La ragazza degli oceani
Di Mimmo Parisi
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Anteprima del libro
La ragazza degli oceani - Mimmo Parisi
Maugham)
La brezza di fine estate
La brezza di fine estate fa curvare le sommità dell’erba torrida con affetto, come la carezza di una madre.
Il viottolo di ghiaia è terminato; sono arrivato nei pressi della spiaggia. Faccio gli ultimi passi per raggiungere la casa quasi addossata all’acqua salmastra, lasciando sulla sabbia bagnata dal temporale estivo le impronte della mia esistenza. Dalla balaustra della villetta marina osservo il paesaggio che, tra qualche mese, sarà perfetto per rimpiangere qualcosa; perché c’è sempre qualcosa da rimpiangere.
In giro, sulla polvere di mare che ha visto nascere e cadere castelli e amori da bagnasciuga, è rimasto un malconcio ombrellone abbandonato; senza padrone e scodinzolante quando il vento lieve lo solletica. Ancora qualche giorno e poi bisognerà ritornare a un mondo che non crede più a niente.
Favole e miracoli trovano ancora spazio solo nei film.
Nella realtà sono soppiantati da temi meno eterei legati alla quotidianità noiosa, ma tangibile.
Le favole ci provano a essere matite colorate pronte a riempire di schizzi allegri la nostra esistenza; ma sono come i colpi di vento dietro la porta: nessuno va ad aprir loro.
Eppure a volte ci ritroviamo tutti a guardare il cielo, ma non basta la speranza che qualcosa succeda per trarci fuori dalla fatica della vita.
I prodigi non possono arrivare dietro l’uscio come un fatto scontato o una visita dovuta: hanno bisogno di fiducia.
Se si ha fortemente bisogno di credere in qualcosa, bisogna crederci… E alzare lo sguardo in alto.
Il dio degli umani, o gli dei dell’Olimpo per i più disinvolti, non abitano sul touch screen e non hanno un indirizzo elettronico; con loro non servono Tim, Samsung, iPhone, Apple, Blackberry, LG, Nokia o Huawei.
Basta chiedere di loro con sincerità e fede.
Con essi c’è sempre campo.
E rispondono a tutti: è solo una questione di frastuono; basterebbe restare zitti per captare con chiarezza la loro presenza.
Ma il chiasso è dappertutto e di bambini con gli occhi spalancati di fronte alle marionette ne sono rimasti pochi.
Nessuno crede più a nessuno.
Nemmeno a Superman: fatto fuori dalle sparizioni delle cabine del telefono.
Oggi i dubbi si risolvono chiedendo a Google.
È impari la lotta tra ‘chiedere’ e ‘credere’.
Comunque, io tifo per il secondo verbo.
Io credo.
Credo nelle favole e nei miracoli.
Ho fiducia nei miti.
Mi entusiasmo per le leggende.
Be’, lo riconosco, per me è facile. Conosco una vicenda che ha del formidabile; ed è rigorosamente autentica.
È una storia che mi si è incollata addosso come una T-shirt umida di pioggia, difficile da sganciare dalla pelle; e ostinata come uno di quei romanzi che, persino se gli butti addosso dell’alcol seguito da un cerino furente, non diventa cenere. Nessun sortilegio mi aiuta a liberarmene.
Le onde, al di là della scogliera, sono alte e riescono ad arrivare sulla balaustra che raccoglie qualcuna delle loro perle lucide; una di esse si ferma sulla mia faccia: il suo sapore mi ricorda una vecchia canzone che cantava mio nonno.
Il paesino che sento muovere in lontananza e spuntato sulla riva di un mare da cartolina, è da qualche anno il luogo dove io, la mia ragazza e mia figlia, veniamo a smaltire il cielo grigio della nostra città, sempre troppo a nord per i nostri gusti.
Meno di un’ora fa, ho lasciato il circo Leon impegnato a dare un assaggio delle capacità dei suoi artisti.
Per qualche attimo anch’io mi sono fatto prendere dal gioioso chiasso buttato nell’aria ancora estiva.
Tra funamboli, illusionisti, equilibristi, prestigiatori e clown sono ritornato – per un attimo, ma solo un micro attimo – in una dimensione che pensavo non esistesse più.
Mi sono risentito bambino, in un mondo pronto a luccicare di sorprese.
Ma l’attimo è volato via, al suo posto è apparso un corvo instabile nel cielo.
Ho avuto l’impressione che precipitasse…
Ho detto alla mia ragazza e a mia figlia di trattenersi pure ancora un po’.
Mi hanno guardato con sguardo interrogativo.
Quindi, eccomi in mi sono avviato nella stradina gonfia di pietruzze minimali, polvere e piccoli ciuffi di erba spontanea.
Ho superato il canneto tra i piccoli tuoni che brontolavano nel cielo e l’ho raggiunta.
La casetta in riva al mare.
Non sono solo; lei, la mia inquietudine, non ha mollato. Mi ha seguito come una cagnetta affezionata.
Dovrebbe abbandonarmi; cercarsi un altro che le dia da mangiare.
Mi sento in preda a un virus o un’influenza. Una di quelle situazioni che ti creano afflizione e ti costringono al letto, alle compresse e al termometro.
Ma lì, prima o poi la becchi la pastiglia giusta; per guarire da lei, invece, è tutta un’altra faccenda.
La stagione che gira intorno è incerta: non sa decidersi se considerarsi fine estate o inizio autunno.
L’acqua salina ha cambiato bersaglio prendendo di mira il cielo; gli lancia piccoli chicchi brillanti.
Appena notte spunteranno nel campo celeste.
Matureranno e diventeranno stelle.
Ma ora c’è ancora luce, in giro.
E percepisco lei nell’aria che trascina gli ultimi spasmi sonori dei gabbiani tramontanti.
Dal paese arriva – lontanissimo, come provenisse da Marte! – qualche scoppio che annuncia la celebrazione per il patrono.
Questa sera al paese ci sarà festa. La banda farà il suo concerto. I bambini guarderanno stupefatti e qualcuno di loro imparerà che la luce, oltre che da Dio, dai semafori e dai telefonini, può arrivare anche dalle decine di lampadine avvitate sulle luminarie.
La notte, ormai, incombe.
Cerco un modo per lenire la puntura dell’angoscia che, come un insetto irritante, non accenna ad arrendersi: pigio lo smartphone e osservo l’espressione di mia figlia Asia che sorride dallo schermo. Somiglia molto a sua madre, Arya.
Poi tutto si zittisce; anche il dolore. Libero i miei pensieri corvini che, finalmente, volano via verso il cielo di catrame.
Arrivai nei suoi pressi inseguendo altro
Arrivai nei suoi pressi inseguendo altro.
Un sogno.
Fu una gran fortuna averne uno.
Insomma, l’unico modo per concretizzare un sogno – perlomeno per tentarne la realizzazione – per quanto sembri irrilevante, è averlo.
Giusto?
E io ce l’avevo.
Avevo iniziato a realizzarlo presso l’albergo Le Monde Hotel!
Immagino che siano pochissimi, per quanto sia un bel posto frequentato da persone educate, quelli che possano condividere come incipit di un sogno l’essere occupati in un hotel; pertanto, è meglio chiarire questo passaggio.
Ero giunto in quel posto con l’intento di usarlo come ponte per il futuro.
Il bagaglio a mano era molto più piccolo di quello dei progetti. Volevo fare cose memorabili, fin dove ci riuscissi e fin dove il mondo me lo avesse permesso. Per il momento, ero in una buona postazione di partenza.
Nel frattempo, mentre aspettavo che qualche imperatore mi assegnasse i destini dell’universo, pensavo spesso ai miei amici.
Chissà come erano messi.
Certo, il tempo passa sulle facce, la geografia dell’anima crea distanze, qualche pianto arrugginisce i pensieri.
Ma, prima di addormentarmi, mettevo sempre sul comodino, insieme a chiavi di casa, cellulare, affetti famigliari, un pensiero per quella truppa di bambini più o meno smarrita, più o meno fuori radar e della quale avevo fatto parte: non c’è bisogno di spostarsi dall’Italia verso la Mongolia per perdersi di vista. Dopo la scuola primaria ero rimasto in contatto solo con pochi di loro. C’era chi aveva scelto il classico, chi lo scientifico, chi l’istituto alberghiero e chi la strada. Quest’ultimi erano pochi e si erano ‘diplomati’ subito in un istituto di pena.
Così, pur foglie dello stesso albero malconcio della periferia borgatara romana, ognuno di noi era stato soffiato verso il proprio percorso.
E verso altri indirizzi civici.
Vengo da una famiglia che è facile riconoscere in un vecchio film degli anni ottanta. Non so come abbiano fatto, ma sembrava proprio la mia. È esemplare anche il fatto che la pellicola in questione – Sfrattato cerca casa equo canone, di Pier Francesco Pingitore, con un grandissimo Pippo Franco e una frizzante Anna Mazzamauro – sia stata girata al quartiere Corviale: l’ultimo approdo dove ci aveva condotti il capofamiglia, mio padre.
Il ‘serpentone’ come è conosciuto dai romani, era per lui la terra promessa, anzi, il ‘cemento promesso’. Con la differenza che la nostra avventura civica in cerca di una abitazione decente e un futuro con le lampadine accese, era più recente nel tempo. Segno forte che, passano i decenni, passano i secoli, ma non passano i disagi.
Io, tuttavia e a dispetto delle mie ‘nobili’ radici, avevo iniziato a svolgere la mia professione in un albergo superfigo, Le Monde Hotel.
La prima volta che ci entrai mi venne naturale associare il nome all’aspetto pecuniario: ‘Le Monde…’ a be’, certo, sarà un riferimento al fatto che ci voglia, per l’appunto, un ‘monde’ di soldi per farsi una doccia in questo posto, pensai.
Era un luogo che schiaffeggiava i peones come me; ebbi l’impressione che anche il pavimento sembrava giudicarmi alieno.
Ma andò bene.
Mi presero.
Avevo studiato da medico, mi ero laureato come medico e, via non è difficile da indovinare, facevo pure il medico. Be’, ancora non nel modo in cui sognavo di farlo. Però, mi ero incamminato.
Insomma, l’albergo Le Monde Hotel fu – pur deprecabile nella sua attitudine a sentirsi luogo speciale per gente speciale – il primo che mi accolse come medico: si può essere degli astronauti formidabili, ma se nessuno ti affida uno straccio di missile spaziale, c’è poco da gridare vittoria, no?
Nel frattempo avevo vinto anche un posto di aiuto chirurgo, ma quello che doveva andare in pensione non voleva mollare, quindi ero giunto lì in attesa che mi affidassero ciò che avevo vinto.
Ero stato assunto con ottomila euro al mese per prescrivere farmaci da banco ai ricconi che capitavano in quelle camere da mille e una notte, mica a centocinquanta euro all’anno luce per spidocchiare le martore alsaziane. Una situazione che mi mise perfino in ansia: sarebbe stato problematico abbandonare in seguito, visto che nemmeno a fine carriera i medici che conoscevo riuscivano a guadagnare una cifra simile!
Come gli altri colleghi che erano lì prima di me, iniziai a fare i turni di guardia medica. Tra stipendio e impegno consumato verso i clienti, mi sentivo un privilegiato. Tanto che iniziai a dubitare di abbandonare quando, finalmente, mi avrebbero convocato per il mio primo giorno di Asl. Lì, di sicuro, mi aspettavano nottatacce e stipendio normale, versati su un conto corrente normale, che in modo estremamente normale sarebbe andato in crisi a fine mese o giù di lì. Per raggiungere una retribuzione paragonabile a quella che già prendevo, chissà quanto ci avrei messo. Mi sarebbe convenuto? Mah. Anche quella sera mi ero messo a letto, nella postazione della guardia medica, con quel dubbio nella mente. Di sicuro ero in quella stagione della vita, dove si vuole conquistare tutto il possibile.
Non sospettavo lontanamente che potessero esistere situazioni come Le Monde Hotel e nemmeno che potessero dare da lavorare a uno come me. Appartenevo a quelli che la carriera di medico se l’erano inventata ex novo: insomma, in famiglia nessuno aveva mai giurato davanti a Ippocrate o a qualche suo parente lontano. Quindi non continuavo una carriera parentale iniziata da qualche avo… barbiere (qualche giorno dopo la laurea, il rigattiere che a volte passa dalla mia borgata, mi fece i complimenti e mi chiese se sapessi fare anche barba e capelli, ricordandomi benevolmente di non montarmi la testa; insomma, mi rammentò che la strada verso il dottorato, dal Rinascimento in poi, passava dal ‘barbierato’: da barbiere a medico chirurgo!).
Alla ‘corte di