un’occhiata a Duare vidi che era decisamente pallida ma continuava a mostrarsi coraggiosa.

    Allorché atterrai accanto alla mia preda, la pianura era ormai deserta, quindi lasciai Duare a bordo e scesi a terra per macellare l’animale, con l’intenzione di tagliare tutta la carne che avrebbe potuto mantenersi fresca per un breve lasso di tempo per poi caricarla a bordo e cercare un luogo più adatto ad accamparsi.

    Stavo lavorando vicino all’apparecchio e né Duare né io stavamo guardando in direzione della foresta che si allargava a poca distanza da noi… certo senza dubbio fu un atteggiamento sconsiderato da parte nostra, ma entrambi eravamo concentrati sul lavoro di macellazione che io stavo svolgendo e che costituiva uno spettacolo strano e interessante.

    La prima avvisaglia di pericolo fu per me un grido spaventato da parte di Duare che mi indusse a girarmi di scatto verso di lei, in tempo per vedere una dozzina di guerrieri che ci stavano aggredendo. Tre di essi mi erano già addosso con la spada alzata e io finii al suolo sotto i loro colpi come un bue al macello, senza avere neppure il tempo di difendermi… non prima però di riuscire ad accorgermi con estremo stupore che i nostri assalitori erano tutti di sesso femminile!

    Persi i sensi e dovetti restare svenuto per oltre un’ora, perché quando mi ripresi mi trovai solo: Duare e le guerriere erano scomparse.

    Capitolo secondo

    Le donne guerriere

    In quel momento giunsi più vicino di quanto lo fossi mai stato a sentirmi annientato: vedermi sottrarre Duare e la felicità dopo poche ore e sulla soglia stessa di una relativa sicurezza ebbe l’effetto di abbattermi totalmente per un momento e alla fine ciò che mi restituì il controllo di me stesso fu l’aspetto più grave della situazione e cioè la sorte di Duare.

    Ero decisamente malconcio, con la testa e la parte superiore del corpo coperti di sangue a causa di parecchi tagli provocati dalle spade, e anche se non riuscirò mai a capire per quale motivo non fossi stato ucciso sono certo che quelle guerriere mi avessero creduto morto perché le mie ferite erano tutt’altro che lievi, anche se nessuna di esse era letale. Il cranio era intatto, ma la testa mi doleva spaventosamente e mi sentivo debole per lo shock e la perdita di sangue.

    Un rapido esame dell’aereo mi mostrò che non era stato danneggiato né manomesso, e quando mi guardai intorno nella pianura mi convinsi ben presto che la presenza dell’apparecchio era stata ciò che mi aveva salvato la vita, perché numerose belve dall’aspetto selvaggio si stavano aggirando intorno a esso a distanza di sicurezza, scrutandomi con aria famelica: ai loro occhi l’aereo doveva essere apparso come una sorta di strano mostro che montasse la guardia accanto a me, e questo le aveva tenute a bada fino a quel momento.

    La fugace occhiata che ero riuscito a scoccare a quelle donne guerriere mi aveva permesso di stabilire che non si trattava di vere e proprie selvagge ma di individui che avevano raggiunto almeno un minimo grado di civilizzazione, com’era dimostrato dal loro equipaggiamento e dalle loro armi, quindi supposi che dovessero vivere in un villaggio e che esso non si dovesse trovare molto lontano, considerato che le guerriere erano appiedate.

    Ero inoltre sicuro che fossero uscite dalla foresta alle spalle dell’apparecchio e stabilii di iniziare in quella direzione le ricerche di Duare.

    Prima di atterrare non avevamo però scorto nessun villaggio, mentre mi sembrava quasi certo che avremmo dovuto avvistare qualsiasi centro abitato che si trovasse nel raggio di pochi chilometri dalla nostra posizione, considerato che entrambi eravamo alla costante ricerca di segni che indicassero la presenza di esseri umani. Portare avanti le ricerche a piedi sarebbe comunque stata una follia in considerazione della presenza di quegli animali carnivori che stavano soltanto aspettando di piantare i denti nel mio corpo, e del resto se il villaggio delle donne guerriere si trovava in aperta pianura avrei potuto avvistarlo con maggiore facilità dall’alto.

    Quando presi posto ai comandi mi sentivo ancora piuttosto stordito e debole, tanto che soltanto una situazione d’emergenza come quella a cui mi trovavo di fronte avrebbe potuto indurmi ad alzarmi in volo in simili condizioni, ma effettuai comunque un decollo soddisfacente e una volta in alto mi concentrai a tal punto sulle ricerche da dimenticare quasi i dolori che mi affliggevano. Sorvolai la foresta tenendomi a bassa quota e nel più assoluto silenzio, sapendo che un villaggio costruito in essa sarebbe potuto risultare difficile da avvistare dall’alto ma che in virtù della silenziosità del mio apparecchio avrei potuto forse individuarlo grazie ai rumori che ne provenivano, se mi fossi tenuto abbastanza basso.

    La foresta non era molto ampia e ben presto l’ebbi sorvolata tutta, senza però scorgere tracce di sorta di un eventuale villaggio; al di là di essa si allargava una catena di colline, in mezzo alle quali scorsi un passo solcato da una pista che recava segni marcati di un passaggio frequente. La seguii ma non avvistai nessun luogo abitato sebbene il terreno fosse ben visibile tutt’intorno per un raggio di parecchi chilometri; le colline si erano intanto fatte sempre più fitte e solcate da piccole gole e vallate, un territorio aspro dove sembrava improbabile che potesse esserci un villaggio, quindi alla fine rinunciai alle ricerche e tornai verso la pianura dove Duare era stata catturata, con l’intenzione di vagliare il terreno in un’altra direzione.

    Stavo ancora volando basso per passare di nuovo al setaccio il tratto che avevo già sorvolato, quando d’un tratto la mia attenzione fu attratta da una figura umana che stava camminando a passo rapido sulla superficie pianeggiante di una mesa. Scendendo ulteriormente di quota, verificai che si trattava di un uomo, che procedeva molto in fretta scoccandosi continue occhiate alle spalle, talmente preoccupato da ciò che si doveva trovare dietro di lui da non essersi neppure accorto della presenza dell’aeroplano; di lì a poco, poi, ebbi modo di appurare quale fosse la causa di tanta ansietà… e cioè una di quelle feroci creature amtoriane simili a leoni che vengono chiamate tharban. La belva stava braccando la preda e dal suo comportamento mi resi conto che presto avrebbe attaccato, quindi mi lanciai rapidamente in picchiata arrivando appena in tempo.

    Nel momento in cui la bestia spiccò il salto l’uomo dovette comprendere che qualsiasi tentativo di fuga era inutile e si voltò per fronteggiarla con la sua lancia miseramente inadeguata al compito, ma al tempo stesso io estrassi la mia letale pistola a raggi r e nel sorvolare il tharban così da vicino da rischiare di fracassarmi aprii il fuoco contro di esso. Probabilmente fu soltanto per fortuna e non per abilità che riuscii a colpire il bersaglio, e mentre la belva si rotolava su se stessa in preda alle convulsioni della morte io cabrai e tornai verso l’uomo, atterrando accanto a lui: quello era il primo essere umano che vedevo da quando Duare era stata catturata e avevo intenzione di interrogarlo, approfittando del fatto che era solo, disarmato e assolutamente in mio potere.

    Non so perché non cercò di fuggire e rimase invece fermo dove si trovava mentre io facevo rollare verso di lui l’aereo che di certo doveva apparirgli come un mostro spaventoso… forse la paura fu tale da paralizzarlo. Si trattava di un individuo basso dall’aspetto alquanto insignificante, che portava un perizoma tanto lungo e voluminoso da sembrare quasi una gonna e aveva la gola, i polsi e le caviglie adorni di numerosi monili di pietre e di perle colorate; i lunghi capelli neri erano raccolti in due nodi sulle tempie ed erano decorati con piccole piume multicolori che sporgevano da essi come frecce da un bersaglio. Il suo armamento consisteva nella lancia, in una spada e in un coltello da caccia.

    Quando scesi a terra e feci per avvicinarmi, l’uomo indietreggiò e sollevò con aria minacciosa la lancia.

    – Chi sei? – chiese. – Non ti voglio uccidere ma se ti avvicinerai ancora sarò costretto a farlo. Che cosa vuoi?

    – Non intendo farti del male – garantii, esprimendomi come anche lui aveva fatto nel linguaggio universale di Amtor. – Voglio soltanto parlarti.

    – Di cosa vuoi parlare? Prima però spiegami perché hai abbattuto il tharban che stava per assalirmi.

    – Perché non ti uccidesse e non ti mangiasse.

    – È una cosa strana – commentò l’uomo, scuotendo il capo. – Non mi conosci, non siamo amici, quindi perché hai voluto salvarmi la vita?

    – Perché siamo entrambi uomini – ribattei.

    – È un concetto valido – ammise. – Se tutti gli uomini la pensassero in questo modo saremmo trattati meglio, ma del resto molti di noi avrebbero paura di farlo. Cos’è quella cosa su cui viaggi? Adesso posso vedere che non è viva, quindi come mai non cade al suolo e non ti uccide?

    Non avevo né il tempo né la voglia di spiegare i principi dell’aerodinamica a quel selvaggio, quindi risposi che l’aereo stava in alto perché ero io a ordinarglielo.

    – Devi essere un uomo meraviglioso – commentò in

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