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Sulle ali della dignità: Come i lavoratori si sono battuti per impedire la distruzione di Alitalia
Sulle ali della dignità: Come i lavoratori si sono battuti per impedire la distruzione di Alitalia
Sulle ali della dignità: Come i lavoratori si sono battuti per impedire la distruzione di Alitalia
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Sulle ali della dignità: Come i lavoratori si sono battuti per impedire la distruzione di Alitalia

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Info su questo ebook

SULLE ALI DELLA DIGNITÀ - Come i lavoratori si sono battuti per

impedire la distruzione dell'Alitalia I fatti raccontati da Fabrizio

Tomaselli sul sito oggisivola.com diventano un libro per capire la

storia di una compagnia aerea che si vorrebbe costringere ad ammainare

la bandiera in segno di resa alla logica distruttrice del mercato e agli

interessi degli altri grandi vettori europei.Protagonisti del racconto

sono Alitalia ed i suoi lavoratori, con un focus particolare sugli

assistenti di volo dal 1979 ad 2008, quando la compagnia fu

completamente privatizzata, per poi arrivare ai nostri giorni con una

cronaca sintetica dei fatti di maggior rilievo ed un'analisi ragionata

sulle cause del declino della compagnia aerea.In questi anni i

lavoratori si sono battuti per i loro diritti e allo stesso tempo per

impedire lo smantellamento di un asset strategico per l'economia del

paese. Il sindacato ha svolto un ruolo spesso contraddittorio e al suo

interno il sindacalismo di base, con la sua storica e forte presenza, ha

rappresentato una sana "anomalia" che ha spesso consentito ai

lavoratori di poter esprimere il proprio giusto dissenso nei confronti

dei vertici aziendali, della proprietà e della politica.Una storia di

anni di vita di Alitalia raccontata in modo dettagliato in una versione

diversa dalle cronache ufficiali e narrata dal punto di vista di chi

lavora.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2021
ISBN9791220350143
Sulle ali della dignità: Come i lavoratori si sono battuti per impedire la distruzione di Alitalia

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    Anteprima del libro

    Sulle ali della dignità - Fabrizio Tomaselli

    Capitolo 1

    I primi trent’anni di Alitalia

    La seconda guerra mondiale è finita da appena due anni e nel Paese distrutto dai bombardamenti e dall’infame tragedia fascista e poi rinato dalla lotta partigiana e dalla nascita della Repubblica decolla il primo aereo dell’allora AII (Aerolinee Internazionali Italiane). Il 5 maggio del ’47 un trimotore Fiat G12 si alza dalla pista di Torino e arriva a Roma. Appena due mesi dopo, un Savoia-Marchetti SM95 effettua il primo volo internazionale da Roma a Oslo, mentre per vedere un volo intercontinentale si dovrà aspettare il ’48, quando un Lancastrian, con trentasei ore di viaggio, volerà da Milano a Buenos Aires facendo tappa a Roma, Dakar, Natal, Rio de Janeiro e San Paolo.

    L’ambasciatore Giuseppe de Michelis è il primo presidente. Nel ’48 viene sostituito dal conte Nicolò Carandini, rimasto a capo dell’azienda sino al 1968. Bruno Velani sarà prima direttore generale dal ’53 al ‘64, poi amministratore delegato dal ’64 al ’68 e infine presidente dal ’68 al ’74. Figure importanti, tutte legate all’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale), visto che Alitalia era proprietà dello Stato, e che gestirono lo sviluppo dell’azienda durante il boom economico e negli anni in cui Alitalia era remunerativa, comprava aerei, assumeva personale e rappresentava un fondamentale biglietto da visita per il turismo e per i prodotti italiani.

    Sembrano trascorsi secoli, ma sono solo poco più di settant’anni. Il trasporto aereo è passato dall’essere un’esperienza per pochi a uno strumento di trasporto di massa.

    All’inizio del 1950 Alitalia ha quattro aerei in flotta, i nuovi DC4 della Douglas, e lo stesso anno cominciano a vedersi a bordo le prime hostess. I piloti, in quegli anni, erano molto stimati, ma gli assistenti di volo, quasi tutte donne, non erano certo considerati per quello che realmente sono e cioè operatori che si occupano prioritariamente della. Allora erano veramente considerati dei camerieri dal sorriso stampato sul viso e assolutamente soggetti al comando, quasi di carattere militare, del comandante del volo.

    Già dal 1952 Alitalia chiude il bilancio in attivo, nonostante gli ingenti investimenti affrontati. Nei due o tre anni successivi nasce la classe turistica, a bordo si mangia bene e le tariffe economiche iniziano a trasformare il trasporto aereo rendendolo più accessibile, ma sempre costoso: un Milano-Londra costa ad esempio quarantatremila e cinquecento lire che corrispondono a circa seicentocinquanta euro attuali.

    Nel 1957, però, l’IRI decise di fondere Alitalia con la LAI (Linee Aeree Italiane), nata anch’essa nel ’47, creando Alitalia-Linee Aeree Italiane. Alitalia amplia la propria rete e nel 1960, con le olimpiadi di Roma, trasportando un milione di passeggeri, si afferma definitivamente come compagnia d’importanza mondiale. L’11 gennaio del ’61 la base ufficiale si sposta da Ciampino a Fiumicino, dove nasce il nuovo centro di addestramento e quella che diventerà poi la città del volo. Arrivano aerei nuovi, il DC-8 della Douglas e il Caravelle.

    Alla costante crescita dei passeggeri corrisponde l’aumento della flotta, delle frequenze e delle destinazioni in tutto il mondo. Crescono anche le assunzioni e, a fronte di aerei sempre più tecnologici, anche la necessità di qualificare adeguatamente piloti e assistenti di volo.

    Profonda è la riflessione sulla mancanza di una scuola formativa che delinei lo sviluppo della professione dell’assistente di volo. Un vero e proprio peccato originale, che aveva rivelato limiti e perpetuato debolezze anche nella costruzione del contratto di lavoro. Sebbene l’azienda, negli anni, organizzerà corsi di addestramento al fine di colmare questo vuoto formativo, sarà comunque il volo ad accrescere la professionalità di questi lavoratori. Le esperienze vissute a bordo degli aerei, superando le difficoltà, curando l’organizzazione del servizio, occupandosi sempre della sicurezza del volo, contribuiranno alla costruzione della figura professionale dell’assistente di volo, basata essenzialmente sul concetto di anzianità. Quest’ultima si porrà come punto di riferimento per le componenti più giovani e come centro di definizione per le future qualifiche. Il principio di anzianità si consoliderà in una forte cultura del lavoro, rappresentando per decenni un argine contro ogni tentativo di selezionare i lavoratori da un punto di vista esclusivamente meritocratico.

    Nel 1964 l’IRI decide la nascita dell’ATI (Aereo trasporti italiani), una compagnia dedicata ai voli nazionali. Dal 1960 al 1965 i passeggeri passano da uno a tre milioni. L’anno dopo arriva lo storico DC 9/30 e ciò rappresenta un evento importante per quanto riguarda i servizi di bordo perché questo sarà il primo aereo nel quale sarà possibile servire dei pasti caldi durante il volo.

    La sede iniziale di via Maresciallo Pilsudski viene lasciata nel 1967 per trasferirsi nel grattacielo di piazzale Giulio Pastore, all’EUR, dove rimase per vent’anni.

    In quell’anno Alitalia, con centoquaranta miliardi di fatturato, diecimila dipendenti e una rete che collega settanta Paesi in tutto il mondo, è al settimo posto nel trasporto aereo internazionale e terza in Europa, preceduta soltanto dagli inglesi della British Airways e dai francesi di Air France.

    In Europa, nel 1969, è Alitalia la prima compagnia a operare soltanto con aerei a reazione. Nel 1970 Cesare Romiti diventa amministratore delegato ed entra in flotta il primo Boeing 747, che volerà soprattutto da Roma a New York.

    Nel 1973, sotto la direzione di Nordio, che sostituisce Romiti alla guida di Alitalia, entrano in flotta anche i DC-10, trimotori della McDonnell Douglas e si inizia a volare verso Tokyo. Nel 1978 Nordio diventerà presidente di Alitalia e mantenendo la carica sino al 1988.

    Ma insieme al Jumbo, il Boeing 747, verso la fine degli anni settanta, arriva dagli Stati Uniti anche la deregulation, fenomeno economico che insieme alla crisi petrolifera e al conseguente aumento sproporzionato del prezzo del carburante e agli aumenti del costo del lavoro dopo le mobilitazioni sociali del 1968-1969, rappresentò un cambiamento epocale per l’intero settore. A causa del progressivo decadimento delle regole che sino ad allora avevano governato il trasporto aereo, per poter competere si dovranno ridurre i costi, in un’ottica però di sviluppo. Tuttavia, pagare di più il carburante e il personale, i due fattori che insieme alla manutenzione sono il cuore di una compagnia aerea, mentre si comprano aerei sempre più moderni e costosi per poter incrementare i trasporti e raggiungere luoghi sempre più lontani, ha rapidamente portato alla crisi di numerose compagnie, allo sfruttamento del personale, alla compressione dei costi e alla graduale riduzione della qualità del servizio.

    La deregulation anticiperà la liberalizzazione dei mercati, dell’economia e della finanza che viviamo oggi insieme a enormi contraddizioni sociali. Gli effetti sono evidenti fin da subito, anche se le conseguenze più disastrose si registreranno dopo anni. La Pan Am fallisce nel 1991 dopo una guerra tariffaria senza esclusione di colpi tra compagnie statunitensi. In Europa le conseguenze arriveranno qualche anno dopo, verso la fine degli anni novanta, e trasformeranno il vecchio continente in un campo di battaglia, con morti e feriti tra le compagnie aeree esistenti.

    Mentre si avvia questo percorso di deregolamentazione, che purtroppo è ancor oggi in atto e ha investito in modo imponente e feroce i livelli occupazionali, le condizioni di lavoro e i diritti previsti dalla nostra Costituzione, dalla fine degli anni settanta al 1982 l’Alitalia raggiunge comunque i dieci milioni di passeggeri trasportati ed entrano in flotta i nuovi MD80 della Douglas e gli Airbus A300. Insomma, tra la fine degli anni settanta e la metà degli ottanta, l’andamento industriale di Alitalia è abbastanza positivo, ma i lavoratori, sebbene ottengano sicuramente maggiori diritti e salari, già iniziano ad avvertire la presenza della deregulation statunitense che si avvicina.

    Negli anni settanta si intravede anche un cambiamento nel riconoscimento professionale degli assistenti di volo. La certificazione ministeriale per poter operare su un aereo rappresenta uno dei momenti più importanti: il ruolo di cameriere, che sino ad allora era stato attribuito strumentalmente all’assistente di volo, si trasforma di colpo soltanto nella caricatura di questa professione. La certificazione per i compiti di emergenza, ottenuta con lotte e scioperi, trasforma l’hostess e lo steward in assistente di volo. Un ruolo di emergenza che già svolgeva, ma che non veniva riconosciuto come tale. Da quel momento in poi l’assistente di volo non è più il cameriere, l’attendente del comandante, ma un lavoratore che attraverso la sua professionalità contribuisce a creare valore e conseguentemente fa valere i propri diritti. La subdola dipendenza totale e storica dalla cabina di pilotaggio di colpo viene meno o comunque ci si sottrae all’imposizione gerarchica di carattere militare sino ad allora esercitata. Si diventa coscienti del valore del proprio lavoro, si comincia a chiedere il giusto riconoscimento dei propri diritti all’azienda e alle organizzazioni sindacali, si aspira a rivalutare il proprio ruolo e si inizia a pensare e a praticare il conflitto come strumento di risoluzione delle controversie lavorative.

    Capitolo 2

    Il Comitato di lotta degli assistenti di volo del 1979

    Il 20 febbraio 1979 iniziò uno degli scioperi più lunghi nella storia italiana. La categoria degli assistenti di volo esplose in una lotta che durò quaranta giorni, segnò la storia sindacale di quegli anni e influì su quella successiva.

    Nel ’79 non lavoravo ancora in Alitalia e quindi la ricostruzione di quegli eventi si basa anche sul racconto di alcuni colleghi* che quelle vicende le hanno vissute in prima persona.

    C’è però da dire che anche quando iniziai a lavorare in Alitalia, pur avendo in tanti rimosso il ricordo dei quaranta giorni di lotta, se ci si soffermava a chiacchierare con gli attori di quei giorni, si riusciva immediatamente a rivivere il clima e l’intensità della partecipazione collettiva che l’aveva contraddistinta. Una vicenda che chiaramente è anche figlia della situazione politica e sociale che si respirava nel Paese alla fine degli anni settanta.

    «Il progetto aziendale che precede la nascita del Comitato di lotta è una vera e propria restaurazione tesa a peggiorare le condizioni di vita dei lavoratori e abbattere quelle conquiste sindacali raggiunte alla fine degli anni sessanta», così sintetizza Carlo Gianandrea, protagonista di quei giorni e, qualche anno dopo, del successivo sviluppo del sindacalismo di base. «Su queste basi inizia lo sciopero che, partito da un’avanguardia di poche centinaia di persone, si allargherà a dismisura e darà vita a un vero e proprio movimento. A questo punto bisogna chiedersi come fu possibile che una categoria come quella degli assistenti di volo, per definizione inorganizzabile, riuscì nel miracolo di autorganizzarsi. Tra le tante risposte non è da sottovalutare il fatto che negli anni settanta ci furono molte assunzioni di giovani scolarizzati e in parte politicizzati, che pian piano portarono il resto della categoria a riflettere sui propri bisogni e sulle proprie aspettative: organizzare il proprio tempo e migliorare quindi le proprie condizioni di vita e di lavoro. Insomma, si trattò di uno scontro dentro la ristrutturazione sociale, ahimè in seguito vinto dalle leggi imposte dalla deregulation e dalla globalizzazione.»

    Verso la metà degli anni settanta si costituì il collettivo Filo Rosso, ambito di confronto tra lavoratori, avanguardie di realtà per gran parte vicine all’Autonomia operaia. Erano assistenti di volo, assistenti ospedalieri, insegnanti, lavoratori delle telecomunicazioni, metalmeccanici e lavoratori di tanti altri settori produttivi che avevano tra i vari obiettivi quello della creazione di organismi di base chiamati comitati di settore. Tra gli assistenti di volo Alitalia il Comitato di settore nacque nel 1976. Si riuniva a Roma al numero civico 66 di via Capitan Bavastro e divenne immediatamente un vero e proprio organismo di base, sviluppando dibattiti e organizzando iniziative fuori dai sindacati, tra le quali spicca l’inchiesta sulla salute e sui rischi psicofisici derivanti dal volo.

    La prima azione di lotta indetta dal Comitato di settore, dopo settimane e settimane di mobilitazione e una raccolta di firme alla quale aderirono oltre mille lavoratori, si svolse il 19 settembre 1977 incentrata sull’organizzazione del lavoro aggravata da un accordo sottoscritto il ventuno luglio dello stesso anno dall’azienda e i sindacati. Dal comunicato ai lavoratori del Comitato di settore del 17 settembre 1977: «Gli assistenti di volo, più volte riunitisi in assemblea, hanno unanimemente deciso di opporsi all’intesa sull’impiego proposta dall’Alitalia e accettata supinamente dai sindacati. Essi indicono quindi uno SCIOPERO per lunedì 19 settembre dalle ore 7.30 alle ore 16.30. Questo sciopero è volto a bloccare la linea padronale tendente a una ristrutturazione selvaggia che passa attraverso la mobilità, la riduzione degli organici, l’aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro […] sciopero che supera le gerarchie sindacali le quali, nonostante la delega a esse concessa, non rispecchiano più le esigenze reali dei lavoratori». A pensarci bene, per chi oggi vive il mondo del lavoro in Alitalia o in qualsiasi altra azienda italiana, queste parole di più di quarant’anni fa, sono più attuali che mai. Lo sciopero bloccò l’80% del traffico e rappresentò un banco di prova per il futuro protagonismo dei lavoratori del settore.

    In quel periodo l’azienda esercitava costantemente una serie di violazioni contrattuali e ciò creava un clima di forte tensione. Negli stessi anni, al fine di sviluppare un maggior controllo sugli assistenti di volo, l’Alitalia impose una nuova qualifica che avrebbe aperto la strada alla meritocrazia basata sulla disponibilità nei confronti dell’azienda. Il CCP (capo cabina principale) aveva la funzione di controllo e valutazione dell’equipaggio, una vera e propria schedatura oggi diventata quasi normale, ma mai vissuta prima in azienda. Questa nuova figura, vissuta dalla categoria come strumento di repressione e definita da tanti testa di cuoio, fu motivo di un acceso dibattito e portò al primo sciopero autonomo.

    Tra la primavera e l’estate del 1978 l’Alitalia incrementò il numero e l’intensità delle forzature contrattuali alle quali i sindacati non si opposero. Ciò produsse la presa di posizione ferma di molti lavoratori che pretesero il rispetto delle norme contrattuali e la reazione dell’azienda con oltre trecento provvedimenti disciplinari e circa mille e cinquecento giornate di sospensione dal lavoro e dallo stipendio.

    In quella fase l’unico tentativo della grande stampa di comprendere che cosa stesse realmente accadendo tra gli assistenti di volo dell’Alitalia, fu un articolo, molto esaustivo, pubblicato il 10 settembre 1978 sul «Corriere della Sera» e firmato da Andrea Purgatori. Uno dei pochi articoli che fece parlare direttamente i rappresentanti del Comitato di settore. «[…] Ormai da alcuni anni è esplosa violenta a Fiumicino la polemica tra i lavoratori del trasporto aereo e l’Alitalia. Accuse, proteste, agitazioni […] Nell’occhio del ciclone sono stati prima i piloti, Aquila Selvaggia. Adesso tocca agli assistenti di volo essere imputati dei malesseri della compagnia di bandiera […] Sentiamo un assistente di volo, iscritto alla Cgil. Siamo diventati un facile obiettivo per coprire i veri problemi che da troppo tempo affliggono l’Alitalia. Da un anno — prosegue — è scaduto il contratto di lavoro […] in questo periodo le ore di sciopero sono state complessivamente 15 […] Nel corso del 1977, si tratta di stime ufficiali, sugli aeroporti romani di Fiumicino e Ciampino, i tassi di crescita del traffico (movimento aeroplani, numero passeggeri, eccetera) sono stati superiori a quelli medi del traffico mondiale» continua Purgatori. «Un aumento al quale non è corrisposto l’adeguamento dell’organico e del numero degli aerei. Da tempo è in atto il blocco delle assunzioni, nonostante la carenza di personale, spiegano alcuni assistenti di volo che hanno dato vita al Comitato di Settore. Sull’ipotesi di rinnovo contrattuale preparata da Cgil-Cisl-Uil i contrasti si sono fatti recentemente più acuti. Rifiutiamo l’accusa di neo corporativismo e quella di fare il gioco dei sindacati autonomi si difendono. E aggiungono: Siamo tuttavia contrari a una politica dei sacrifici che non tenga conto di quelli che sono i problemi reali degli assistenti di volo.» L’articolo di Andrea Purgatori prosegue poi affrontando moltissimi temi, dalla piattaforma del Comitato di settore all’orario di lavoro che non rispetta il contratto, dall’organizzazione del lavoro al rifiuto della monetizzazione dello straordinario e alla richiesta della riduzione dell’orario, dando poi ampio rilievo alle tematiche sulla salute e all’inchiesta specifica elaborata dal collettivo femminista dell’Alitalia insieme a esperti di medicina del lavoro. Così si conclude l’articolo: «[…] Lo scenario offerto da una parte del personale di volo sui problemi del trasporto aereo — sicuramente una minoranza — rappresenta pur sempre un motivo di profonda preoccupazione».

    Il 30 dicembre del 1978 fu firmato il contratto dei piloti che prevedeva un inasprimento dei ritmi di lavoro.

    La scintilla che innescò le successive azioni di lotta fu l’avvio, il 2 febbraio 1979, della trattativa per il rinnovo del contratto degli assistenti di volo, che si tenne presso l’Intersind, allora l’associazione delle aziende del trasporto aereo.

    Un impiego diverso era il titolo della piattaforma FULAT, la Federazione unitaria dei lavoratori degli aerotrasporti che poi si divise nelle tre rappresentanze di CGIL, CISL e UIL. Ma la loro era una proposta simile a quella che aveva portato al rinnovo del contratto dei piloti. Dietro la consueta retorica sindacale si nascondeva infatti la monetizzazione di molte tutele normative, con l’aggravio dei ritmi e delle condizioni di lavoro. Tutto ciò in cambio di un po’ di soldi e del ritiro delle mille e cinquecento giornate di sospensione.

    Nel giro di pochissimi giorni i lavoratori, in accese e partecipate assemblee, si costituirono in una struttura più rispondente alle esigenze richieste dal momento. Si sarebbe dovuta affrontare una lotta più dura e la vecchia struttura del Comitato di settore era ormai obsoleta, così i primi giorni del febbraio 1979 nacque il Comitato di lotta.

    Il sei febbraio si svolse la prima assemblea che, oltre a ribadire le tre discriminanti sulle quali si basava l’adesione al comitato e cioè il disconoscimento della trattativa sindacale in atto, l’autogestione delle lotte e gli obiettivi irrinunciabili (aumenti salariali in paga base, recepimento dello statuto dei lavoratori, riduzione dell’orario di lavoro e posto a terra garantito in caso di inabilità al volo), decise l’auto-organizzazione in varie commissioni, di «non aderire da oggi in poi ad azioni di sciopero sul contratto indette dalle organizzazioni sindacali in quanto strumentali» e di «indire a breve scadenza scioperi articolati e con un minimo di preavviso». E così fu!

    La decisione di proclamare uno sciopero a quel punto fu quasi automatica. Lo sciopero fu indetto per il quindici febbraio e si rivelò un successo pieno contando un’adesione dell’80%, il 60% di voli cancellati e il 40% dei voli con personale ridotto: un segnale evidente e stimolante per continuare la lotta. Alcuni giorni di intense assemblee portarono alla costruzione di una piattaforma rivendicativa alternativa a quella della FULAT e a una «[…] diffida ai sindacati e all’azienda a proseguire qualsiasi trattativa che non rispetti la volontà dei lavoratori […]».

    E la volontà dei lavoratori era quella di perseguire i punti della piattaforma decisi nelle assemblee del Comitato di lotta: il recepimento integrale dello statuto dei lavoratori (la legge 300/1970), che non era e non è ancora oggi recepito integralmente per personale di volo e marittimi, che sono soggetti anche a norme del Codice della Navigazione, che viene utilizzato per ridurre diritti individuali e sindacali; la riduzione dell’orario di lavoro; la garanzia dell’assunzione tra il personale di terra nei casi di inidoneità al volo; l’aumento del salario in paga base; l’aumento degli organici sugli aerei.

    Il venti febbraio iniziò una lotta che si sarebbe protratta per quaranta giorni, lasciando un segno indelebile nella storia di questa categoria e di tutta l’azienda.

    Agli assistenti di volo dell’Alitalia si unirono quelli delle due compagnie aeree minori, l’ATI e l’Itavia. Quasi immediatamente arrivò la solidarietà degli altri lavoratori del trasporto aereo, come anche quella di altre realtà lavorative: ospedalieri, marittimi, ferrovieri, ecc.

    La reazione aziendale, e non solo, non tardò ad arrivare. L’apparato repressivo dell’Alitalia si manifestò attraverso forti pressioni sui lavoratori. La polizia cominciò a presidiare militarmente l’aeroporto e a infiltrarsi nelle assemblee. Anche i sindacati si attivarono nel tentativo di isolare e boicottare l’iniziativa degli assistenti di volo. Fu addirittura indetto uno sciopero del personale di terra contro il Comitato di lotta. Uno sciopero che fallì perché in quella fase la loro solidarietà nei confronti della lotta degli assistenti di volo era reale.

    Lo sciopero veniva riconfermato e indetto giorno per giorno. I picchetti erano sempre presenti nei vari varchi da dove potevano entrare i crumiri che, sempre meno, venivano trasportati su autobus direttamente sotto l’aereo in partenza.

    Ma come ci si organizzava nel comitato? In pratica ci si auto-organizzava. C’era chi si interessava dei picchetti, chi si occupava di gestire una presenza continua, a Fiumicino nella storica stanza uno e chi si occupava del vettovagliamento e della raccolta dei fondi. La partecipazione attiva ed entusiasta fu totale. Per la prima volta una categoria che per le caratteristiche del lavoro è fortemente frammentata e disomogenea si trovava riunita in un unico luogo, a confrontarsi, organizzarsi e finalmente conoscersi.

    C’erano sicuramente molte contraddizioni tra i lavoratori e le lavoratrici in sciopero, ma questo non produsse, inizialmente, forti scossoni all’interno del movimento, che stava muovendo i suoi primi passi.

    Tra le incoerenze ci fu quella di un forte aumento delle malattie durante lo sciopero. Carlo Gianandrea: «Inizialmente un consistente numero di assistenti di volo si mise in malattia. Una minoranza silenziosa che però in seguito prese parte attivamente ai quaranta giorni. Questo fenomeno fu strumentalizzato dall’azienda e dagli stessi sindacati che ammutolirono quando, con il passare dei giorni, videro aumentare a dismisura la massa di lavoratori che spontaneamente e felicemente si radunava a Fiumicino. Il logorio di un lavoro che annullava o lasciava poco spazio alle riflessioni sui propri bisogni, frustrazioni e ambizioni portò gran parte della categoria a una sorta di analisi collettiva. Le buste paga arrivarono a sfiorare lo zero a causa dell’enorme numero di giorni di sciopero. Neanche questo fatto scalfì il movimento, che riteneva ben più importante dei soldi il desiderio di condividere la propria condizione di vita con gli altri, scoprendo che molte problematiche personali ed esistenziali erano le stesse che accomunavano gran parte della categoria».

    La presenza e il controllo della polizia si fecero di giorno in giorno più pressanti. Il ventidue febbraio si verificò un fatto gravissimo. Così riportava il quotidiano «Lotta continua» del 23 febbraio 1979: «Quattro colpi di pistola sono stati sparati a circa 2 metri di altezza verso due assistenti di volo che si trovavano di fronte all’hangar DC/10 dell’aeroporto di Fiumicino, esercitando la normale attività di mobilitazione e di contatto con i lavoratori in sciopero. I proiettili si sono conficcati in due cartelli segnaletici collocati nei pressi. Scusateci, pensavamo foste ladri. Questa l’incredibile affermazione con cui si sono giustificati i poliziotti subito dopo […]».

    Poco prima dell’inizio dello sciopero gli assistenti di volo erano circa duemila e cinquecento e mille e seicentotrenta erano quelli iscritti al sindacato, ma le critiche verso i sindacati di Lama, Macario e Benvenuto divennero sempre più pesanti.

    «Quando cominciò lo sciopero del Comitato di lotta, mi trovavo a Boston», così ricorda Maris Cecot, una delle tante protagoniste di quei giorni. «I due voli che avrei dovuto effettuare con destinazione Filadelfia furono cancellati entrambi. Quando scoprii che il motivo era uno sciopero mi si accese una lampadina e sperai che fosse un’iniziativa autonoma degli assistenti di volo. Contattai, immediatamente, amici e compagni a Roma e l’emozione fu forte nel constatare che non mi ero sbagliata. Da quel momento, mi tenni in contatto quotidiano coi compagni, fino al mio rientro. Quando la compagnia americana TWA, che mi riportò alla base, atterrò all’aeroporto di Fiumicino, la scena che si presentò ai miei occhi mi lasciò esterrefatta! Decine e decine di aerei Alitalia fermi sul piazzale, uno accanto all’altro, nella vana attesa di un equipaggio… un’immagine che è rimasta impressa nella mia memoria! Era il 7 marzo ’79, dopo sedici giorni di sciopero del Comitato di otta cominciò finalmente anche la mia partecipazione a quello che sarebbe stato il più lungo sciopero degli assistenti di volo Alitalia. Mi recai subito, presa da mille domande che cercavano risposta, nel luogo dove si svolgevano le assemblee, la stanza numero uno, e vidi qualcosa che mai avrei immaginato: la scalinata e il piazzale sottostante erano stracolmi di colleghi, compagni e no, amici e tanti, tanti volti sconosciuti. Tanti colleghi che, per la prima volta, avevano modo d’incontrarsi, parlarsi e confrontarsi finalmente senza l’ansia dei ritmi, troppo veloci, che il nostro lavoro ci imponeva quotidianamente. L’atmosfera era a dir poco entusiasmante, tutti parlavano con tutti e molti colleghi che non si erano mai occupati di politica la stavano facendo. Lo sciopero, fondamentalmente, era fondato sui bisogni primari dei lavoratori, ma anche basato su rivendicazioni politiche: una lotta di classe! In quei giorni di delirio collettivo, in senso positivo, molti ripresero a fumare, io smisi e quasi non me ne accorsi… l’adrenalina che avevo in corpo mi impediva di sentirne la mancanza. Nel frattempo, i quotidiani, non tutti ma molti, ci attaccavano pesantemente, definendoci privilegiati poiché volevano vedere solo l’aspetto esteriore del nostro lavoro: grandi alberghi, piscine e spiagge dorate. Ci cascarono, più o meno volontariamente, anche Bocca, Goldoni e Costanzo, che non vollero o non seppero andare oltre e vedere un lavoro massacrante che oltre i lati positivi aveva anche molti aspetti negativi: era la nostra realtà di vita. La mia rabbia saliva in un turbinio di emozioni allo stato puro, belle e brutte, a seconda delle situazioni, ma comunque emozioni; durò quaranta giorni, tra cortei, manifestazioni, discussioni, assemblee e molto altro. Quando tutto questo terminò, al di là del risultato negativo, le mie riflessioni furono moltissime e capii che comunque ero stata protagonista, con i miei colleghi, di una fase storica e di una delle più esaltanti esperienze della mia vita!»

    In effetti la stampa di allora seguì costantemente le assemblee, le manifestazioni e gli scioperi: la lotta degli assistenti di volo divenne ben presto un evento sociale, sindacale e politico al centro del dibattito del Paese. Tante le strumentalizzazioni, molti i tentativi di sminuire il peso del comitato e la partecipazione allo sciopero. Ben presto però anche la stampa si rese conto che l’adesione massiccia agli scioperi e alla mobilitazione erano la riprova che qualche cosa non funzionava nel sistema sindacale e aziendale.

    L’Alitalia del 1979 del presidente Umberto Nordio era una compagnia con undici miliardi di lire di utile su mille di fatturato e con ventimila dipendenti, sessantacinque aerei e sette milioni di passeggeri trasportati. Lucio Libertini, allora presidente della commissione trasporti della Camera così interveniva su «Il Messaggero» del 27 febbraio 1979: «Le agitazioni che si susseguono nel settore aereo e che pregiudicano la regolarità di un servizio essenziale, chiamano in causa pesanti responsabilità delle Partecipazioni statali e del governo […]».

    Sempre il ventisette febbraio «Paese Sera» titolava così: –Neanche oggi si vola. Gli assistenti di volo scioperano ormai da una settimana anche contro il sindacato. Le compagnie Alitalia e Ati perdono un miliardo al giorno.

    «Il manifesto» del due marzo riportava la notizia: Prosegue lo sciopero a Fiumicino. Ieri sono partiti solo tre aerei.

    Per le hostess sciopero record, così "la Repubblica» del tre marzo: «Hostess e steward hanno battuto ogni record di scioperi nei trasporti: la loro agitazione, arrivata al dodicesimo giorno consecutivo, viene prolungata di 24 ore in 24 ore, provocando la più lunga paralisi del trasporto aereo che si sia mai prodotta in Italia. Anche ieri i voli Alitalia e Ati in partenza da Fiumicino sono rimasti bloccati, con l’effetto di fermare il 90% dell’intera rete. E la situazione si ripeterà oggi […]».

    Ma nonostante la lotta fosse così partecipata e il risalto pubblico ormai ampio, il governo rifiutò qualsiasi confronto con il Comitato di lotta. "la Repubblica» del sette marzo: «On. Pumilia — sottosegretario al lavoro — non ritiene in questo caso di dover convocare i protagonisti dello sciopero selvaggio, ossia quelli del Comitato di Lotta? Lo escludo nel modo più assoluto. Se ci mettessimo a trattare con loro, di comitati di lotta ne spunterebbero a decine, per ogni tipo di contratto e di vertenza».

    Il «Corriere della Sera» del nove marzo, nella cronaca di una manifestazione che vide la partecipazione di mille e cinquecento assistenti di volo, inserì i vari slogan urlati per le strade romane: «governo, giornale, televisione, questo è sciopero di classe, attenzione; siamo stufe di essere sfruttate, siamo sempre più incazzate; Nordio, babbeo, becchete ‘sto corteo; Lama, Macario, Benvenuto lo sciopero di classe non va svenduto; per i colleghi morti non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto; se qui la stampa non ci sta la diremo noi la verità».

    E alle accuse e alle offese delle grandi firme sui maggiori quotidiani così rispondeva un gruppo di donne del Comitato di lotta sul numero del quindici marzo di «Lotta continua»: «Grandi Firme della stampa padrona si alleano: che cosa è una hostess? E qui si comincia: o siamo star del cinema, o nobili decadute o povere creature lacerate da crisi d’identità […] Bocca, Goldoni, Costanzo, ma voi chi siete, a nome di chi parlate? Che infangate lavoratori, movimenti e femministe lo sappiamo; che siete nostalgici degli anni ’50, dove forse lavoratori, movimenti e donne non preoccupavano e non occupavano; che siete voi i decaduti, voi che evocate figure o meglio schiavette col sorriso obbligato o geishe profumate, che vi danno pantofoline e cuscini. Certo, noi, poveri lavoratori dell’aria, viviamo la crisi dei valori, mica la crisi dello sfruttamento intensivo a cui questa selvaggia ristrutturazione ci sottopone e contro cui ci stiamo ribellando! Bocca, Goldoni, Costanzo, chi è corporativo? […]».

    Divennero storiche le parole di Nordio che riporto da «Panorama» del tre aprile: «Ma cosa volete trattare. Questi sono camerieri, è una categoria indifendibile. E poi gli steward fanno traffici strani, e le hostess anche di peggio […]». Insomma, gli steward sono contrabbandieri e le hostess mignotte, questo è il senso della dichiarazione che, a più riprese, negli anni successivi si mormorava in vari ambienti aziendali, politici, istituzionali e giornalistici dopo la storica dichiarazione del grande presidente. Veramente un gran servizio ai lavoratori e alla stessa Alitalia da parte del capo azienda.

    Il sedici marzo un’assemblea fiume, iniziata nel pomeriggio e indetta dalla FULAT e dai comitati di azienda di Alitalia, ATI e Itavia per tentare di soffocare le velleità del Comitato di otta, fu protratta sino alle due e mezzo di notte per la ferma richiesta dei lavoratori di risposte chiare da parte del sindacato. In piena notte Corrado Perna, il segretario della FULAT, esasperato dall’impossibilità di far rientrare la volontà di lotta, pose fine all’assemblea e abbandonò la sala pronunciando le seguenti parole: «Sono una persona onesta e come tale vi dico che non porterò mai avanti la vostra piattaforma». Sgomento e sconcerto regnarono per alcuni minuti. Da quel momento fu chiaro a molti che la lotta intrapresa contro i forti poteri economici, politici e sindacali sicuramente non avrebbe avuto successo.

    Ma erano momenti anche esaltanti, come riportato nel brano tratto dal bellissimo libro di Anna Maria Mazzoni, che visse in prima persona quei giorni e quegli eventi e li raccontò attraverso delle lettere scambiate tra una hostess scioperante a Fiumicino e due compagne che si trovavano bloccate fuori sede a Bangkok e Bombay. (Lettere a colleghe in sosta, Campanotto Editore, 2007). Il brano della lettera che riporto parla proprio dell’assemblea del sedici marzo e soprattutto di un intervento, una vera e proprio requisitoria di una lavoratrice nei confronti del sindacato: «Siamo andati in corteo dalla stanza uno alla mensa, dove ci aspettava la FULAT, con il suo servizio d’ordine di picchiatori. Che brutta quella vigilia […] invece è stata, venerdì 16 marzo, una delle giornate più belle del Comitato di Lotta. Il corteo fu compostissimo. Gli slogan tutti nostri. Siamo entrati nella mensa gridando: Lama Macario Benvenuto, lo sciopero di classe non va svenduto! E tutto rimbombava […] Siamo stati di una disciplina unica. Ci siamo iscritti in 152 per gli interventi […] Il primo intervento è stato di un ragazzo che non aveva mai parlato in assemblea. Bellissimo. Noi facevamo Olé! […] Ci sono stati 72 interventi prima del crollo della FULAT, tutti bellissimi. Ognuno si è espresso in un modo proprio, erano parole nuove, fresche, gente non catechizzata che aveva elaborato dentro sé stessa i propri punti interrogativi. Espressività artigianali, dirette, diverse in ognuno […] Io ho parlato per trentacinquesima […] ecco quello che ho detto. Signori, io credo che voi dovreste ammirarci perché noi abbiamo tanta rabbia. Siamo al 25° giorno di sciopero, uno sciopero che dobbiamo sostenere per difenderci dalla vostra cattiva gestione […] voi dovreste ammirarci perché non siamo venuti per ascoltarvi, ma siccome siamo molto democratici, vi abbiamo lasciato parlare […] oggi noi siamo venuti per farvi una minaccia […] voi avete fatto un fronte unito contro di noi […] più voi ci lascerete ad aspettare, più noi vi lasceremo dietro quel fronte a scannarvi l’uno contro l’altro […] Voglio farvi un’altra minaccia. Voi ci avete aizzato contro la polizia, la stampa, i lavoratori, poi improvvisamente ci avete aperto il portone per tentare il nostro recupero. Ebbene signori, sappiate che siamo ancora sull’altro fronte […] nasceranno dieci, mille Comitati di Lotta. E voi dovrete affrontarli tutti […] E voglio farvi un’altra minaccia. La nostra assemblea non si è mai data il detesseramento come obiettivo. Ma badate bene, più ci farete pagare questa esperienza, e più, ognuno di noi, a livello personale, saprà in seguito chiedervi di rendergli conto delle vostre responsabilità. Voglio farvi un’altra minaccia […] Ogni volta che facevo una minaccia sentivo il Vai corale molto suggestivo dei colleghi. Mentre tornavo mi sono baciata mezza assemblea […] Poi abbiamo continuato i nostri interventi fino alle 3 di notte […] hanno abbandonato l’assemblea (la FULAT). Il problema era più grosso della loro possibilità di risolverlo, e rimanere significava continuare a subire lo sfregio della dimostrazione di maturità della nostra categoria. Siamo rientrati compostamente alla stanza uno a tre alla volta (eravamo ancora più di mille) […]».

    Lo sciopero continua e a un certo punto si arriva persino all’utilizzo dei C130 militari per sostituire gli aerei Alitalia fermi a Fiumicino. Da «Il Messaggero» del diciotto marzo: «[…] il Ministero della Difesa ha intensificato l’intervento dell’aeronautica militare sulle linee più battute, a cominciare da domani, lunedì. Gli aerei impiegati sono DC6, DC9 e gli Hercules C130, quelli dello scandalo Lockheed […]».

    E poi, verso la fine di marzo, arriva l’accordo tra governo, Alitalia e sindacati, ma si sciopera ancora. Così riferisce la Repubblica» del ventiquattro marzo: «Dopo 32 giorni continua il blocco aereo. L’Alitalia e i sindacati firmano un accordo. Le hostess rispondono proseguendo lo sciopero. Proclamata all’unanimità dal Comitato di Lotta una nuova agitazione sino alla mezzanotte di oggi. Gli assistenti dicono: siamo pronti ad andare avanti per un altro mese. Il documento firmato da Nordio e Lama è una truffa"»

    E il giorno dopo, il venticinque marzo, «Il Tempo» confermava: «Decisi altri 5 giorni di sciopero. Il Comitato di lotta blocca il trasporto aereo. Assemblee permanenti dei rivoltosi dell’Alitalia. Continuano i voli dell’aeronautica militare […]».

    E poi arriva l’annuncio dell’inizio della fine dei quaranta giorni di sciopero. «Il Messaggero» del ventinove marzo: «Da oggi riprende in pieno l’ATI e a regime ridotto l’Alitalia. Lo sciopero è agli sgoccioli? Si fa strada l’idea di riprendere il lavoro, sia pure con le armi al piede, fra gli assistenti di volo seguaci del comitato di lotta. Il Ministero penserebbe di sostituire le hostess con militari».

    Lo sciopero continuò a oltranza per quaranta giorni nonostante le intimidazioni sindacali e aziendali. Alitalia, governo e sindacati, con l’intervento diretto rispettivamente dell’amministratore delegato, del ministro del Lavoro e dei segretari generali, il ventitré marzo firmarono il contratto capestro che avrebbe portato a una ristrutturazione selvaggia. Il tentativo di isolamento del Comitato di lotta da parte del sindacato fu costante e pressante. Dopo la solidarietà espressa dal personale di terra alla lotta degli assistenti di volo, iniziò nei loro confronti un forte inasprimento sindacale e aziendale, con revoche dei permessi sindacali, discriminazioni, pressanti controlli sul posto di lavoro, provvedimenti disciplinari e minacce di licenziamenti.

    Malgrado ciò il sindacato non fece altro che continuare nella retorica della condanna degli estremisti, proprio come aveva fatto dall’inizio dello sciopero. Così si esprimeva il notiziario CISL, fregandosene della forte partecipazione allo sciopero: «I compagni che sbagliano. Lo sparuto gruppetto di assistenti di volo e piloti che quando si riuniscono in 10 promulgano: l’assemblea di massa dei naviganti Alitalia allargata a tutte le realtà del trasporto aereo […] ha colpito di nuovo […] L’altra volta li avevamo assimilati alle squadracce (forse con qualche eccessiva vena polemica), loro insistono nel voler essere chiamati compagni: è certo, comunque, che essi sono compagni che sbagliano». Un commento che in altri termini, ma con la stessa accezione minacciosa e denigratoria, fu ripreso nei nostri confronti quando, verso la metà degli anni ottanta, cominciammo a opporci con forza alle politiche sindacali in Alitalia e iniziammo a costruire l’esperienza del Coordinamento degli assistenti di volo.

    Questa, per concludere, fu la sintetica cronistoria di quei giorni fatta dal giornale «Lotta continua» e pubblicata nell’aprile del 1979:

    «[…]14 febbraio. Il comitato di lotta […] scende in sciopero […] L’80% dei lavoratori aderisce allo sciopero. Alitalia è costretta a cancellare il 60% dei voli.

    20 febbraio. Nuovo sciopero […] Il 90% dei voli programmati a Roma è cancellato;

    24 febbraio, 4° giorno di sciopero. Il comitato di lotta dichiara […] lo stato di agitazione permanente. Rottura delle trattative tra Intersind e Fulat.

    27 febbraio, 7° giorno di sciopero. Aderiscono gli assistenti di volo dell’ATI […].

    1marzo, 9° giorno di sciopero. Fallisce lo sciopero indetto dalla Fulat per il personale di terra contro il comitato. Il sindacato aveva tentato promuovendo una campagna di diffamazione tra i lavoratori di terra di creare un cordone sanitario attorno agli assistenti di volo […] Il personale Itavia aderisce allo sciopero del comitato.

    6 marzo. Il tentativo di mediazione governativa fallisce […] L’assemblea che il sindacato convoca per riprendere il controllo della categoria, si trasforma in un durissimo processo al sindacato stesso. La maggior parte dei 400 assistenti presenti abbandona l’assemblea per andare al comitato di lotta.

    8 marzo, 16° giorno di sciopero. 1500 assistenti di volo su 1600 presenti a Roma sfilano per le strade della città […].

    9 marzo. La campagna qualunquista scatenata dagli organi di stampa tendente a mettere contro gli assistenti di volo non solo la cosiddetta utenza ma tutta l’opinione pubblica e indicandoli come una piccola categoria che va contro gli interessi nazionali e quindi contro altri strati di lavoratori, raggiunge toni violentissimi. Da più parti si invoca l’autoregolamentazione degli scioperi nei servizi pubblici.

    13 marzo, 21° giorno di sciopero. Con i soldi che hanno perso — sostengono gli assistenti di volo — l’Alitalia ci avrebbe già coperto le spese del contratto. L’Alitalia, per sua dichiarazione, perde un miliardo e mezzo ogni 24 ore. Il comitato di lotta dichiara non vogliamo sostituirci al sindacato, ma vogliamo che esso esplichi le funzioni per cui è nato e faccia sue le istanze della base.

    14 marzo. Il ministro della difesa dispone che l’aeronautica militare svolga due voli giornalieri per la Sardegna.

    15 marzo. Delegati del coordinamento degli ospedalieri di Firenze partecipano all’assemblea del comitato di lotta. Vietata dalla questura la manifestazione indetta davanti al Ministero del Lavoro.

    16 marzo. La Fulat che fin dall’inizio della lotta degli assistenti ha tentato in tutti i modi di sabotare lo sciopero e l’unità dei lavoratori […] convoca un’assemblea nell’estremo tentativo di soffocare la lotta […].

    19 marzo, 27° giorno di sciopero. Iniziano le trattative a oltranza e il comitato di lotta dichiara: 1. non ci battiamo più contro le posizioni dell’azienda o della Fulat, ma contro l’ipotesi di soluzione portata avanti dal governo; 2. contro l’arroganza padronale avallata dalla Fulat vale solo la forza della nostra unità; 3. è emersa la volontà dei lavoratori di riconoscersi nei nostri metodi di lotta nonostante i vari tentativi di isolarci e dividerci dagli altri dipendenti dell’Alitalia, dell’Ati e degli Aeroporti di Roma; 4. no al referendum.

    22 marzo, 30° giorno di sciopero. Si delinea l’accordo Alitalia sindacati. Il comitato di lotta raccoglie firme a sostegno di una lettera di diffida inviata alla Federazione Cgil-Cisl-Uil […].

    23 marzo. Il sindacato firma l’accordo notevolmente peggiorativo rispetto al vecchio contratto, accogliendo tutte le richieste dell’azienda.

    24 marzo. Preti, il nuovo ministro dei trasporti, afferma […] non posso neppure pensare che lo Stato ceda di fronte a un gruppo di assistenti che è riuscito a suggestionare una parte considerevole degli aderenti al sindacato. Nel regime democratico si riconoscono solo le organizzazioni sindacali e non i cosiddetti comitati di lotta. L’assemblea formalizza la rottura con la Fulat, si raccolgono firme favorevoli alla restituzione in massa delle tessere e contro il referendum.

    26 marzo. L’assemblea discute quali forme organizzative darsi per realizzare l’autogestione […].

    27 marzo. Manifestazione per le vie del centro. L’assemblea discute se continuare lo sciopero a oltranza o passare a forme di lotta articolate.

    29 marzo, 37° giorno di sciopero. Il comitato di lotta decide di sospendere lo sciopero a partire dall’1.4. Il ritorno a volare avverrà in due fasi: nella prima di 15 giorni, si volerà attenendosi alle regole del vecchio contratto che prevede un orario inferiore, salvo indire scioperi senza preavviso, nella seconda si boicotteranno i voli non in linea con la piattaforma del comitato […].

    30 marzo. Una delegazione del comitato di lotta chiede un incontro con i dirigenti Alitalia, la risposta è: il nostro unico interlocutore sono le organizzazioni sindacali.

    31 marzo. Si riprende a volare alle condizioni concordate.

    2 aprile. Sciopero di 10 ore deciso improvvisamente dal comitato.

    4 aprile. In una violenta e terroristica intervista Preti dichiara: L’azione del cosiddetto comitato di lotta è illegittima. Non ha il diritto di affiggere cartelli dichiaranti l’inizio dello sciopero. Solo i sindacati possono proclamarlo. Gli organi dello Stato interverranno perché questo non si verifichi più».

    Parole pesanti quelle dell’allora ministro dei Trasporti. Parole che si trasformarono in seguito in direttive e leggi che contribuirono a ridurre i diritti dei lavoratori. Atti che rappresentarono comunque la benzina che, anche se tra repressione e discriminazioni continue, fece nascere e crescere il sindacato di base, creando le fondamenta sulle quali ancora si lavora per costruire l’alternativa sindacale.

    «Sedici ore nun le famo, falle te che te pagamo» ricorda Carlo Gianandrea. «Non fu un semplice slogan ma un motto che ci accompagnò fino e oltre il vergognoso accordo sottoscritto dal sindacato alla presenza dei segretari confederali Lama, Macario e Benvenuto. Durante un’infuocata assemblea, il Comitato di lotta si dichiarò contrario a tutti i punti firmati. Lo sciopero viene revocato. Ne uscimmo sconfitti, ma in ciascuno di noi è rimasta la convinzione che ne sia valsa la pena».

    Dopo la firma del contratto di lavoro, gli ultimi giorni dello sciopero furono drammatici. La categoria era stanca, disillusa e molto provata, cosciente ormai del fallimento del percorso di lotta intrapreso. Regnava ormai la rassegnazione e i lavoratori, uno dopo l’altro, cominciarono a riempire gli aerei, a ripartire nonostante la mobilitazione fosse ancora in piedi.

    Il comitato tentò di proseguire la lotta ma con scarso successo. Si pensò anche alla «formalizzazione legale dell’organizzazione» attraverso l’individuazione di «[…] una sede del Comitato di Lotta; uno statuto a base democratica; un collegio di avvocati; l’autofinanziamento […]», ma evidentemente anche la spinta emotiva alla mobilitazione si era spenta e avanzava in modo impetuoso il vento della repressione e della normalizzazione.

    Infine, tutti ripresero a volare, portando ognuno con sé sensazioni e convinzioni diverse. Molti ripresero a lavorare rabbiosi a causa del fallimento della lotta, adottando il rispetto rigido del contratto. Spesso forzando pericolosamente le norme contrattuali, come fece un equipaggio, che in sosta a Bombay, costrinse Alitalia alla chiusura definitiva della sosta. Altri si abbandonarono alle lusinghe aziendali e alle promesse di forti guadagni lavorando oltre il consentito, mettendo a repentaglio la propria salute. Parecchi si licenziarono, altri furono licenziati e più di qualcuno abbandonò il lavoro perché non più idoneo al volo. Altri ancora, tra cui alcuni dei maggiori esponenti del Comitato di lotta, furono presi nell’ingranaggio sindacale e ancor di più in quello aziendale, diventando dei quadri di riferimento Alitalia, gestori aziendali e nemici di quegli stessi principi che avevano sino a poco tempo prima sostenuto.

    Su quest’ultimo aspetto credo che in tanti, appartenenti anche ad altre realtà lavorative, si siano chiesti come e perché sia stato possibile che donne e uomini che hanno non solo partecipato, ma spesso diretto in prima persona lotte e battaglie politiche e sindacali di rilevante portata, abbiano poi invertito la rotta di centottanta gradi, intraprendendo un percorso diametralmente opposto e in aperto conflitto con le idee, le pratiche, lo spirito e le passioni che li avevano spinti a opporsi all’ingiustizia sociale e a combattere, in definitiva, per un modello di società diversa. È vero che con il tempo si può cambiare, che gli anni possono diluire passioni e ideali, che le contraddizioni sono sempre in agguato e il non saperle affrontare con decisione o conviverci con intelligenza può farle esplodere con esiti imprevedibili. È vero anche che attraverso le esperienze acquisite nel tempo e le inquietudini attraversate nella vita è possibile cambiare idea su come reagire e interagire con gli altri, con la società e con il sistema. Ma sono convinto che l’impostazione di fondo di un essere umano a venticinque o trent’anni, l’idea e la sete di giustizia sociale, il modo con il quale ci si relaziona agli altri, non possa cambiare radicalmente. Se accade è la conseguenza di un evento patologico o, peggio ancora, deriva dal fatto che a un certo punto ci si libera di un qualche cosa che prima si tentava di nascondere: protagonismo, leaderismo, necessità di emergere a tutti i costi, interesse personale o chissà che cos’altro. A quel punto ci si mostra per quello che si è veramente e non per come si vuole apparire.

    Non mi spiego altrimenti la ragione per cui nell’arco di pochissimo tempo alcuni personaggi che erano stati protagonisti così importanti del Comitato di lotta si trasferirono dall’altra parte della barricata, a fare i controllori e i capetti di quella categoria che li aveva ascoltati e acclamati durante quei quaranta giorni di lotta, di fatica e di entusiasmo. Nella mia vita sindacale ne ho conosciuti altri di questi strani camaleonti e ho sempre provato un senso di disagio nel dover interloquire con loro, un forte e irrefrenabile voltastomaco e anche un disprezzo evidente che non sono mai riuscito a mascherare. Un’avversione che, paradossalmente, superava di gran lunga quella provata nei confronti delle controparti naturali, cioè le dirigenze aziendali e i padroni.

    E così, tra un evidente senso di sconfitta, una forte rabbia e qualche tradimento, il periodo di letargo della categoria era cominciato e durò a lungo. Furono anni di silenzio e rassegnazione, di ripresa dell’iniziativa repressiva dell’azienda sotto tutti i punti di vista, di tentativi di restituire una verginità al sindacato, di forti scossoni politici ed economici nel Paese e anche nel settore del trasporto aereo. Anni di letargo interrotti, alla metà degli anni ottanta, dalla ripresa dell’iniziativa da parte della categoria attraverso un nuovo strumento, il Coordinamento sindacale di base.

    Una valutazione complessiva sullo sciopero dei quaranta giorni, del periodo che lo precede e della sua conclusione non può prescindere da un’analisi complessiva di quello che rappresentò la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Un’analisi che in ambito politico e sindacale non si può certo affrontare in poche righe, ma che in campo sindacale e nel mondo del lavoro evidenziò l’inizio della rapida trasformazione di CGIL, CISL e UIL. Con la politica dell’EUR inaugurata nel 1977 e la successiva, infestante ed erosiva accettazione delle compatibilità economiche delle aziende, CGIL, CISL e UIL si trasformarono irreversibilmente in un animale a più teste, sempre più lontano dalle esigenze dei lavoratori, sino ad arrivare a essere definite complici da Maurizio Sacconi, futuro ministro del Lavoro. Un ruolo che trasformò queste organizzazioni in aziende nelle aziende, in istituzioni nelle istituzioni, in correnti nei partiti, abbandonando la loro funzione originaria: quella di essere lavoratori tra i lavoratori.

    La storia dei quaranta giorni di sciopero, inserita in un contesto che vedeva il sindacato abbandonare il ruolo naturale di spinta propulsiva verso il cambiamento della società e la lotta politica farsi sempre più accesa nelle piazze, trasformandosi in alcuni casi in lotta armata, non poteva e non può essere giudicata esclusivamente attraverso una lettura attuale della politica. Quelle compagne e quei compagni che organizzarono inizialmente il comitato erano gli stessi che scendevano per le strade durante le tante manifestazioni di quel periodo. Quella categoria intera che si mise a lottare perdendo quaranta giorni di stipendio, ma emozionandosi giorno per giorno per la ritrovata unità, non era certo formata da tutti compagni, anche se lo spirito e il clima di quei tempi era molto diverso da quello attuale e culturalmente molto orientato a sinistra. Una sinistra che negli anni settanta aspirava a un vero cambiamento della società, assumendo come prioritari dei valori come la giustizia sociale, la redistribuzione della ricchezza e la solidarietà. Tutti principi che negli anni successivi gran parte della sinistra lasciò progressivamente per strada, allontanandosi dal mondo del lavoro e dagli sfruttati e trasformandosi in un buon compagno di viaggio per aziende, banche e finanzieri.

    Ci trovavamo in una fase politica e sociale non certo priva di contraddizioni, di scontri e di conflitto reale. «Non ricordo quale giorno di sciopero fosse» ricorda Carlo Gianandrea. «Ci fu un intervento da parte di Oreste Scalzone. Fu un intervento che passò inosservato dal punto di vista politico in quanto si conosceva in pochi l’attività del leader di Autonomia. Tuttavia, dimostra quanta attenzione vi fosse nei riguardi della nostra lotta, che possedeva molte affinità con le lotte e le rivendicazioni del movimento del ’77. Il 7 aprile 1979 il teorema Calogero portò agli arresti di Toni Negri, Piperno, Scalzone e di centinaia di militanti dell’Autonomia e alla normalizzazione voluta dal palazzo».

    Quelle poche migliaia di persone, riunite a prescindere dalle etichette, rappresentarono per quaranta giorni, per tante e tanti nell’intero Paese un’importante lotta collettiva nata dal basso, una possibilità di rivincita, un’ipotesi di cambiamento e una spinta emotiva alla partecipazione.

    Questo è il valore che credo storicamente dobbiamo attribuire a quegli eventi. Di sicuro in quei giorni si sono vissute contraddizioni emerse solo parzialmente, c’era chi voleva politicizzare al massimo il senso dello sciopero e chi invece vedeva tale caratterizzazione come un pericolo per l’ottenimento dei risultati prefissati, chi si preoccupava di come allargare la mobilitazione ad altre situazioni di lavoro e chi invece viveva il tutto come un fatto interno alla sola categoria, chi pur partecipando attivamente era fortemente preoccupato di cosa stava accadendo e chi si nutriva avidamente e spensieratamente dell’entusiasmo della lotta e dello stare insieme.

    Furono anni diversi dagli attuali, ma rappresentarono un’esperienza che politicamente e sindacalmente aiutò e condizionò in modo determinante le lotte che seguirono in Alitalia e le esperienze del sindacalismo di base.

    Capitolo 3

    Come sono arrivato a vivere questa lunga esperienza

    Sono nato nel 1957, l’anno in cui il primo satellite, il sovietico Sputnik 1, fu lanciato nello spazio, la prima Fiat 500 cominciò a percorrere le strade italiane e andò in onda il primo Carosello. A Parigi si riuniva la Nato e ormai in piena guerra fredda si decise di installare missili nucleari in Europa. Il socialista Nenni abbandonava le politiche di collaborazione con il PCI e iniziava lo spostamento del PSI al centro dello schieramento politico italiano.

    Ma io, cresciuto in un quartiere popolare di Roma a forza di pallone, oratorio e lunghe giornate passate nel cortile di un palazzone di otto piani, tutto questo non me lo ricordo. Ricordo invece qualche cosa del 1968, anche se avevo solo undici anni, e molto della guerra in Vietnam, non solo perché durò venti anni e fece milioni di morti, quasi tutti tra i vietnamiti, ma soprattutto perché fu uno dei tre eventi che ideologicamente, culturalmente e politicamente segnarono i giovani di quel periodo. La guerra del Vietnam, il ’68 e il ’69 e tutto ciò che quegli anni hanno prodotto a livello politico e culturale e poi la viva e profonda esperienza rivoluzionaria cubana con il Che Guevara e Fidel Castro.

    La mia età politica ebbe inizio in un periodo non certo tranquillo e pacifico dal punto di vista della dialettica politica e, come per tanti altri, da studente quando, in una scuola romana a forte presenza fascista, l’Istituto nautico di Roma, iniziai a comprendere che cosa volesse dire lo scontro, spesso violento, tra diverse posizioni. Capii ben presto da che parte stava la solita Fiat Uno blu della polizia politica, che non interveniva contro i fascisti che non ci facevano entrare a scuola. Scoprii che significato aveva la solidarietà quando si chiamava il soccorso rosso dei compagni delle scuole vicine, il Cine TV, l’Armellini, l’Istituto d’arte, per sfuggire alle intemperanze dei fascisti interni ed esterni alla scuola. Esultai quando, nel 1975, vidi esprimersi in tutta la sua forza e linearità l’incazzatura degli operai dei cantieri vicini, che a forza di vedere i compagni prendere sassate e bastonate alla fine decisero di scendere dalle impalcature e darci una mano a dare una sonora lezione ai picchiatori fascisti.

    Poi, finita la scuola, nel 1976, e mentre la lotta politica per le strade del Paese si faceva ancor più dura, le galere cominciavano a riempirsi di compagni e Lama nel febbraio del 1977 veniva cacciato dall’università, mi iscrissi alla facoltà di Medicina, ma non durò molto e a maggio dello stesso anno partii per fare il militare. Diciotto mesi in marina, di cui dodici imbarcato e sei a Roma. Sulla nave costituimmo il collettivo Potëmkin. Dopo dodici mesi di mare tra La Spezia e Taranto tornai a Roma a fare guardie su guardie a non so cosa, proprio durante il rapimento Moro. Ma quello che mi mandava in paranoia era fare le ronde per strada e quindi, con gli altri due marinai, regolarmente ci si nascondeva nei cinema per non dover fermare nessuno.

    Poi, terminato il militare, mi imbarcai per sei mesi su una nave mercantile. Non batteva bandiera panamense e neanche liberiana ma uno sbiadito tricolore. Portavamo minerale di ferro dall’Africa e dagli Stati Uniti alle acciaierie dell’Italsider. E fu proprio negli USA, a Newport News, in Virginia, vicino Norfolk, che partecipai e in parte organizzai il mio primo sciopero. Eravamo fermi in rada ad aspettare il nostro turno per attraccare alla banchina del porto e caricare la nave, ma il comandante, che non voleva farci scendere a terra, pretendeva di tenerci a bordo per fare lavori straordinari. Il terzo ufficiale di macchina, un napoletano eccezionale, comincia a parlare di sciopero e, detto fatto, si annuncia la decisione al comandante. Grande vittoria: dopo solo una trentina di minuti di sciopero, eravamo già sulle motobarche per scendere a terra.

    Ma quella vita non faceva per me e così a febbraio del 1979 andai a lavorare a Reggio Emilia insieme ai miei amici Massimo Pazzini e Mauro. Ero stato assunto come operaio metalmeccanico di terzo livello alla Lombardini Motori, nella sala collaudo dietro a una giostra alla quale erano attaccati i motori agricoli da registrare e mettere a punto, rumorosi almeno quanto i propulsori di una nave o i motori di un aereo. Quasi un anno e mezzo di lavoro, ma anche di mangiate, corse a Rimini d’estate, bevute con gli amici e lotte in fabbrica in una città che, situata tra gli Appennini e la Pianura Padana, viveva una forte espansione economica, ma anche tutte le contraddizioni di un grande Paese. Una comunità che era passata rapidamente dall’agricoltura all’industria e che conservava ancora intatta la cultura antifascista insieme a ciò che sarebbe poi diventato il brodo di contraddizioni piccolo borghesi che avrebbe portato alla fine del PCI e ai suoi tristi eredi politici. Mesi piacevoli ma anche colmi di iniziative politiche.

    Fu lì che, appena arrivato, fui accompagnato dal direttore del personale, insieme ad altri amici, in una casa dove affittavano i letti a cinquantamila lire al mese ad operai che guadagnavano meno di seicentomila. Condividevo la stanza con Massimo e Mauro, miei amici sin dalla scuola. Massimo vive ancora a Reggio Emilia, mentre Mauro resistette solo pochissimi mesi e ritornò a Roma a fare il macchinista ferroviere. Eravamo in tre in una stanza, ma in casa, se ricordo bene, eravamo undici o dodici, due o tre dei quali dormivano nel corridoio. La padrona di casa, una megera che disprezzavo profondamente e sulla quale ho riversato il mio odio di classe prima ancora che sul padrone, mise a disposizione per tutti un solo bagno e quindi in sei dovevamo lavorare nel turno della mattina e gli altri in quello del pomeriggio. Strano che oggi ci si dimentichi di queste condizioni di vita disumane, dopotutto risalgono a poche decine di anni fa e non si comprenda lo stato in cui vivono e lavorano decine di migliaia di migranti, che si spaccano la schiena nelle nostre campagne per pochi spiccioli, vivendo in baraccopoli senza futuro e subendo lo sfruttamento delle grandi aziende e della malavita organizzata.

    Fu a Reggio Emilia che per la prima volta, dopo meno di un mese di lavoro, mi ritrovai, emozionato ma contento, a parlare in un’assemblea in fabbrica davanti a mille operai. Fu lì che a causa della mia possibile elezione a delegato di reparto fui mandato in un settore di confino, la fonderia. Fu lì che poi fui eletto delegato in catena di montaggio dove organizzai scioperi e proteste insieme al Consiglio di fabbrica, ma anche senza.

    Fu lì che da romano e immigrato atipico, conobbi l’immigrazione del Sud, soprattutto napoletana e calabrese, ma anche straniera, in particolare egiziana, che veniva utilizzata nelle lavorazioni più pesanti e pericolose.

    Fu lì che da militante di Democrazia proletaria, nella terra del PCI e della CGIL, lavorai a livello politico e sindacale con altri compagni, quasi tutti provenienti dall’area dell’Autonomia e di Lotta continua, tra i quali Ilic Cervi, un nipote dei fratelli Cervi.

    Fu lì che vissi con rabbia la strage della stazione di Bologna che, avvenuta il 2 agosto del 1980, segnò forse il momento più alto della stagione delle bombe fasciste e delle connivenze tra i servizi, la malavita e la destra stragista.

    Fu lì che senza mai prenderne la tessera fui avvicinato dalla FIM, l’organizzazione CISL dei metalmeccanici, e frequentai alcuni corsi sindacali, di cui uno organizzato a Firenze, nel grande centro studi di Fiesole, dalla FIM dell’Emilia-Romagna. Ma quella allora era la FIM di Tiboni e in Emilia era quasi completamente in mano alla sinistra, a compagni che nel giro di pochi anni furono poi espulsi dalla CISL.

    Insomma, fu lì che conobbi la classe operaia, quella dei metalmeccanici, quella che aveva fatto una buona parte della storia del movimento operaio italiano. Una categoria nella quale però già erano evidenti i cedimenti e le crepe sindacali che pochi anni dopo l’avrebbero condotta alla sconfitta. E proprio in quel 1980, a Torino prese vita, si consumò e si concluse la lotta dei trentacinque giorni della Fiat. Una sconfitta che produsse un arretramento complessivo del movimento operaio italiano, che fu il frutto ed evidenziò in modo ancor più marcato la mutazione genetica di CGIL, CISL e UIL. Una trasformazione che, iniziata con la svolta dell’EUR del 1977-78, inaugurò la politica dei sacrifici e della moderazione salariale con la benedizione del PCI, che dimenticò di essere il più grande partito comunista dell’Europa occidentale.

    Nel 1981 feci domanda di lavoro all’Alitalia come tecnico di volo. Lasciai Reggio Emilia e iniziai un corso a Roma che durò oltre un anno e mezzo. Alla sua conclusione, verso la fine del 1982, l’Alitalia ci ringraziò e ci mandò a casa perché aveva venduto aerei quasi nuovi, i B727, e acquistato aerei, gli MD80,

    che non prevedevano la presenza del tecnico di volo. Quella di vendere aerei nuovi e in alcuni casi neanche arrivati a Fiumicino come aerei usati, fu un assurdo industriale, anche se la responsabilità fu del governo Spadolini, che doveva rispettare precisi impegni assunti con l’alleato d’oltre oceano. Seguirono proteste e lotte da parte di sedici ragazzi che furono denominati dalla stampa i sedici tecnici tutti d’oro, per l’enorme costo che Alitalia aveva sostenuto per la loro

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