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Nemmeno il tempo di un abbraccio (Seconda Edizione)
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Nemmeno il tempo di un abbraccio (Seconda Edizione)
E-book242 pagine3 ore

Nemmeno il tempo di un abbraccio (Seconda Edizione)

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Info su questo ebook

Arricchito di nuovi capitoli, in questa SECONDA EDIZIONE ritorna il romanzo ispirato all'era del covid-19, Nemmeno il tempo di un abbraccio. L'autore, Mimmo Parisi, ha aggiornato in maniera misurata la storia che le si era presentata durante il primo inaspettato lockdown il quale, indubbiamente, resterà a lungo nelle nostre menti. Il libro, che vede come protagonisti i due sedicenni Nico e Stella, si dipana intorno all'esperienza di clausura forzata e dettata dall'invasione mondiale del coronavirus. Una situazione la loro che per certi versi accomuna poi tutti. Più in generale il libro è alla fine, un percorso che accompagna il lettore a rivedere e riconsiderare quei giorni inattesi. Tra la fine dell'inverno e l'inizio del 2020, è stato bloccato tutto ciò che sembrava ordinario: fosse anche una vita spesa a osservare in tv banali reality show. Nico e Stella si conoscono dai balconi. Provano a inventarsi le giornate. Per quanto il ragazzo sia affetto da una patologia ingravescente, riesce – grazie all'intervento di Stella – a trovare una soluzione inattesa e insperata. La storia è narrata attraverso un lungo flashback, per giungere poi verso un orizzonte temporale spostato in avanti di circa un ventennio. Quando ormai l'epoca del Covid-19 è materia per libri scolastici, e ci si è dimenticati di aver vissuto un'esperienza planetaria che, per la prima volta nella Storia, ha interessato perfino le tribù dell'Amazzonia. Un libro che presenta un Teen Drama dove i due ragazzi sono essi stessi i protagonisti. Una lettura per Young Adult? Certo. Ma non solo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2021
ISBN9791220345873
Nemmeno il tempo di un abbraccio (Seconda Edizione)

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    Anteprima del libro

    Nemmeno il tempo di un abbraccio (Seconda Edizione) - Mimmo Parisi

    Introduzione

    di Mimmo Parisi

    Okay, eccoci qua. Prima di passare al primo capitolo, si impone una breve introduzione a questa nuova versione del romanzo. In primis ringrazio la prefazione veramente sentita di Diego Romero. Uno dei meriti ascrivibili al web è quello di aver ampliato lo spazio disponibile per i giornalisti freelance capaci, e lui indubbiamente rientra in quella categoria.

    Lo scritto Nemmeno il tempo di un abbraccio, è nato sulla scorta e purtroppo per tutti noi, sulla nemesi portata da quello che una volta era il ‘banale’ Coronavirus. Che dire, evidentemente l’agente patogeno ha visto nel 2020 il momento storico giusto per le sue scorrerie sul pianeta Terra.

    Ce lo siamo trovato accanto così, senza grandi rumori.

    Sì, va bene, del virus si parlava a Wuhan già da qualche tempo. Giovanna Botteri, con il suo linguaggio efficace e puntuale, ne parlava agli italiani riuniti intorno alla tavola per la cena e sintonizzati sul Tg. Ci informava su alcune ‘esuberanze’ virali.

    Tuttavia, nonostante il villaggio globale teorizzato da sociologi e affini, nessuno si aspettava un evento che interessasse tutto il pianeta. Il fatto è che il nuovo coronavirus si è mostrato immediatamente pericoloso e inquietante. Nelle megalopoli dove ci siamo addensati in ghetti giganteschi, il patogeno ha costretto ad abbassare le serrande. Ha sconvolto la vita individuale di ciascuno; ha messo a soqquadro le strutture e le pratiche sanitarie. Nelle strade vuote e desolate, una importante parte degli abitanti è stata costretta a ricorrere al soccorso pubblico, alla carità.

    Non c’era molto da fare, se non accettare i consigli del Go-verno e, soprattutto, di chi ne sapeva più di tutti, gli scienziati.

    Non c’era molto da fare.

    Già.

    Tuttavia una delle poche attività possibili era quella di scri-vere.

    E io l’ho fatto.

    Quando il 9 marzo 2020 il premier Giuseppe Conte dichiarò lo stato di lockdown, mi chiesi, …Come vivranno tutto ciò che accade Nico e Stella?

    Ovviamente i due personaggi non esistevano.

    Non ancora.

    Va da sé che la mia vera domanda era, …Come faremo tutti a uscirne fuori?

    Molti si chiedono quand’è che gli autori si sentano pronti per la scrittura; insomma, quando arriva quell’attimo che pare dire, ehi amico, è il momento di narrare qualcosa. Datti da fare? Be’, per me è stato quello.

    La mia è ovviamente un’invenzione, ma poi chi lo sa?

    Forse qui a Bologna – o da qualsiasi altra parte – due ragazzi come loro stavano vivendo qualcosa del genere.

    Bene, è ora di leggere il primo capitolo.

    Mimmo Parisi, l’autore

    Avrei voluto essere Archie Andrews

    A

    vrei voluto essere Archie Andrews.

    Qualcuno potrebbe chiedersi, Archie, chi?. Okay, magari non è conosciuto come Il giovane Holden. Ma vi assicuro che parlo di una persona valida. Certo, se citassi l’eroe di J. D. Salinger, probabilmente mi assicurerei molti più like e visualizzazioni. Comunque, avete presente Riverdale? Esatto.

    Archie Andrews è proprio quell’Archie lì.

    Comunque, e giusto per chiudere la parentesi a proposito dell’eroe di Salinger, vale la pena mettere i puntini sulle ‘i’ (…o su qualsiasi altra lettera: io sono molto democratico e se mi presentano una ‘t’ con il puntino sopra non ci trovo da ridire; forse da ridere sì, ma da ridire no).

    Voglio dire che se in quel tempo pensavo a un mio modello ideale centrato sulla figura di Archie, tuttavia sapevo benissimo che il personaggio de Il giovane Holden non era assolutamente una figura da sottovalutare. Né tantomeno, il suo creatore, il superlativo J. D. Salinger che, pur temporalmente legato ai lontani anni cinquanta, è ricordato come ispiratore della Beat Generation.

    E questo, in campo letterario, ha dato valore a quelle anime rivoluzionarie che si sono distinte per il rinnovamento stilistico e il rifiuto delle norme imposte.

    Ehi, mica bruscolini!

    Allora, perche il mio modello era Archie Andrews?

    Giusta osservazione.

    È presto detto.

    E il ’presto detto’ significa semplicemente che Holden non lo vedevo mai in giro per Riverdale; ma Archie era lì.

    Era un mio concittadino.

    Che agiva.

    Un esempio da seguire.

    Che vita la sua!: per quanto ingarbugliata o comunque destinata a subire problemi, per me che la vedevo dall’esterno era un punto di arrivo.

    Ero nei panni del fan.

    Magari lo sopravvalutavo, come succede quando si giudica il cantante/la cantante che ci manda in brodo di giuggiole (…dicasi giuggiola il frutto del Ziziphus jujuba, ovvero la pianta asiatica del giuggiolo che… Va be’, sarà per un'altra volta).

    Così, al momento, non potevo far altro che sperare in uno stile esistenziale simile al suo.

    Sì, insomma stravedevo per le sue ‘avventure’.

    Era portatore di una realtà invidiabile.

    Anagraficamente non vi era una grande distanza tra noi.

    Ma vivere i miei sedici anni era comunque differente dal vivere i suoi quasi diciotto. O diciannove? Vabbe’, è lo stesso.

    Sapevo abbastanza della vita di Archie: si muoveva tra una strimpellata sulla sua chitarra e un saluto al bizzarro amico di sempre, Jughead. Se avevi bisogno di loro e non li si scorgeva da nessuna parte, di sicuro erano al mitico Pop’s. Cosa c’era da fare al ‘mitico’? un’attività semplice e grandiosa nello stesso tempo: addentare un altrettanto mitico hamburger.

    Vi sembra poco? Ma dovete considerare la maniera che lui usava per fare queste cose solo apparentemente banali. Comunque e nel caso restaste sulle vostre scettiche posizioni, va bene, allora metterei sul piatto anche il… piatto forte della portata: la frequentazione con la sua ragazza storica, Betty.

    Una ragazza notevole.

    Bionda come Beatrice Portinari (Chiamasi Beatrice Portinari, la tipa che fece girare la testa al buon Dante Alighieri quando ancora non era stata inventata la Tachipirina; lei era figlia di Folco e aveva sposato Simone de’ Bardi, ma… Vabbe’, sarà per un’altra volta).

    E già, in quel tempo avrei dato chissà cosa per essere amico di Archie.

    Ma per un motivo o per l’altro non mi riusciva di frequentarlo.

    La vita a Riverdale scorreva tranquilla fino a che non si stabilì (ma da dove diavolo provenivano quei cialtroni arroganti?) una famiglia convinta di avere parentele con il Padreterno.

    L’arrivo di quella masnada di milionari scosse l’equilibrio della nostra cittadina che subì uno sconvolgimento. Ho detto milionari? Mmm, ho volato basso. I Lodge erano dei supermiliardari. E viaggiavano con una figlia caparbia, Veronica.

    E cosa fa una erede caparbia?

    Non trovate la risposta?

    Bene, ve la do io: Veronica faceva ciò che le riusciva magnificamente, la caparbia.

    In che senso?

    Nel senso che non conosceva limiti ai suoi desideri.

    S’incaponiva.

    Certo, era figlia di gente che poteva permettersi di accendere i sigari con un biglietto da 100 dollari e, figuriamoci!, se ci potessero palesare paletti ai suoi pensieri di conquista.

    Ma un fatto è comprarsi un castello, un altro mettere gli occhi addosso a un ragazzo già abbondantemente fidanzato.

    Con Betty.

    Dovrebbe essere più facile comprarsi un castello che ‘comprarsi’ un ragazzo.

    Ma non a tutti è chiaro un concetto del genere.

    Di sicuro non era chiaro a lei.

    Già, Veronica voleva mettersi con Archie Andrews.

    E voleva farlo con lo stesso stile di, papà, ho bisogno di una Aston Martin DBS Superleggera rosa pesca, la voglio!

    Per i più curiosi, la suddetta macchina era un velocipede ‘carino’ che all’epoca si poteva portare a casa con un prezzo a partire da euro 288.270 IVA inclusa. Volete sapere chi aveva inventato quel gioiellino? Erano stati Robert Bamford e Lionel Martin che nel 1913 avevano deciso di lanciare un’automobile che… Okay, forse non siete poi tanto appassionati della materia, lascio perdere.

    Veronica e i suoi dollari, comunque, dovettero scontrarsi contro alcuni che non gradivano la sua visione della vita.

    A Betty non stava bene il suo modus operandi.

    Ad Archie non stava bene.

    A tanti non stava bene e…

    Perfino a me non stava bene!

    Cosa c’entrassi io, visto che con il ragazzo di Betty ancora non ci frequentavamo, è presto detto.

    Il fatto è che una settimana prima, mentre ero in giro a bighellonare onestamente, ero incappato in un discorso tra Veronica e Betty.

    Giuro che non volevo impicciarmi.

    Mi ero fermato al bar per una coca e, alle mie spalle, avevo sentito la voce sfottente di Veronica che trattava Betty in un modo che non mi piaceva. Inoltre aveva fatto un’azione veramente riprovevole.

    A danno di Betty.

    Io avevo ordinato e pagato John, il barista.

    Quando quest’ultimo si allontanò per battere lo scontrino – su un registratore di cassa che aveva visto almeno Geronimo e le sue penne da gran capo, tanto era vecchio – io provai a girarmi con la mia cannuccia in bocca e la mia freschissima bevanda scura e gorgogliante.

    Il mio target era la postazione delle due ragazze.

    Ero appena riuscito ad inquadrarle, quando un suono esagerato mi fece rigirare di scatto verso il bancone.

    «Scusa, l’aggeggio funziona ancora bene però… Forse dovrei regolare la suoneria» disse per scusarsi John.

    «Be’, forse dovresti» gli dissi con un mezzo sorriso.

    Quindi, poggiò il mio scontrino sul bancone umido.

    Molto umido.

    Il liquido trasparente ci mise poco ha inzupparlo tutto.

    Le lettere e i numeri iniziarono a confondersi.

    Lasciai perdere.

    Non mi parve il caso di chiedere un phon per asciugarlo.

    Mi rimisi di nuovo a osservare in maniera educata la schermaglia fra le due ragazze.

    Betty non mi conosceva (…forse però – non potevo saperlo con sicurezza – mi aveva visto qualche volta).

    Veronica, lo stesso (che lei non avesse mai sentito parlare di me ne ero sicuro: non era da tanto che si era presentata nella nostra città).

    Io invece conoscevo ambedue.

    Per essere precisi, di Betty sapevo che faccia avesse (…una ragazza stupenda, come già accennato).

    Veronica, invece, la conoscevo solo di fama.

    La cittadina di Riverdale aveva il suo fascino. Sicuramente la tradizione del ballo, il football, la settimana di benvenuto al Liceo ai nuovi studenti, perfino il freddo gelido che diventava artista e si tramutava in ricami di ghiaccio appesi all’architettura del municipio, ne caratterizzavano la portata sociale.

    Ma di sicuro, non era New York, e le notizie facevano presto a girare.

    Il fatto che gente potente avesse deciso di nidificare proprio nella nostra città, non era passato inosservato a nessuno.

    Comunque, a quel punto conobbi anche le fattezze di Veronica (…stronza, ma avvenente).

    Si fosse trattato di una ragazza del quale non sapessi niente, famiglia, situazione economica, professione o qualsiasi altra notizia, avrei pensato ad Angelina Jolie. Profondamente mora, sguardo penetrante e sopracciglio perpendicolare, tipico di chi ha una notevole fiducia nelle proprie capacità.

    E sarebbe finita lì.

    Invece, dopo averla vista all’opera – non poteva essere diversamente – fui costretta a incasellarla in una definizione precisa.

    Stronza avvenente.

    Come già segnalato.

    Ovviamente io parteggiavo per ‘Beatrice Portinari’; di sicuro anche la ‘sorella‘ di Angelina Jolie aveva un sacco di frecce al suo arco, ma per tifare per lei occorrerebbe vedere il mondo alla sua maniera. Cosa lontanissima da me.

    A Veronica non mancava perfino la mano lesta; roba che uno non si aspetta da una miliardaria.

    Io mi facevo i fatti miei.

    Ma la manovra di Veronica la vidi – pur con i limiti della mia vista – con precisione.

    Lei, a un certo punto – mentre discutevano animatamente – distrasse Betty dicendole di osservare qualcosa in cielo e, nello stesso tempo fece scivolare il suo bracciale d’oro massiccio nello zaino della sua ‘amica’.

    Poi riprese con grande lena il suo monologo da grande donna capitata per destino infame in quel buco di Riverdale.

    Salvo, quando le parve giusto fare la scena della derubata, urlare a gran voce:

    «Ehi, accidenti sei proprio una ladra, mi hai rubato il bracciale. Non puoi essere stata che tu: un attimo fa ce l’avevo. Magari vuoi rivedertelo per ricavarne un po’ di dollari, visto che appartieni a una famiglia di morti di fame!»

    Sulla faccia di Betty scese la vergogna.

    Le riusciva di dire solo:

    «Ma di cosa… Come puoi…»

    I suoi occhi divennero umidi.

    Veronica, rivolgendosi agli astanti, continuò:

    «Spero che abbiate qualcuno che si interessi di mantenere la legge in questo buco di paese… Chiamatelo!»

    John, da vero imbecille plagiato probabilmente dalle voci che giravano sul denaro – il potere! – posseduto dalla famiglia di Veronica, cercò di essere perfino gentile con lei:

    «Signorina, intende dire la polizia? La chiamo?»

    Io mi girai verso di lui e gli feci segno – di nascosto – di starsene zitto.

    John era lì ad aiutare il padre, proprietario del bar.

    Aveva la mia stessa età ma non la mia medesima capacità di discernere.

    …Capperi! Cosa stai a chiamare la polizia per una viziata che non sa come trascorrere la giornata, mah!

    Capii che dovevo intervenire.

    Non potevo stare zitto.

    Poggiai la lattina e la cannuccia sul loro tavolo, dalla parte della sedia libera che stava a fianco a loro.

    Veronica mi guardò di traverso.

    Ero arrivato nei loro pressi in silenzio.

    Nel bar c’erano cinque o sei clienti che si erano girati verso l’urlo sconsiderato della giovanissima miliardaria.

    Un signore anziano si era bloccato con il cucchiaino sospeso sulla tazza del caffè.

    Sua moglie glielo tolse di mano dicendo che ci avrebbe pensato lei a zuccherare il liquido fumante.

    «È occupato… Con tanti posti liberi vorresti venire proprio a questo tavolo: potresti sederti da un’altra parte, ti pare?» osservò lei.

    «Non mi pare» aggiunsi io.

    Veronica si sorprese:

    «Ascolta, facciamola finita; stiamo parlando: roba di donne.»

    «Vado subito via, ma solo dopo aver detto a tutti i presenti che non puoi venire a fare schiamazzi nella nostra città. Soprattutto, a Riverdale, non puoi venire a barare…»

    Mentre lei era stordita dalla mia inattesa presenza, presi lo zaino di Betty:

    «Scusami Betty, faccio presto» dissi con un sorriso di circostanza e cavando dal contenitore il braccialetto di Veronica.

    Era stato facile individuarlo fra i libri.

    Era caduto sul fondo e lo pescai senza grandi problemi.

    Lo portai verso l’alto come un trofeo.

    Dissi a tutti:

    «Ecco l’oggetto trafugato… Anche se non è stato trafugato per niente: la signorina ha distratto Betty e glielo ha messo di nascosto nello zaino. Voleva screditare una ragazza che ha come unica colpa quella di essere fidanzata con Archie, ovvero il ragazzo che questa gentile donzella giunta dall’universo del ‘mi prendo ciò che voglio quando voglio’ ha designato come sua preda.»

    «Questo qui è fuori di testa e, soprattutto, non sa con chi sta parlando!» commentò lei.

    «Lo so benissimo e soprattutto ti ho visto: sono pronto a testimoniare tutto alla polizia. John, adesso sono io a chiedertelo a gran voce: chiama la vol…»

    Lei non mi fece continuare, si girò furiosa verso il barista:

    «’Schiavo’ John, lascia perdere o…» minacciò.

    «Non l’ascoltare. Per favore fa quello che io ti ho detto» insistetti io.

    Il giovane barista sembrava un arbitro da ping pong: muoveva la testa verso me e verso lei.

    Poi prese la sua decisione: prese uno straccio e si mise ad asciugare il ripiano.

    Il mio scontrino a bagno fu trascinato via.

    La tipa intanto aveva preso il suo zaino.

    La vedemmo allontanarsi mentre lanciava dardi infuocati con lo sguardo.

    Comunque se io non potevo fregiarmi di una vista d’aquila, lei, Veronica, poteva vantarsi di un altro particolare carattere di quei pennuti: si era incazzata come… un’aquila.

    Betty mi ringraziò.

    Le spiegai che ero intervenuto perché la conoscevo.

    Mi impappinai:

    «…Ovviamente, intendevo che ti conosco di vista e che…»

    Lei cercò di mettermi a mio agio:

    «Ma certo, sei sicuramente un ragazzo per bene e l’hai dimostrato ampiamente… Grazie ancora.»

    Ovviamente, ero una persona a posto, ma in quel caso ero intervenuto perché mi

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