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Echi oltre le mura
Echi oltre le mura
Echi oltre le mura
E-book330 pagine4 ore

Echi oltre le mura

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Info su questo ebook

Rebecca Manforte è una giovane donna in carriera che ha da poco perso il nonno materno ed è costretta a lasciare la vita di Milano per raggiungere Treviso e confortare la nonna, unico  membro rimasto della sua famiglia. Ad attenderla troverà molti ricordi e alcuni capitoli di un libro incompiuto sulle vicende della giovane contessa Ludovica Capilupi, figlia del podestà di Treviso Fiorio Capilupi, vissuta in un castello immerso nella campagna trevigiana. 
Per superare il lutto, Rebecca decide di ricominciare a scrivere e, a mano a mano che recupera il passato per poterlo raccontare, il suo destino si lega a quello di Ludovica, in un legame che andrà oltre i confini del tempo, approdando al 1178, epoca in cui Treviso è una città potente, scenario di violente faide tra famiglie feudali, intrighi di potere e lotte per la conquista di nuovi territori.
LinguaItaliano
Data di uscita18 set 2023
ISBN9791222448848
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    Anteprima del libro

    Echi oltre le mura - Serena Perozzo

    copertina

    Serena Perozzo

    Echi oltre le mura

    ISBN: 9791222448848

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Informazioni

    Per quanto l’ambientazione storica del XII secolo si basi su fatti realmente accaduti, la narrazione di personaggi e accadimenti è frutto della fantasia dell’autrice, così come le vicende che coinvolgono la protagonista Rebecca.

    Il disegno della mappa del Comitato trevigiano è di Tobia Girotto

    La foto in copertina dell’autrice è di Annalisa Durighello

    Proprietà letteraria riservata

    2023 © Piazza Editore

    via Chiesa, 6 - 31057 Silea (TV)

    Tel. 0422.1781409

    www.piazzaeditore.it - info@piazzaeditore.it

    e-mail dell’autore: serenaperozzo.autrice@gmail.com

    Dedica

    Ai miei figli Rebecca e Joshua.

    Considerando le cose meno superficialmente, è assolutamente impensabile che ciò che è un giorno esistito con tutta la forza della realtà possa mai risolversi in nulla e continuare per tutta l’eternità a venire, a essere il nulla.

    A. Schopenhauer

    1.

    Treno regionale Padova - Montebelluna, venerdì 31 maggio

    «Signorina, il biglietto prego.»

    Sobbalzai e aprii a fatica gli occhi gonfi e stanchi. Non guardai a chi appartenesse quella voce nasale e farfugliai una scusa prima di mettermi a cercare il cartoncino nelle tasche del trench. Lo porsi alla divisa senza volto davanti a me e rimasi in attesa, guardando il controllore senza vederlo.

    «Viene da Milano. Dov’è diretta?» Indagò, analizzando il biglietto con circospezione.

    «Montebelluna.» Risposi in un sospiro.

    «È la prossima fermata.» Puntualizzò prima di guardarmi di nuovo e cambiare espressione. «Si sente bene signorina?» Chiese restituendomi il biglietto.

    Dovevano essere stati i miei occhi arrossati a incuriosirlo, o forse il trucco rovinato.

    «Sì, bene. Grazie.» Chinai la testa in un saluto e mi voltai verso il finestrino. Non volevo essere sgarbata, ma proprio non me la sentivo di parlare.

    Il paesaggio della campagna trevigiana mi scorreva davanti silenzioso come la pellicola di un film muto, di cui io ero l’attonito spettatore. Era un film drammatico, di quelli che non sono mai riuscita a guardare fino in fondo, ed era iniziato solo poche ore prima con lo squillo insistente del telefono.

    Non andava tutto bene. Per niente.

    Tamponai una lacrima con il dorso della mano, tirai su col naso e stropicciai con rabbia il pacchetto di fazzoletti ormai vuoto. Sbuffai e mescolai nuovamente il contenuto della borsa alla ricerca dello smartphone, lo accesi e subito il telefono vibrò per avvisarmi del nutrito numero di telefonate perse. Erano tutte di Ruggero, ma non lo avrei richiamato, non ancora.

    Scorsi le chiamate recenti: Casa Nonni, ore 14:57 risultava l’ultima a cui avevo risposto.

    «Rebecca, mi dispiace…» La voce di nonna Maria era stata poco più di un sussurro spezzato «il nonno.»

    In quel momento il mio film aveva perso colori e suoni, la trama stessa era mutata.

    «Non c’è più.» La nonna aveva attorcigliato l’ultima parola a un lungo lamento.

    «No…» Avevo sussurrato fra il tremolio delle labbra.

    Avevo portato la mano agli occhi, poi al cuore perché non volevo vedere, non volevo soffrire.

    Avevo respirato a fondo, ma non era servito a nulla.

    «Rebecca, se n’è andato nel sonno.»

    «Prendo il primo treno e arrivo.»

    Le avevo consigliato di chiamare la sorella per non rimanere sola, avevo riagganciato e tutto era diventato liquido. Non avevo potuto far altro che rifugiarmi nel bagno dell’ufficio. Il coperchio del gabinetto era scomodo: mi ci ero rannicchiata portando le gambe al petto e stringendole a me, nella vana speranza di poter così contenere il dolore in un invisibile abbraccio. Avevo pianto in silenzio, poi mi ero fatta coraggio: ero uscita dalla toilette e avevo attraversato l’openspace dell’ufficio, instabile sui miei tacchi. Avevo afferrato la borsa, mi ero infilata lo spolverino e avevo indossato gli occhiali da sole, sotto lo sguardo occhialuto e troppo curioso della mia assistente.

    Il treno rallentò la corsa, mi alzai, raggiunsi il corridoio e guardai la mia immagine riflessa nel vetro del finestrino: come ero fuori luogo con quel tailleur e le décolleté nere. Espirai rumorosamente, guardai all’insù e inghiottii una lacrima impertinente, forse l’ultima. Forse.

    Con uno sbuffo ed un cigolio la porta del vagone si aprì e io trattenni il fiato per proteggermi da quel miscuglio fetido di urina, olio bruciato e freni consumati tipico delle banchine ferroviarie.

    Lei era lì, immobile e vitrea di fronte al binario, le braccia sottili attorno al minuscolo torace. Non riuscì a sorridermi anche se ci provò, ma le labbra furono costrette a ripiegarsi all’ingiù da una tristezza dittatrice che si era impossessata anche dei suoi occhi color del ghiaccio.

    Percorsi quasi correndo i pochi metri che ci separavano. La strinsi a me e affondai il viso nel suo maglione, inspirando a fondo il rassicurante e immutato profumo di rose: il profumo della mia infanzia.

    Fu allora che sentii i sussulti che le scuotevano il corpo affranto, ma non emise alcun suono: non un singhiozzo, non un lamento.

    Treviso, Anno del Signore 1178, sabato 24 giugno

    Le grida gracchianti di Tommasino e il vorticoso vociare che giungeva da fuori la carrozza fecero ridestare Ludovica da un sonno irrequieto.

    «Svegliati, dai svegliati! Guarda, siamo a Treviso! Questa volta è vero! Zia, dille di svegliarsi!».

    Gli occhi sornioni di Ludovica si aprirono in un’invisibile fessura, come quelli di un gatto destato troppo presto da un sonno profondo che controlla se sia il caso di abbandonare il dolce torpore dell’oblio per un’ignota ricompensa. Non era la prima volta che il fratello minore la illudeva del loro arrivo e la giovane aveva smesso di credergli.

    La mano ferma e rassicurante di zia Adele accarezzò quella di Ludovica.

    «Questa volta è la verità. Scosta la tenda.» Le suggerì quindi la donna.

    Le parole s’intrufolarono nella felina indolenza di Ludovica che scostò appena la tendina dondolante e, rimanendo celata dietro la tiepida parete della carrozza, sbirciò con crescente meraviglia la maestosità di ciò che li circondava.

    Schiere di graziose e ordinate casupole in legno, coperte di paglia e punzecchiate qua e là da presuntuose torri di pietra, si alternavano a operose botteghe addobbate a festa. I trevigiani erano giunti numerosi per quell’avvenimento, affollando chiassosi la via che avrebbe portato il corteo del nuovo podestà dal ponte di Santa Margherita a piazza Maggiore. Scomposti mulinelli di polvere si alzavano dagli zoccoli dei cavalli e dalle ruote pesanti delle carrozze, intrecciandosi all’afa estiva. Uomini brindavano al corteo alzando coppe ricolme, intervallati da bambini urlanti e donne accaldate, tutti intenti a far arrivare il loro benvenuto a Fiorio Capilupi, il nobiluomo che era giunto da Mantova per guidarli nei mesi a venire.

    «Guardate! Ci sono anche i saltimbanco!» Esclamò Tommasino che, come una mosca impazzita, saltellava da un finestrino all’altro, calpestando in malo modo le lunghe vesti delle due dame.

    Ludovica non lo sentì neppure, tanto grande era la sua meraviglia a quello spettacolo. Allegri suoni di tromba si erano uniti a loro nei pressi di piazza del Carubio, mentre il tamburellare cadenzato e veloce dei musici dettava il ritmo al suo cuore eccitato.

    Mantova l’aveva vista nascere, e sentì d’istinto che Treviso l’avrebbe vista sbocciare.

    Già ne udiva le silenziose promesse.

    2.

    Onigo, venerdì 31 maggio

    Il traffico convulso delle 18:30 della Feltrina m’infastidì. La vita proseguiva frenetica e scontata per molti, mentre quella del nonno svaniva lenta e silenziosa fra le dita del tempo.

    Guardai la strada, ma vidi solo una scia di ricordi: le grandi mani callose che mi avevano sostenuta con dolcezza, il capo pelato su cui avevo posato tanti baci da bambina e gli occhi cristallini a cui non avevo mai saputo mentire.

    Quegli stralci di memoria facevano male e distolsi lo sguardo, voltando la testa. Le distese di vigneti correvano indisturbate spandendo lunghe ombre fino alle propaggini del Monte Cesen: un manto infuocato dal tramonto, che gettava tizzoni luminosi e guizzanti sulle acque veloci del Piave.

    «Suor Giacomina ha chiamato per le condoglianze e mi ha detto che sarà celebrata una messa a suffragio del nonno in Rocca la settimana prossima.» La voce della nonna era soffice.

    Annuii, infilai gli occhiali da sole e guardai verso il santuario della Rocca di Cornuda che si stagliava rassicurante e immutato all’orizzonte.

    Era uno dei luoghi preferiti dal nonno Giovanni e c’andavamo assieme ogni venerdì mattina prima della scuola, io per passare del tempo con lui e lui per tener fede a un voto fatto alla Madonna della Rocca che gli aveva salvato la vita durante la sua prigionia in Germania a soli vent’anni.

    Seguii con gli occhi il cartello Onigo, guardai le strade e le vie finché imboccammo via Boschi, fu allora che mi assalì una fitta alla testa; passò con la stessa velocità con cui era arrivata, ma quando mi guardai attorno mi sentii persa.

    «Dove siamo, nonna?»

    «Come, dove siamo?»

    Non riconoscevo quei luoghi; i miei luoghi.

    Le case, ai lati della strada sterrata che conduceva alla vicina chiesetta di Sant’Elena, erano scomparse: al loro posto c’erano verdeggianti colline oscurate appena dall’ombra dell’altura poco lontana, sopra cui si ergeva maestoso un castello circondato da spesse mura e con al centro una possente torre. Era la Mura Bastia, una fortificazione medievale, di cui però avevo sempre e solo conosciuto una spoglia parete di pietre, attorniata da solitarie piante.

    Guardai con più attenzione: non vi era traccia della villa adiacente che ero solita ammirare da bambina, quella appartenuta a Franco, un pronipote del nonno. Notai tuttavia un minuscolo e grazioso eremo abbellito da una collana di bassi roseti, proprio lì, dove avevo sempre visto appollaiato un ammasso informe di edere.

    «Cos’è successo qui?»

    «Nulla. Ti senti bene?» La nonna distolse appena lo sguardo dalla strada.

    «È solo che…» Iniziai, ma non seppi come continuare.

    Chiusi gli occhi e, quando li riaprii, tutto era tornato come prima: l’ammasso di edere, la villa di Franco e la torre mozza e nuda di un antico e dimenticato castello.

    3.

    Treviso, Anno del Signore 1178, sabato 24 giugno

    «Benvenuta a Treviso, contessina.» Il capo delle guardie di Fiorio s’inchinò, poi offrì a Ludovica il palmo guantato per aiutarla a scendere dalla carrozza.

    La giovane vi adagiò sopra la mano e afferrò con l’altra la gonna del lungo abito verde. Abbassò la testa per controllare i propri passi e una ciocca ambrata scivolò fuori dal soggolo e ricadde in avanti, oscurando appena il rossore che le imporporava le gote.

    Cercò subito con gli occhi suo padre: lo vide scendere da cavallo, radunare le dodici guardie personali e avvicinarsi a passo svelto verso il porticale della grande cattedrale di San Pietro, dove ad attenderlo c’erano già Oberto Visdomino, il podestà uscente, e alcuni uomini dai vestiti sfarzosi.

    Ludovica li osservò uno ad uno, ma fu presto distratta dalla vista dell’imponente luogo sacro alle loro spalle. I suoi alti archi sembravano offrire un perenne benvenuto e introducevano a una struttura austera e rassicurante. A fianco un’alta torre campanaria giganteggiava dietro a un secondo edificio, la chiesa di San Bartolomeo, che a sua volta spalleggiava la Casa del Comune, una struttura in legno in cui suo padre avrebbe svolto le mansioni di Podestà.

    Tutt’attorno la piazza era impreziosita da una corona di botteghe, appena visibili dietro la folla di cittadini in festa. Il loro baccano e la musica di trombe e tamburi cessò ubbidendo a un muto comando e subito la voce del nuovo Podestà riecheggiò sicura.

    «Io, Fiorio Capilupi, giuro per i santi Vangeli di Dio che, in buona fede e senza frode, senza rancori e preferenze personali, governerò nel miglior modo possibile, grazie anche all’aiuto dei miei giudici e cavalieri, la comunità della città di Treviso, dei sobborghi e di tutto il suo territorio.»

    Una campana lontana suonò i vespri e il frinire delle cicale andò pian piano chetandosi, sostituito dal canto dei grilli alla luna già visibile, seppur pallida e bassa all’orizzonte.

    Era passato un giorno dal giuramento del nuovo podestà di Treviso. Una sparuta comitiva composta dai nobili Capilupi e una scorta scelta di cavalieri costeggiava le rive della Piave, su cui si rifletteva un cielo cangiante che punzecchiava lo scorrere irrequieto con sfavillii dorati.

    «È ingiusto!» Tommasino incrociò le braccia al petto e mise il broncio, ancor più pronunciato di quello che aveva indossato per buona parte della giornata.

    «È la legge di Treviso.» Rispose sospirando Adele a cui non serviva più chiedere al nipote la ragione del suo malumore.

    «È una legge stupida! Io ho quasi dodici anni!»

    «E la legge dice che solo i figli maschi che abbiano già compiuto quell’età potranno rimanere con il podestà in città. Dovrai attendere e allenare la pazienza.»

    Il giovane sbuffò di nuovo e allacciò ancora più strette le braccia: «Almeno avrebbe potuto permettermi di viaggiare sul mio cavallo.» Borbottò piano.

    Ludovica non lo ascoltava affatto: altro attirava la sua attenzione. Non si trattava certo del paesaggio, ma di un giovane nobile: Giacomo Da Cavaso.

    Era il fratello minore del conte Walperto da Cavaso, stimato giudice di Treviso. Il loro castello distava poco più di un’ora di cammino da quello di Vulnico, meta ultima della comitiva e futura dimora della famiglia Capilupi. Il giovane si era unito alla loro scorta per volere del fratello e cavalcava al fianco del capo delle guardie, con cui aveva scambiato scarne battute su armature e cavalli.

    Ludovica non aveva mai avuto molte occasioni di intrattenersi con giovani della sua età, tantomeno di osservarli senza essere vista, e quello rappresentava un piacevole diversivo, uno svago nuovo, eccitante e adolescenziale.

    Giacomo non era certo un adone ma piacente, forse per quel suo atteggiamento sfrontato e smaliziato. Aveva corti capelli corvini e occhi simili a sfere di ossidiana; il viso pressoché glabro gli conferiva un’aria quasi fanciullesca, ma le spalle larghe e il corpo allenato di soldato controbilanciavano l’apparenza. Aveva da poco compiuto diciotto anni e, nonostante gli mancassero ancora tre anni alla maggiore età, affiancava già il fratello in alcune questioni militari e politiche.

    Come secondogenito non poteva aspirare al titolo di conte, ma avrebbe di certo potuto intraprendere una promettente e fruttuosa carriera militare.

    «Siamo giunti a Vulnico.» La voce baritonale del capo delle guardie squarciò il silenzio dei pensieri di Ludovica. Lei distolse subito lo sguardo da Giacomo, non prima però che lui ne rubasse una parte, trattenendolo con un sorriso.

    La giovane finse indifferenza, nonostante le gote le si fossero imporporate, e si sporse appena fuori dalla carrozza: il profumo del fieno seccato al sole portò con sé il chiacchiericcio animato di alcuni merli ciarlieri.

    Colline verdeggianti erano oscurate appena dall’ombra della vicina altura, sopra cui si ergeva la loro futura dimora, circondata da spesse mura e al cui centro si innalzava fiera una possente torre.

    Erano finalmente giunti alla Bastia di Vulnico.

    4.

    Onigo, venerdì 31 maggio

    «Maledizione!»

    L’imprecazione mi sfuggì dalle labbra semi-serrate quando sprofondai con i tacchi nella ghiaia scendendo dalla Land Rover. Persi quasi l’equilibrio e sbattei la portiera con un tonfo assordante.

    Mi appoggiai all’auto per non cadere, poi alzai lo sguardo: la casa che mi aveva vista crescere aveva l’aria di una vecchia signora, elegante ma triste, ormai consapevole che l’immortalità delle sue pietre non avrebbe potuto nulla contro la mortalità dell’uomo. Dal canto suo, l’ampio portico sembrava volerle offrire consolazione appoggiato com’era su di lei, rimanendo però custode attento degli attrezzi da lavoro: il trattore era parcheggiato nello stesso punto in cui lo aveva lasciato il nonno solo pochi giorni prima, mentre la zappa e la vanga, così come la carriola e le ceste di vimini portavano ancora le tracce degli ultimi lavori nell’orto.

    Sfiorai la stoffa lisa e rattoppata della vecchia giacca da lavoro appesa ad un gancio arrugginito. Ne accarezzai il colletto e feci cadere la mano sul ruvido cappello dell’uomo che mi aveva fatto da papà. Quanto avevo giocato con quel copricapo e quanto il nonno mi aveva fatto ridere corrugando la fronte in modo da farlo muovere. Chiusi gli occhi, abbassai il capo e bagnai di tristezza quel prezioso cimelio.

    Il morbido di una pelliccia contro le mie gambe, le fusa sommesse e uno gnaulare sofferente mi costrinsero ad abbassare gli occhi: era Giove, l’anziano gatto dei nonni.

    Lo presi in braccio e affondai il viso nel fitto pelo, asciugando così le tracce del mio dolore.

    «Nemmeno lui vuole capacitarsi. Lo cerca ovunque.» Trasalii e con la coda dell’occhio scorsi la nonna con il braccio teso verso di me: «Vieni, entriamo che comincia a fare freddo.»

    Durante la cena rimanemmo in silenzio e mangiammo, affrontando di mala voglia il cibo. Lo squillo del telefono di casa interruppe il nostro pasto frugale e io ne approfittai per alzarmi da tavola e sparecchiare.

    Il sussurro della voce rotta della nonna arrivava appena dal corridoio. Per distrarmi dal triste mormorio, preparai la moka del caffè e sbirciai il cellulare. Ruggero mi aveva cercata ancora e sorrisi alla sua premura. Lo rassicurai con un messaggio che lo avrei chiamato presto, poi cominciai a rovistare fra le carte sopra il tavolo mentre l’aroma intenso del caffè si diffondeva nella stanza.

    Il biglietto da visita delle pompe funebri era sopra il certificato di morte, così come il numero del parroco e la rubrica telefonica, mentre un plico di fogli dall’aspetto legale era appena più in là, con i documenti dell’ospedale dove la salma del nonno sarebbe rimasta fino al giorno dei funerali.

    Versai tutto il caffè della moka nella tazza più grande che trovai e, con cellulare, rubrica e incartamenti stretti in mano, andai ad accovacciarmi sul divano. Incrociai le gambe sotto di me e riuscii quasi a percepire la forma che il mio corpo aveva lasciato nelle infinite sere d’inverno passate a leggere davanti al fuoco che, scoppiettante, accompagnava il chiacchiericcio complice e leggero dei nonni.

    Non mi curai di chiudere la porta finestra, preferii la compagnia della brezza serale e del canto dei grilli, aprii la rubrica e presi in mano la situazione.

    Chiamai per primo il parroco, poi fu la volta delle pompe funebri e infine dei parenti più stretti. Per ultimo toccò al fascicolo dei documenti: il conto corrente, le carte relative alla casa, l’atto di proprietà della Land Rover e quello del trattore, la carta d’identità e il codice fiscale del nonno, poi un certificato più recente. Portava la data di poco più di un anno prima ed era intestato al nonno: era l’atto di proprietà della villa di Franco.

    «Nonna?» La chiamai forte, scuotendo la testa confusa.

    Non ricevetti risposta così salii le scale, accompagnata dallo scricchiolio rassicurante del parquet. Quando giunsi alla porta della camera dei nonni, entrai senza bussare e la trovai lì, al centro del letto matrimoniale, attorniata da fotografie ingiallite e album fotografici aperti.

    «Stavo cercando una bella foto per l’epigrafe.» Mi disse usando lo stesso tono rassicurante di quando, da piccola, mi svegliavo da un incubo: «E poi mi sono fatta prendere la mano.»

    Le andai vicino, mi sedetti al suo fianco e le passai un braccio attorno alle spalle esili ma ferme, appoggiando la testa contro la sua. Rimanemmo così, giocando con le foto davanti a noi finché non ricordai il motivo che mi aveva spinta a salire.

    «La villa di Franco era di proprietà del nonno?»

    «La villa di Franco…» Ripetè lei sospirando. «Sì, il nonno l’ha ricevuta in eredità quando Franco è mancato circa dieci mesi fa. Ero sicura di avertene parlato.».

    Scossi il capo.

    «Beh, Franco non aveva eredi e nemmeno fratelli e, a quanto pare, il parente più stretto era il nonno.»

    «E perché la cosa ti rattrista? È una villa bellissima, qui vicina, perché non vi ci siete trasferiti?»

    «Due vecchi in un villone in cima a una collina? Ci avresti visti?» Non aspettò la mia risposta e continuò: «No, no, quello che mi preoccupa è che con la mia misera pensione non sarò in grado di mantenere entrambe le case.»

    «Puoi sempre venderla, no?»

    «Certo, ma so che il nonno ci teneva che l’avessi tu.»

    «E perché mai? Sono ormai dieci anni che vivo a Milano.»

    Ricordo ancora come mi guardò in quel momento. C’era tristezza, nostalgia e amore in quello sguardo.

    «Perché?» Mi fece eco lei. «Fammi un favore, apri il cassetto del comodino del nonno.»

    Obbedii, ma mi ci vollero diversi istanti prima di distinguerne il contenuto.

    «Sono i capitoli del romanzo che avevo iniziato a scribacchiare all’università.»

    Ne accarezzai la copertina.

    «Lui era certo che lo avresti finito.»

    Sentii le labbra stendersi in un sorriso. Era vero, il nonno mi aveva sempre incoraggiata.

    «Ma non vedo come questo c’entri con la villa di Franco.»

    «Vedi, il mio Giovanni non ha mai smesso di sperare che la sua bambina sarebbe tornata e poi pensava che sarebbe stato il luogo perfetto per scrivere il libro sulla contessa della Mura Bastia, la contessa della porta accanto, la chiamava lui.»

    «Ludovica Capilupi.» Sussurrai il nome e fu come rievocare lo spirito di una vita passata, la memoria di un tempo perduto.

    5.

    Feltre, Anno del Signore 1179, domenica 15 luglio

    Lo stallone bardato nitrì irrequieto, facendo ondeggiare coda e criniera pur di disfarsi dell’odore acre e penetrante di legna e carne bruciata. Indietreggiò di qualche passo e Fiorio fu costretto a tirare le redini a sé e a sussurrargli veloci parole di conforto.

    Alte lingue infuocate lambivano il cielo, mentre scuri vortici di fumo sporcavano di nero pece l’azzurro altrimenti intenso di quel pomeriggio estivo.

    I nefasti scricchiolii e gli inquietanti tonfi che giungevano dalle abitazioni che rovinavano a terra non erano però tanto raccapriccianti quanto le urla di donne, che disperate cercavano i loro figli tra le fiamme delle case o il pianto di bambini innocenti, i cui genitori erano stati mortalmente colpiti dalle scintille infuocate.

    Feltre bruciava per mano di Treviso e lui non aveva potuto fare nulla per evitarlo. Fiorio si strofinò con vigore gli occhi che sembravano anch’essi andare a fuoco come la città che si stava lentamente sgretolando di fronte a lui.

    «Questo è ciò che succede quando alle donne infervorate di Dio vengono lasciate molli le briglie.»

    Le parole di Alberico da Cavaso, cugino del conte Walperto da Cavaso, si intrufolarono nella fitta coltre di impotenza che aveva annebbiato i sensi di Fiorio.

    «Cosa intendi?» Gli chiese senza mai staccare lo sguardo dallo spettacolo di morte di cui erano stati artefici. Era più di un anno che si trovava a Treviso, tuttavia non era ancora riuscito a comprendere Alberico: era ambiguo, sfuggente.

    «Se non fosse stato per quella Sofia da Camino e il suo insensato testamento, ora non saremmo qui a mettere a fuoco e fiamme un’intera città.»

    «Non è certo il testamento di una donna a poter radere al suolo cattedrali e case, quanto l’avidità di chi ora rivendica la proprietà delle terre della contessa, i Da Camino e i Da Romano fra tutti.»

    Walperto da Cavaso s’intromise nella conversazione: «Amico mio, ti consiglio, ora che il tuo mandato di podestà si è concluso, di continuare a mantenere una posizione imparziale sulla questione o rischierai

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