Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Flagello dell’Est
Il Flagello dell’Est
Il Flagello dell’Est
E-book825 pagine13 ore

Il Flagello dell’Est

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Kayra e Lysanna, due giovani sorelle che vivono in una terra che non è la nostra, due giovani sorelle i cui sentimenti non sono diversi dai nostri. Non hanno mai conosciuto il mondo al di fuori del proprio rassicurante villaggio, non hanno mai visto cosa si cela nelle ombre della foresta. Per loro, le storie che gli anziani raccontano davanti al fuoco sono niente più che leggende, fiabe per tenere a bada i più piccoli… o forse no? Sono reali le maligne creature che abitano nella palude? Quale segreto si nasconde tra le rovine della vecchia torre in cima alla collina? Esiste davvero l’ancestrale magia dei druidi dell’Est? Costrette ad abbandonare la sicurezza delle proprie vite e ad intraprendere un viaggio che le condurrà a superare ogni limite conosciuto, scopriranno ben presto che i demoni da temere di più non sono quelli in agguato nel buio, ma quelli che si annidano nel profondo della coscienza di ognuno di noi. Il Flagello dell’Est è il primo capitolo di una saga fantasy avvincente e ricca di colpi di scena, la cui trama prende forma intorno ai vari personaggi che la animano, in un crescendo narrativo che, riproponendo l’atavica lotta tra bene e male, tiene il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima pagina.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2016
ISBN9788856779950
Il Flagello dell’Est

Correlato a Il Flagello dell’Est

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il Flagello dell’Est

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Flagello dell’Est - Francesco Berti

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-7995-0

    I edizione elettronica ottobre 2016

    "Ella giunge sulle ali del tempo portando la parola degli Dei.

    Figlia della Quercia.

    Seme da cui nascerà l’Albero Imperituro.

    Spezzerà le nostre catene,

    temprerà la nostra fede,

    forgerà il nostro destino."

    Muira, Veggente della Tempesta

    Prologo

    Durante un’età ormai dimenticata…

    Ykor strinse attorno al collo il logoro bavero del mantello donatogli da Jalla, sua madre-di-neve, quindi chinò la testa per affrontare le gelide lame di vento che graffiavano la piana. Per tutta la vita, prima di intraprendere il viaggio che lo aveva condotto fin là, aveva sempre immaginato che le regioni meridionali fossero un luogo dove l’estate dominava incontrastata per tutto l’anno; un luogo dove i rami degli alberi si piegavano fino a terra, curvi sotto il peso di frutta gonfia e lucente, e le messi crescevano alte e rigogliose.

    Era così che venivano dipinte le terre del sud nelle storie che gli anziani della sua tribù raccontavano prima del calare della notte, quando la neve turbinava fuori dalle tende e il vento portava con sé le spietate grida dei Senza Nome. Ed era così che quelle terre lontane erano sognate da molti del suo popolo, anche quando costoro raggiungevano un’età tale da comprendere che ben misera era la verità racchiusa in simili racconti. Eppure, credere nell’esistenza di un mondo libero dalla morsa del gelo e della paura era ciò che li spingeva a guardare avanti, a lottare, giorno dopo giorno, contro la feroce tirannia che stritolava la loro patria.

    «Nessun Dio benevolo giungerà mai ad affrancarci dal giogo che ci opprime» aveva sentito affermare da suo padre una notte di molti anni prima, durante uno degli incontri con gli altri capi tribù. «Dobbiamo essere noi a combattere per la nostra libertà

    E così avevano fatto. Dopo secoli e secoli di oppressione avevano infine trovato la forza e il coraggio per sollevarsi, per liberarsi dalle catene che erano state gettate attorno alle loro anime e prendere le armi contro i Senza Nome.

    "Eppure, ironia della sorte, è stato proprio l’intervento di un Dio benevolo a permettere che tutto questo accadesse. O per meglio dire, di una Dea…"

    All’improvviso la colonna di uomini con la quale stava marciando si arrestò e tra le fila passò rapido l’ordine di preparare il campo per la notte. Anche quella sera, come le due precedenti, non avrebbero acceso nessun fuoco. Il nemico era troppo vicino, e la segretezza era senza dubbio l’arma più affilata di cui potessero disporre.

    "L’ultima notte. L’ultima notte prima di avere l’occasione di ripagare il nostro debito."

    Ormai erano prossimi al centro di quel desolato e inospitale altopiano che da quasi una settimana tormentava ogni loro passo. Quella mattina gli esploratori avevano riferito che l’indomani avrebbero finalmente raggiunto la Frattura, la meta ultima del loro cammino, laddove il destino di tutti loro sarebbe stato deciso.

    Si guardò intorno, in cerca di un qualche accenno di vegetazione, ma tutto quello che scorse fu il grigio secco della pietra e il nero greve di un cielo prossimo alla tempesta. Nessun albero, per quanto resistente al vento e alla siccità, aveva la forza di crescere lassù, e ormai erano del tutto scomparsi anche i bassi cespugli spinosi che durante i primi giorni di viaggio avevano chiazzato la superficie dell’altipiano. Jalla gli aveva narrato leggende secondo le quali non sempre la morte aveva ammantato quella landa, ma era difficile credervi quando i tuoi occhi non assaporavano altro che una sterminata distesa di rocce aguzze e spietate.

    Verso ovest una saetta squarciò in due l’orizzonte, seguita, pochi istanti dopo, dal sordo brontolio del tuono. Nelle sue terre quelli sarebbero stati i segni dell’imminente arrivo della bufera, ma ormai aveva imparato che là le cose andavano in maniera molto diversa: nessuna pioggia avrebbe bagnato l’amara pietra sulla quale posava i piedi, né mai sarebbe cessato quel dannato vento. La venefica influenza del Guardiano dell’Ovest contaminava tanto la terra, quanto il cielo.

    "Ma da domani, tutto questo cambierà. L’alba che ci attende segnerà il sorgere di una nuova epoca, un’epoca in cui gli uomini saranno nuovamente padroni del proprio destino. Il tempo dei Serpenti è finalmente giunto a conclusione."

    Gli sguardi saldi e determinati che scorse nei volti attorno a sé gli confermarono che non era il solo a custodire nel proprio cuore una tale speranza. Nonostante il mortale pericolo verso il quale stavano marciando, nonostante quel clima innaturale capace di sferzare persino l’animo dei più valorosi, nonostante la consapevolezza di non aver davanti a sé altra scelta se non quella di prevalere, nonostante tutto, neppure la benché minima traccia di paura albergava negli occhi dei suoi compagni. E non se ne stupiva: quelli che aveva attorno erano i migliori guerrieri di tutta la Terra dell’Ormai. Appena una cinquantina di uomini e donne provenienti dai più distanti angoli del loro mondo; divisi da razza, lingua e cultura, ma uniti da un unico intento: raggiungere la Frattura e spezzare per sempre il funesto dominio instaurato su quelle terre dal Guardiano dell’Ovest. Alcuni di loro li conosceva personalmente, poiché insieme avevano affrontato sangue e morte durante la spietata lotta che aveva affrancato il suo popolo dalla tirannia dei Senza Nome. Di altri, durante il viaggio verso sud, aveva sentito narrare da voci sincere le eroiche gesta. Di tutti loro, nessuno escluso, si fidava ciecamente come del proprio fratello, poiché tutti erano stati scelti per quella missione direttamente dalla donna che li stava guidando.

    Dalia. Emissaria degli Dei. Figlia della quercia. Seme dell’Albero Imperituro.

    Il suo arrivo nelle Lande Ghiacciate era stato la scintilla in grado finalmente di far divampare il falò della ribellione. Il suo decisivo aiuto aveva poi permesso che quella stessa ribellione potesse avere successo.

    "È stato soltanto grazie all’intervento di Dalia se adesso sono vivo e se il mio popolo può infine dirsi libero."

    Da sempre la sua tribù, come molte altre delle Lande Ghiacciate, adorava Ikos, il Dio Onniveggente, ma ormai erano in parecchi a ritenere che Dalia stessa fosse una Dea. Ed in effetti, come dar loro torto, dopo che tutti erano stati testimoni dei suoi sconfinati poteri?

    "Se conoscesse i miei attuali pensieri, Muira mi farebbe fustigare nudo sotto al Picco del Vento" pensò, osservando di sottecchi l’anziana donna che gli stava vicino, intenta a preparare il proprio giaciglio per la notte.

    Muira, Veggente della Tempesta delle Lance Bianche, era stata la prima della sua tribù a ricevere le visioni che avevano annunciato la salvifica venuta di Dalia e dei suoi compagni. E tuttavia, non avrebbe in alcun modo tollerato che ci si riferisse a lei usando l’appellativo di Dea. Per Muira, Dalia era stata inviata dagli Dei per portare soccorso alla gente delle Lande Ghiacciate. Era la loro Emissaria, non una loro pari.

    «Cos’hai da guardare?» gli domandò la Veggente, senza nemmeno voltarsi verso di lui. Quella donna sembrava possedere tre paia di occhi, e c’era ben poco che riuscisse a sfuggire alla sua attenzione. «Stai cominciando a pentirti della scelta fatta?»

    «Certo che no» rispose prontamente. Quando gli altri membri della sua tribù parlavano con Muira, avevano l’obbligo di aggiungere il titolo di Veggente alla fine di ogni frase che le rivolgevano. Lui però era il capo tribù delle Lance Bianche, e sebbene mostrasse a Muira tutto il rispetto che le era dovuto, sotto molti punti di vista si considerava suo pari. La Veggente, ovviamente, non pareva pensarla a quel modo.

    «Peccato» replicò la donna, sedendosi a gambe incrociate sulla pelle che aveva steso a terra, lo sguardo fisso verso occidente, in direzione della Frattura. La sua lancia era orizzontale davanti a lei, sospesa tra le ginocchia. Nonostante potesse benissimo avere l’età per essere sua madre, Muira era ancora un’eccellente combattente. «Sinceramente, speravo che il tempo ti avrebbe mostrato la verità delle cose.»

    «Quale verità può esserci nel voltare le spalle alla donna che ci ha donato la vita?»

    A quelle parole, una fugace smorfia di disapprovazione solcò l’imperturbabile volto della Veggente. «La Figlia della Quercia, giovane Ykor, ti ha donato la libertà, non la vita. Seguirla in questa follia sarà invece ciò che ti porterà a sacrificare entrambe.»

    «Combattere l’oscurità che avvolge questa terra non può essere chiamata follia» ribatté con voce dura, serrando con forza le dita attorno all’asta della propria lancia. Suo padre era sempre stato molto bravo a trattare con la Veggente, ma da lui aveva appreso più l’abilità con la lancia, che l’eloquenza o la diplomazia. «Soprattutto se a chiedercelo è colei che gli Dei hanno inviato per liberarci dalle catene che serravano i polsi del nostro popolo. Come potremmo negarle il nostro aiuto? Con quale onore potremmo tirarci indietro?»

    «A volte la scelta più onorevole non è la più saggia» sentenziò, guardandolo finalmente negli occhi. «Dimmi, non sacrificheresti di buon grado la tua vita, se questo significasse salvare il tuo popolo?»

    «Sai che non esiterei un istante» rispose, sostenendo lo sguardo della donna. Uno sguardo gravato da una vena di malinconico rimpianto che mai prima di allora gli era capitato di scorgere in lei. Suo padre era solito affermare che la volontà di Muira fosse salda come le montagne della loro terra; tuttavia adesso era come se in quell’incrollabile volontà fosse apparsa, per la prima volta, una piccola ma significativa crepa.

    «E se per raggiungere lo stesso obiettivo fossi costretto a sacrificare la vita di queste persone?» gli chiese, accennando agli uomini che si muovevano attorno a loro. «Lo faresti? Se l’unico modo per assicurare un futuro alla tua gente fosse quello di barattarlo con la vita della Figlia della Quercia e di coloro che la seguono, quale sarebbe la tua decisione?»

    «Non capisco dove tu voglia arrivare» affermò, mentre con un cenno del capo ricambiava distrattamente il saluto che Koragan, uno dei guerrieri provenienti dalle terre dell’est, gli aveva appena rivolto.

    «Il problema è proprio questo» disse Muira. «Nessuno di voi sembra comprendere cosa sta avvenendo. Seguite tutti le parole di quella donna, abbagliati dalle sue promesse e dalla magnificenza del suo potere, e non sembrate scorgere l’abisso che si para davanti a voi.» Abbassò la testa verso terra, scuotendola mestamente. Per un attimo soltanto il vento riempì il vuoto del suo silenzio, poi, con un incerto filo di voce, aggiunse: «La morte attende tutti noi. Sfidare il Guardiano dell’Ovest è una follia che annienterà tutto quanto abbiamo faticosamente ottenuto finora.»

    Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Di tutte le persone che componevano il loro variegato gruppo, non avrebbe mai ritenuto possibile che sarebbe stata proprio la fede di Muira la più rapida a vacillare. Muira, che per prima aveva accolto Dalia e i suoi compagni nella loro tribù, benedicendo il loro arrivo; che aveva diviso con Dalia il proprio desco e il proprio letto; che davanti alle tribù riunite aveva nominato Dalia Protettrice del Nord.

    Si accovacciò vicino a lei, sperando che la fiducia delle proprie parole potesse aiutarla a superare quel complicato momento. «Non nego che il compito che ci attende domani sia irto di pericoli e di incognite, ma dobbiamo aver fiducia nella Figlia della Quercia. Lei afferma che con un attacco a sorpresa alla Frattura possiamo avere la meglio sul Guardiano, e io le credo. Hai visto anche tu di cosa è capace, e la medesima considerazione, seppur in misura minore, vale anche per i suoi compagni. Grazie al loro aiuto abbiamo finalmente l’occasione di rendere libera questa terra proprio come abbiamo fatto con la nostra. Un’occasione che potrebbe forse non ripresentarsi mai più e che, proprio per questo, non dobbiamo sprecare.»

    Se quel discorso l’aveva in qualche modo rincuorata, Muira non lo dette a vedere. Senza proferire parola, continuò ad osservare il suolo, immobile come una delle tante rocce che punteggiavano quel lugubre altopiano.

    «Nessun timore può indurmi a dimenticare l’atroce desolazione che abbiamo osservato mentre giungevamo qua» proseguì, facendo del proprio meglio per infondere le proprie parole di un calore capace di sfidare il gelo di quella landa. «Madri che uccidono i propri bambini non appena giungono al mondo perché sanno di non poterli sfamare. Uomini che si nascondono negli anfratti del terreno come bestie spaurite. Un intero popolo brutalmente reso schiavo e privato di qualsiasi barlume di speranza. Come possiamo noi permettere che avvenga tutto questo?» Si rialzò in piedi, tenendo la lancia in pugno e la schiena dritta, sfidando il vento. «Domani noi vinceremo» affermò con sicurezza. «E presto queste terre rifioriranno.»

    Muira non si mosse, ma le sue parole, seppur appena sussurrate, sferzarono le sue orecchie come il colpo di una frusta: «Entro domani, saremo tutti morti. Nessuno di noi sopravvivrà a questa notte, ma almeno il nostro popolo non rischierà il nostro stesso fato.»

    «Che cosa intendi dire?» le chiese, cominciando ad essere preoccupato per quanto stava udendo. La Veggente però non diede segno di volergli rispondere, pertanto si vide costretto a ripetere la domanda, stavolta con maggior impeto. «Per gli Dei che vegliano su di noi, Muira! Cosa intendi dire? Spiegati!»

    Finalmente, dopo un profondo respiro, la donna si decise a guardarlo negli occhi. «Esattamente quello che ho detto» fu la laconica risposta che gli fornì. «Tutti noi stanotte moriremo, poiché il Guardiano sa che stiamo arrivando e a breve la sua furia si abbatterà su di noi.»

    «Quello che affermi non ha senso» ribatté con asprezza. Aveva tentato di restare calmo e cercare di comprendere il motivo che poteva aver indotto Muira ad un simile atteggiamento, ma ormai aveva perso quasi del tutto la pazienza. «La Figlia della Quercia ha detto che il suo potere ci avrebbe tenuti al sicuro dagli occhi del Guardiano, e io le credo. E poi, è vero o no che siamo arrivati ad un passo dalla Frattura senza incontrare alcuna resistenza? Non capisco per quale motivo dovresti credere che il nemico sia al corrente del nostro attacco…»

    Gli occhi della Veggente divennero due sottili fessure, come sempre accadeva quando si accingeva a rimproverare qualcuno. «Vedi, stai di nuovo riponendo a cuor leggero la tua fede nelle mani di quella donna, e così facendo dimentichi qual è l’unico vero Dio a cui tutti noi dobbiamo amore e ubbidienza. Per nostra fortuna però, egli non ci ha abbandonati; nonostante i nostri peccati, l’Onniveggente Ikos veglia ancora su di noi. E prova ne è la visione che ho ricevuto pochi giorni fa. Grazie ad essa ho finalmente aperto gli occhi, arrivando a comprendere la verità che mi stava davanti ma che ero troppo cieca per vedere.»

    Quella rivelazione colpì il suo animo con la forza di un maglio. Per quanto ne sapeva, soltanto in altre due occasioni la Veggente aveva ricevuto visioni del futuro dal loro Dio, e ciascuna di esse aveva segnato un punto di non ritorno per la loro gente. La prima era stata poco prima che morisse suo padre. La seconda in occasione della venuta di Dalia e dei suoi compagni.

    «Ikos ha predetto la morte dell’Emissaria per mano del Guardiano dell’Ovest» gli annunciò la Veggente, con una nota di sincero cordoglio nella voce. «E una volta che tale fato sarà compiuto, quanto pensi che trascorrerà prima che l’ira del Guardiano si abbatta su tutti coloro che l’hanno seguita? Le Lande Ghiacciate verrebbero nuovamente stritolate in una morsa di terrore e oppressione, e stavolta accadrebbe per mano di un nemico ancora più temibile che i Senza Nome.» Per un istante rimase in silenzio, come indecisa sull’opportunità o meno di proseguire, poi però aggiunse: «È stata una decisione sofferta quella che ho dovuto prendere, ma non me ne pento. Qualcuno doveva fermare questa follia.»

    Nell’udire ciò, un’improvvisa consapevolezza si insinuò dentro il suo cuore, fredda e spietata come l’inverno. Alla fine, forse troppo tardi, nella sua mente tutti i pezzi di quella conversazione erano andati al loro posto, e la deduzione che ne aveva tratto gli aveva mozzato il respiro.

    «Tu… tu ci hai traditi» le disse, senza quasi credere alle proprie parole. «Hai avvertito il Guardiano del nostro arrivo.»

    Senza rispondergli, Muira scostò la lancia dal proprio grembo e la posò davanti a sé con movimenti controllati. Quindi si alzò lentamente in piedi, fronteggiandolo. Anche se era più bassa di lui di quasi un palmo, l’autorità che emanava dal suo portamento compensava ampiamente la differenza di statura.

    «Sì, l’ho fatto» ammise con calma. Non vi era vergogna o pentimento in quelle parole, soltanto cordoglio. «Ho sacrificato la vita di noi tutti per permettere al nostro popolo di sopravvivere.»

    «No!» ringhiò a denti stretti. «Non è possibile! Come hai potuto fare una cosa del genere? Come?»

    Se davvero era come diceva Muira, allora il pericolo che stavano correndo era ancora più grande di quanto aveva ritenuto all’inizio di quel viaggio. Invece di sferrare un attacco a sorpresa, sarebbero caduti dritti in una trappola mortale.

    "Forse c’è ancora qualcosa che possiamo fare per evitare il peggio. Potremmo ritirarci e aspettare un momento più propizio, o magari portare immediatamente l’attacco. In ogni caso, devo andare subito a parlare con Dalia, prima che sia troppo tardi. Di sicuro lei saprà cosa fare."

    Quasi come se avesse letto nei suoi pensieri, la Veggente scosse la testa. «Qualunque cosa tu abbia in mente di fare, ormai è troppo tardi. È già cominciato.»

    Non gli ci volle molto per capire a cosa si stesse riferendo Muira. Il vento gelido che aveva incessantemente accompagnato il loro viaggio lungo l’intero altopiano era del tutto cessato, e l’aria all’improvviso era divenuta immobile e silenziosa, come appena prima lo scatenarsi di una tempesta. Non fece neppure in tempo a considerare le implicazioni di quel fatto, che dai guerrieri attorno a sé alcune voci si levarono più alte del normale. Pur non comprendendo perfettamente cosa stessero dicendo – le lingue parlate nel loro gruppo erano tanto eterogenee quanto i colori della loro pelle – il suo sguardo fu attratto verso l’alto, laddove spessi nembi avevano cominciato a turbinare in circolo proprio sopra le loro teste. Nembi che nel giro di pochi secondi abbandonarono il proprio plumbeo grigiore per tingersi di incandescenti tonalità rosse ed arancioni, come se ad un tratto il loro posto fosse stato occupato dall’impetuoso tramonto di un sole autunnale. Per un attimo rimase abbacinato da un simile veemente fulgore, quindi i cancelli dell’abisso si spalancarono sopra tutti loro: una colonna di puro fuoco, larga quanto l’intero perimetro dell’accampamento, precipitò dall’alto del cielo, rapida e letale come un serpente.

    "Aveva ragione Muira realizzò, osservando con orrore le bianche lingue di fuoco fuso che si avventavano verso di lui, pronte a dilaniare la sua carne. Soltanto un folle può sperare di opporsi ad un simile potere."

    Appena prima di essere investito dalle fiamme, chiuse gli occhi, preparandosi al dolore che sarebbe giunto.

    Quel dolore, però, non arrivò mai.

    Parte I

    SORELLE

    "Affidati al cuore.

    Col cuore riconoscerai il volto della donna degna della spada.

    Col cuore l’amerai, più della tua stessa vita, al di là della morte.

    Col cuore ti donerai a lei, per l’eternità."

    Quinn Salt

    Capitolo 1

    "È pensiero comune che la storia dei quattro Reami inizi con l’Età della Frattura e giunga fino ai giorni nostri, eppure, come spesso accade quando il pensiero comune entra in contatto con la storia, tale convinzione è intrinsecamente errata. Ma badate bene, non è nel principio dei fatti che risiede il fraintendimento, bensì nella loro conclusione: quelli che al giorno d’oggi vengono comunemente definiti come i quattro Reami altro non sono che le decadenti e fiacche vestigia dei possenti regni sorti in seguito allo sgretolarsi dell’impero Sandorin."

    Autore sconosciuto, Riflessioni sulla Terra dell’Ormai

    Kayra si svegliò quando le tenebre della notte non avevano ancora cominciato a diradarsi. Come spesso le accadeva, aveva dormito non più di qualche ora, eppure era già perfettamente lucida. Intorno a lei la Grande Foresta sembrava immersa in un vigile sonno, soltanto gli sporadici richiami di qualche rapace notturno si levavano lontani ad incrinare l’immobile silenzio. Quella notte, nemmeno il più impercettibile refolo di vento increspava il denso e torbido mare di fogliame che da quasi ormai una settimana aveva con prepotenza rubato il posto al cielo.

    I suoi occhi celesti, una volta abituatisi all’oscurità che l’avvolgeva, si posarono sulla sagoma della giovane donna che, accovacciata a pochi passi da lei, ancora riposava nell’incavo creato dalle nodose radici di un imponente acero. Avvolta in uno sporco mantello color fuliggine che lasciava scoperta soltanto la testa dall’arruffata capigliatura vermiglia, sembrava scossa dai tremiti convulsi di chissà quale terribile incubo.

    Si avvicinò alla ragazza senza fare il minimo rumore, inginocchiandosi con cautela a fianco del giaciglio in cui era coricata. Contemplò il suo volto per alcuni istanti, preda di emozioni e sentimenti contrastanti, poi, con fare materno, ravviò una delle molte ciocche di capelli che le erano scivolate sulla fronte, ben consapevole, purtroppo, che quel gesto affettuoso non avrebbe potuto in alcun modo lenire le pene che affliggevano il suo animo.

    Immobile nel nulla della notte, rimase ad osservarla mentre dormiva e, a poco a poco, senza che potesse fare niente per opporvisi, i suoi pensieri scivolarono per l’ennesima volta alle crudeli ore di appena qualche giorno prima, ore durante le quali aveva assistito all’impietoso sgretolarsi del mondo così come lei lo aveva sempre conosciuto.

    Era la notte della festa di fine estate ed era anche la vigilia del suo diciannovesimo compleanno. Una sola parola le risuonava incessantemente nella mente: sciocca. In quale altro modo infatti avrebbe potuto definirsi dopo che, come una sprovveduta, si era fatta così facilmente mettere nel sacco?

    Era rientrata a casa presto quella sera, ben prima del calare del sole. A causa degli imminenti festeggiamenti, quel pomeriggio l’addestramento delle teste di legno – questo era il modo in cui era solita riferirsi alle giovani reclute – era durato meno del solito e Jerold, l’istruttore di spada che affiancava, l’aveva rispedita a casa prima del tempo, incurante delle vibranti obiezioni da lei sollevate. Aveva tentato di tutto pur di riuscire a farsi affidare qualche altro compito per quella sera, si era addirittura offerta volontaria per la pulizia dei recinti, ma l’anziano ranger non aveva voluto sentir ragioni.

    «Vai a casa ad aiutare tua madre con i preparativi!» le aveva intimato bonariamente, quando aveva visto che non sembrava intenzionata a deporre la spada da addestramento. «Qui abbiamo finito per oggi.»

    E dire che si sarebbe accontentata di qualsiasi cosa, anche del lavoro più umile e ingrato, pur di non essere costretta ad accompagnare la madre e la sorella alla festa di fine estate. Il solo pensiero di tutti i volti sorridenti e felici che l’avrebbero circondata la faceva stare male, le annodava lo stomaco in una ferrea morsa forgiata sull’incudine del rimpianto.

    Eppure, appena l’anno precedente il suo stato d’animo era stato ben diverso: anche per lei, come per ogni altra donna o uomo di Lungofiume, la festa di fine estate era stata un avvenimento magico e indimenticabile. C’erano stati i balli nella piazza principale, c’erano stati i tradizionali canti accompagnati dal liuto di Gal e di suo figlio Paul, c’erano state le storie attorno alla Buca della Luna e i giocosi scherzi dei ragazzi più giovani. Ma, soprattutto, c’era stato lui, ed era quella l’unica cosa che contava per lei. Nell’arco di un anno però, tutto era cambiato: stavolta lui non ci sarebbe stato, non sarebbe stato al suo fianco, e allora perché far finta di essere felice, perché festeggiare?

    Quando quella sera aveva varcato la soglia di casa, aveva trovato sua madre affaccendata in cucina, intenta nella preparazione di chissà quale infuso curativo; tuttavia, non appena l’aveva sentita rientrare, Selynse aveva subito interrotto il proprio lavoro e le si era fatta innanzi, ponendole a bruciapelo la fatidica domanda che tanto avrebbe voluto evitare. «Allora? Hai preso una decisione per stasera?»

    In realtà, non aveva mai apertamente esposto alla madre le proprie angosce riguardo la festa, ma Selynse era così, sembrava avere il sovrannaturale dono di intuire qualsiasi pensiero le passasse per la mente, specie se tali pensieri la turbavano o mettevano di malumore.

    «Sì, ho deciso» le aveva risposto, sedendosi alla piccola e scura tavola di noce al centro della cucina. «Non verrò.» Poi, quasi a voler giustificare la decisione presa, senza mai guardare la madre negli occhi, ma continuando piuttosto a fissare il cucchiaio di legno e la ciotola vuota che aveva davanti, aveva aggiunto: «Domani devo essere di pattuglia nella foresta, alle prime luci dell’alba. Sembra che degli animali selvatici, forse una coppia di linci, abbiano creato scompiglio alla fattoria dei Puc; hanno già perso due galline e, come puoi immaginare, Lester non ha mancato l’occasione per lamentarsi col Consiglio.»

    «Lo sai come è fatto Lester» aveva commentato Selynse, scuotendo la testa, «si agita per un nonnulla. E sua moglie non è meglio di lui…»

    «Già. Anzi, forse è pure peggio di lui!»

    A quelle parole erano poi seguiti alcuni attimi di silenzio, attimi durante i quali aveva sentito su di sé tutto il peso dello sguardo indagatore della madre. In quel frangente, continuare il meticoloso esame del cucchiaio che teneva tra le mani le era parsa senza dubbio la scelta migliore.

    «Hai fame?» le aveva infine domandato Selynse, mostrando saggezza nel decidere di cambiare argomento. Capiva sempre quando non era il caso di insistere.

    «Sì, molta» aveva prontamente risposto, ben lieta di non dover aspettare oltre per poter andare finalmente a rifugiarsi nella propria stanza, lontana da chiunque altro potesse avere intenzione di conversare con lei. «Se non ti spiace, metto qualcosa sotto i denti adesso, tanto immagino che tu e Lys mangerete in paese con gli altri. Così dopo finisco di sistemare il gradino in cima alla scala e vado subito a letto… sono esausta.»

    Nonostante sua madre l’avesse guardata di sottecchi, come spesso soleva fare quando aveva qualcosa da ridire, alla fine però, con suo grande sollievo, era rimasta in silenzio. Si era limitata a riempirle la ciotola con un paio di ramaioli di una densa zuppa a base di avena e a prendere dalla madia una delle pagnotte di segale che aveva sfornato quella mattina; poi si era seduta sulla sedia accanto alla sua, per tenerle compagnia.

    Il pasto, tuttavia, non era andato esattamente nel modo in cui si era attesa. Non aveva neppure fatto in tempo a mandar giù un paio di cucchiai della zuppa, che già la testa le si era fatta pesante. Sebbene si fosse subito resa conto che qualcosa non andava e avesse provato ad alzarsi, il torpore l’aveva avvinghiata a sé come un amante il cui abbraccio non può essere rifiutato. Un istante prima di crollare con la testa sul tavolo, i suoi pensieri erano corsi rapidi alla madre, che l’osservava senza fare niente, con uno sguardo a metà tra la preoccupazione e la soddisfazione. Era più che certa che Selynse avesse mischiato alla zuppa qualcuno dei suoi strani intrugli da erborista, ma per quale motivo? Perché l’aveva drogata in quel modo? Perché ingannare così la propria figlia?

    Poi tutto si era irrimediabilmente fatto scuro e lei era scivolata nel buio dell’incoscienza.

    Quando aveva ripreso i sensi, chissà quanto tempo dopo, quelle stesse domande le martellavano ancora nella testa, pesante e fragile come un coccio di argilla.

    Non sapeva dove si trovasse, ma di certo non era più a casa sua. Qualcuno la stava trasportando sulle spalle come un sacco, cingendola all’altezza della vita con un solo possente braccio, in modo che non rischiasse di cadere accidentalmente a terra. Aveva gli occhi bendati da una spessa fascia di panno e le mani le erano state legate dietro la schiena con una fune, non tanto stretta da ferirle i polsi, ma comunque abbastanza da impedirle di liberarsi. Sebbene i suoi occhi non fossero in grado di vedere, udito e olfatto erano acuti e sviluppati come sempre; si concentrò alcuni istanti per liberare in modo definitivo la mente dal torpore della droga, e isolò quanto più possibile i suoni e gli odori attorno a sé, proprio come lui le aveva insegnato.

    "Beh, almeno non mi hanno legata con l’intento di trascinarmi a forza alla festa..."

    Certo era infatti che, a giudicare dal rumore di arbusti spezzati e foglie calpestate, si trovavano nel folto della Grande Foresta, probabilmente non molto lontano dal villaggio di Lungofiume. I suoi improvvisati carcerieri erano tre uomini. Anzi, a giudicare da alcuni passi più leggeri, confusi insieme agli altri, dovevano essere tre uomini accompagnati da una donna o da un ragazzetto poco robusto.

    "No, si tratta decisamente di una donna arrivò a concludere quando le giunse alle narici una tenue fragranza di rosa selvatica, del tutto simile a quella che Selynse utilizzava per profumare gli abiti di sua sorella Lysanna. Le camminava così vicina che poteva sentirne con chiarezza il respiro, un poco più affannato rispetto a quello degli altri tre compagni. Il respiro di chi non è per niente abituato a marciare... vero sorellina?"

    Lo stesso non si poteva certamente dire dell’uomo che la stava trasportando: doveva essere alto poco meno di sette piedi e, a giudicare dalla facilità con la quale procedeva nonostante il peso aggiuntivo del suo corpo, forte più di un toro. "Peccato puzzi anche come un toro..."

    Gli altri due membri del gruppetto invece, erano sicuramente dei combattenti addestrati, suoi compagni ranger dunque: poteva nitidamente distinguere il rumore dei foderi delle spade lunghe che venivano urtati mentre avanzavano e il pungente aroma degli unguenti utilizzati per trattare il cuoio delle corazze. Spade di ferro o acciaio, non le spade da addestramento usate dalle teste di legno.

    "Se mia sorella è qui, di sicuro uno dei due ranger è Keilo. E quindi questa specie di toro che mi sta trasportando è senza ombra di dubbio Bor."

    Sulla base dell’andatura tenuta, si era ben presto resa conto che stavano procedendo su di un terreno scosceso, in salita, quasi di sicuro in direzione est rispetto al villaggio. Quando ad un tratto udì in lontananza il ritmico suono di acqua corrente, fu finalmente in grado di capire con esattezza dove si trovava. Non era il familiare e roboante rumore del fiume Iv-arat, l’imponente corso d’acqua lungo la cui sponda sorgeva il villaggio di Lungofiume, bensì l’incedere vivace delle spumeggianti acque di un torrente. E l’unico torrente che scorresse in quella parte della Grande Foresta era quello che solcava le ripide pendici di Colle della Strega, ormai senza ombra di dubbio la meta finale del loro cammino.

    «Manca ancora molto?» domandò ad un tratto, con voce ansante, l’unica donna del gruppo. Una voce che conosceva fin troppo bene.

    "Lys, come immaginavo."

    «Zitta!» le rispose sottovoce uno dei ranger. «Potrebbe essersi già svegliata.»

    "Ed ecco Keilo."

    «Impossibile» ribatté sua sorella. «Le erbe che mia madre le ha messo nella zuppa avrebbero fatto dormire per qualche ora persino un bue. D’accordo che mia sorella, sotto molti punti di vista, è una persona eccezionale, ma prima di un’altra mezz’ora non sarà sicuramente in grado di svegliarsi. E comunque, nemmeno voglio prendere in considerazione questa possibilità. Non oso pensare a quale sarebbe la sua reazione se si svegliasse prima che fossimo arrivati!»

    "Ah, la mia dolce e ingenua sorellina!"

    Da sempre, assieme alla madre, sua sorella Lysanna rappresentava tutto ciò al mondo a cui era più strettamente legata. Del padre, morto prima che Lysanna venisse alla luce, il ricordo era ormai talmente sbiadito da dissolversi come fumo nelle nebbie del tempo; pertanto, tutta la sua famiglia era interamente formata da quelle due donne straordinarie, donne per le quali avrebbe senza alcuna esitazione dato la propria stessa vita. Ad ogni buon conto comunque, i sentimenti che provava per Lysanna non le avrebbero certo impedito di fargliela pagare cara per quel singolare scherzo che aveva architettato ai suoi danni. "Oh, se te la farò pagare cara, Lys! Ti farò scontare ogni singolo istante in cui mi hai fatto trasportare come una balla di fieno! Lascia soltanto che mi liberi…"

    E tuttavia, nonostante la scomoda e umiliante condizione nella quale l’avevano costretta, doveva ammettere che la situazione la incuriosiva alquanto. Per quale ragione l’avevano legata e bendata? E perché la stavano trasportando a Colle della Strega proprio la sera di fine estate, quando per giorni avevano tentato di convincerla a partecipare ai festeggiamenti?

    Se Keilo, uno tra i più capaci ranger di Lungofiume, nonché amico di lunga data, aveva accettato di prestarsi a quella farsa, allora voleva dire che in tutta quella storia c’era anche lo zampino di sua madre. Lysanna, da sola, non sarebbe mai riuscita a convincerlo a fare una cosa tanto sciocca; d’altro canto, Selynse possedeva innate doti persuasive che la lasciavano sempre di stucco. Keilo doveva aver poi coinvolto Bor, l’unico uomo a Lungofiume che potesse riuscire a trasportarla in spalla per tutto quel lungo tragitto nella foresta. Non aveva ancora idea di chi fosse l’altro ranger che era con loro, ma non si sarebbe meravigliata se si fosse trattato di Yole, uno dei cugini di Keilo, oppure di Jerv, suo scontroso ma inseparabile amico. Ormai aveva comunque poca importanza: nel giro di pochi minuti era certa che avrebbe avuto una risposta per ognuna delle molte domande che le si accalcavano nella testa.

    Il cammino in salita durò infatti non oltre una decina di minuti, anche se a lei sembrarono ben più di un’eternità, tanto era fastidiosa la posizione nella quale si trovava costretta. Infine il gruppetto percorse un ampio tratto di terreno pianeggiante, segno sicuro che finalmente erano giunti alla radura sulla sommità di Colle della Strega.

    Senza ombra di dubbio, quella dolce saputella di sua sorella Lysanna avrebbe conosciuto con dovizia di particolari ogni leggenda, storia e aneddoto che riguardasse quel luogo ammantato di mistero e superstizione. Per lei invece, Colle della Strega era semplicemente un’altura sperduta nella verde immensità della Grande Foresta, una solitaria collina sulla quale sorgevano gli imponenti resti di un’antica fortificazione ormai da lungo tempo abbandonata. Circa sessant’anni prima, all’interno di quelle mura adesso in rovina, gli abitanti di Lungofiume avevano messo al rogo una strega, una delle più infide creature figlie dell’Oscuro. Adesso, dopo oltre mezzo secolo da quei tragici avvenimenti, tutto ciò che rimaneva di quell’avamposto militare era un nudo scheletro di roccia, ancora annerito dalla violenza delle fiamme. In pochi si avventuravano lassù, e mai da soli, poiché era convinzione diffusa che i resti della fortezza fossero un luogo infausto. La vegetazione tuttavia, incurante delle dicerie di paese, da tempo si era fatta largo attraverso le mura esterne, invadendo senza timore alcuno gran parte dei locali inferiori. Rovi e graminacee avevano preso il posto di arazzi e tappeti, ammantando il suolo e le pareti con il loro caotico intreccio, mentre tra le macerie che ingombravano il salone principale sorgeva adesso il candido tronco di una snella betulla.

    Finalmente, con suo sommo sollievo, il grosso energumeno che la teneva in braccio la posò con gentilezza sul terreno già inumidito dalla rugiada notturna. L’aria della sera era piacevolmente mite e un’esile brezza spirava leggera accarezzandole il volto. Dopo alcune sommesse frasi di cui non colse il significato, sentì il gruppetto che l’aveva trasportata fin lì allontanarsi in tutta fretta, quindi tutto fu avvolto dal silenzio della notte.

    Decise di rimanere immobile alcuni istanti, distesa sul terreno, attendendo pazientemente di scoprire quale fosse la sorpresa che le avevano preparato i suoi amici, anche se, adesso che se ne erano andati lasciandola sola, ognuna delle ipotesi che le erano precedentemente passate per la testa sembrava assolutamente improbabile e fuori luogo.

    Poi, all’improvviso, udì dei passi. E capì.

    Era ancora bendata e non vedeva la persona che le si stava avvicinando, tuttavia avrebbe potuto riconoscere quella camminata anche tra mille.

    "Trevorn."

    Fu travolta da una moltitudine di emozioni contrastanti: la rabbia e il rancore iniziali si fusero in un istante con il sollievo e la gioia, e per un attimo non seppe se aprire finalmente il proprio cuore all’amore di un tempo o indurirlo nuovamente come aveva fatto in quel lungo periodo di lontananza. Era infatti da oltre due cicli che non vedeva Trevorn, da quando cioè il capitano dei ranger aveva improvvisamente deciso di mettersi alla guida del gruppo di uomini che sarebbe partito alla volta di Stibb, il piccolo villaggio di pescatori che sorgeva lungo il fiume, al limitare della Grande Foresta, laddove avevano inizio le paludi di Ka Vhil.

    Non era stato un addio sereno il loro, anzi, lei non aveva neppure voluto essere presente nel momento in cui la spedizione aveva lasciato Lungofiume. A quel tempo, il ricordo di quando aveva sorpreso Trevorn alla taverna del Pescegatto, completamente ubriaco e avvinghiato tra le braccia, e alle labbra, di quella sgualdrina di Serina, era stato una ferita ancora troppo dolorosa e lacerante da potersi tollerare.

    Una donna più remissiva e meno orgogliosa di lei forse avrebbe perdonato subito il proprio uomo, o almeno di certo l’avrebbe perdonato con maggiore facilità; al massimo avrebbe fatto una scenata, ma poi alla fine l’avrebbe comunque scusato, gettandosi alle spalle l’accaduto e facendo buon viso a cattivo gioco. In fondo, lui era Trevorn Salt, primogenito della famiglia più importante e influente di Lungofiume, capitano dei ranger della guardia cittadina e, pertanto, anche suo capitano.

    Lei, però, non era una donna remissiva. Né, tanto meno, era incline ai facili perdoni.

    Per giorni e giorni amici comuni avevano invano provato a farla riflettere, invitandola a discutere di persona con lui per chiarire quello spiacevole episodio. Lo stesso Trevorn, messo da parte il proprio orgoglio di uomo abituato all’altrui ubbidienza, si era recato da lei durante il mercato nella piazza principale, per scusarsi pubblicamente di fronte a tutto il paese. Anche in quella occasione però, non aveva sprecato per lui che un’occhiata carica di rancore.

    «Perché non vai a farti consolare dai baci di quella puttana?» gli aveva detto con un disprezzo e una durezza che avevano sorpreso chiunque fosse presente. «Per quanto mi riguarda, tu rimani il mio capitano, ma l’uomo che amavo è morto per sempre

    Erano state quelle, due cicli prima, le ultime parole che si erano scambiati. Quello l’inconsapevole saluto che lei gli aveva rivolto prima che lui, cogliendo tutti quanti di sorpresa, decidesse di partire.

    E ora Trevorn era tornato a Lungofiume.

    Ben prima di quanto fosse previsto. Ben più tardi di quanto lei avesse desiderato.

    "È tornato per me."

    L’improvvisa rivelazione fece sussultare il suo cuore più di quanto si sarebbe attesa, e al tempo stesso scatenò in lei una moltitudine di interrogativi.

    Perché Trevorn aveva già fatto ritorno e nessuno le aveva comunicato la notizia? E da quanto era rientrato a Lungofiume? Non doveva essere trascorso molto tempo dal suo arrivo, altrimenti in paese la notizia del rientro del capitano dei ranger si sarebbe subito diffusa come polline nel vento. Ma perché non metterla immediatamente al corrente del suo ritorno? Era forse rimasto ferito? Evidentemente no, se si trovava lì e aveva organizzato lui tutta la farsa di cui era stata oggetto fino ad allora. Ed era tornato da solo, affrontando un viaggio di quasi due settimane attraverso la foresta? Era previsto che il gruppetto di uomini da lui guidato non sarebbe rientrato che tra un paio di settimane almeno; come poteva lui trovarsi lì, in quel momento?

    Il rapido fluire dei suoi pensieri fu interrotto dalla consapevolezza che la persona che aveva sentito avvicinarsi si stava adesso inginocchiando accanto a lei.

    «Lo so che sei sveglia» affermò una voce che conosceva fin troppo bene. «Ti ho osservata troppe volte, mentre dormivi davvero, per non capire che adesso stai fingendo.»

    La corda che le legava i polsi venne sciolta e lasciata cadere al suolo, poi le fu tolta anche la benda, e lentamente i suoi occhi poterono riabituarsi alla luce della luna piena. Come aveva intuito, davanti a sé, dopo due interminabili cicli, c’era finalmente la persona che da sempre occupava un posto speciale nel suo cuore.

    Vestito con abiti che parevano aver affrontato un arduo viaggio, Trevorn era in piedi ad un passo da lei, con la mano tesa per aiutarla ad alzarsi da terra. Sopra la sottoveste di lino verde indossava l’usuale corpetto di cuoio borchiato, ricoperto da scaglie di rame, che lasciava scoperte le braccia abbronzate e muscolose. Dall’ampia schiena, assicurato con una cinghia, pendeva il fodero di Artiglio dell’Aquila, la sua inseparabile e letale spada lunga, arma che si diceva la famiglia Salt tramandasse di padre in figlio da oltre dieci secoli. I pantaloni di fustagno erano sporchi e logorati in numerosi punti, ma con sollievo le bastò una rapida occhiata per giudicare che fossero più i segni lasciati dal viaggio, che non le tracce di uno scontro. Un paio di stivali di cuoio trattato, anch’essi duramente messi alla prova dalla lunga marcia sostenuta, completavano lo spartano abbigliamento.

    Trevorn le sorrise amabilmente, con quel suo modo un po’ ruffiano che al tempo stesso tanto le piaceva e tanto la faceva infuriare. Per il momento non ricambiò il suo sorriso, ma ne sostenne lo sguardo impertinente, uno sguardo che ogni volta la faceva sentire come nuda davanti a quei penetranti occhi color dell’autunno.

    «Mi dispiace molto per tutta questa incresciosa situazione» si scusò con lei, continuando a tenderle il braccio, «e per il modo in cui ti hanno dovuto portare fin qua, ma sai bene quanto possa essere difficile avere una conversazione con te...»

    Ancora preda di emozioni troppo impetuose per riuscire a parlare, anziché rispondergli, si limitò ad alzarsi in piedi, rifiutando però l’aiuto che lui le aveva offerto. In quel momento era certa che, se anche solo avesse provato a proferir parola, la sua voce si sarebbe sciolta in un pianto liberatorio, e questo non voleva assolutamente che accadesse. Non voleva mostrarsi debole ai suoi occhi, consentirgli di scorgere la sanguinante ferita che ancora sentiva aperta nel proprio cuore. E, soprattutto, non voleva si rendesse conto di quanto violenti, contrastati e tumultuosi fossero i sentimenti che provava per lui.

    "Non gli darò mai questa soddisfazione."

    Fece di tutto per non tradire alcuna emozione anche quando, con estrema preoccupazione, notò che un taglio superficiale non del tutto cicatrizzato aveva preso il posto dell’estremità del suo sopracciglio destro. A quella vista, una parte di lei avrebbe voluto gettarsi senza indugio tra le sue possenti braccia, stringerlo a sé e alleviare con mille dolcissimi baci ogni suo affanno. Avrebbe voluto sentire la barba ispida di lui sulle proprie guance e passargli con affetto le mani tra i capelli. Avrebbe voluto assaporare il suo respiro. Avrebbe voluto… ma non lo fece: come spesso le accadeva, quella parte di lei, il lato più tenero e romantico del suo carattere, perse l’ennesima battaglia contro l’impenetrabile fortezza del suo orgoglio. Quando finalmente tornò padrona di sé, non furono caldi abbracci l’accoglienza che riservò all’amato, bensì fredde e dure parole che fendettero l’aria come lame di ghiaccio.

    «Credi forse che presentarti qui all’improvviso, dopo essertene andato via per tutto questo tempo, cambi qualcosa tra noi? Per quanto mi riguarda, puoi tornare immediatamente da dove sei venuto. E stavolta, per favore, porta via con te anche la tua amichetta... resistere ogni giorno alla tentazione di spaccarle la faccia è stato più di quanto fossi in grado di sopportare.»

    Trevorn continuò a fissarla negli occhi e, se rimase ferito dall’asprezza di quelle parole, fu abile nel non darlo a vedere. «Quante volte dovrò ripeterti che non c’è giorno in cui mi svegli e non rimpianga quello che ti ho fatto?» La sincerità della sua voce era talmente disarmante da non poter essere messa in discussione.

    «Puoi pure continuare a ripetermelo finché vivrai, ma non cambierà mai nulla.» "È giusto che adesso tu soffra, esattamente come hai fatto soffrire me." «Come non cambierà nulla il fatto che tu sia tornato a Lungofiume.»

    Anche stavolta, il capitano dei ranger incassò il colpo senza lasciarsi scoraggiare. «Se sono tornato prima, è soltanto perché non sarei voluto mancare per niente al mondo al tuo diciannovesimo compleanno» le spiegò con calma, come se per lui fosse la cosa più naturale affrontare un viaggio di quasi quindici giorni attraverso la Grande Foresta soltanto per festeggiare il giorno della sua nascita. «E poi, sinceramente, speravo che durante la mia assenza fossi riuscita, almeno in parte, a perdonarmi... ma mi sembra evidente che così non è stato.» Per la prima volta da quando le aveva tolto la benda, Trevorn distolse per un attimo il proprio sguardo dal suo. «Adesso però, forse mi rendo conto di aver commesso un grosso errore tornando. Domani, all’alba, se questo è ciò che desideri, partirò di nuovo... verso sud stavolta, per non tornare più. In fondo, se non mi ami, non c’è niente che mi trattenga in questo luogo…»

    "Stupido, io ti amo. Come potrei mai desiderare che tu te ne vada? La sola cosa che vorrei adesso è baciarti fino a toglierti il fiato e sentire il calore del tuo corpo sulla mia pelle!" Parole mai pronunciate, bensì spazzate via in un attimo dal ricordo delle lascive labbra di Serina unite a quelle dell’uomo che le stava di fronte, l’uomo che aveva amato e che ancora amava con tutta se stessa. Serina, quella puttanella da quattro soldi, stava avvinghiata al corpo dell’uomo al quale aveva donato il cuore, con le mani bramose insinuate sotto la sua maglia, su quel petto virile e perfetto sul quale neppure avrebbe dovuto permettersi di posare lo sguardo. E tutti gli altri avventori della taverna assistevano allo spettacolo, divertiti e compiaciuti, troppo ubriachi e ottusi per riuscire a comprendere che in quel modo Trevorn non stava asserendo la propria autorità di maschio, bensì distruggendo quanto di migliore aveva in sé.

    "Come hai potuto farmi una cosa del genere? Come? Come hai potuto tradire così la mia fiducia?"

    «Non mi interessa minimamente ciò che farai» gli rispose, sforzandosi di continuare a fingere un freddo distacco che sempre più andava vacillando sotto i colpi congiunti della collera e dell’amore. Ogni volta che lo guardava, avvertiva un peso enorme che le opprimeva il petto, il peso debilitante di tutte quelle emozioni contrastanti che così a lungo era riuscita a confinare nel profondo del proprio animo. «Se vuoi partire, parti, non sarò certo io ad impedirtelo. Se però decidi di restare, non ti azzardare più, come hai fatto stasera, a coinvolgere la mia famiglia nei tuoi stupidi giochetti!»

    «Hai ragione» ammise lui, «forse non dovevo cercare aiuto da tua sorella, ma non sapevo in che altro modo fare per convincerti a parlare con me, per convincerti ad ascoltarmi...»

    Ascoltarlo. E cosa avrebbe mai potuto dire a sua discolpa, a giustificazione dell’infame affronto che le aveva recato?

    Niente.

    Nessuna scusa sarebbe mai riuscita a toglierle da davanti agli occhi l’immagine delle labbra di Serina unite alle sue. «Potevi risparmiarti tanta fatica allora: niente di ciò che puoi dire cambierà mai quanto è avvenuto.»

    «Se potessi tornare indietro e comportarmi diversamente, non credi che lo farei subito? Ciò che è successo non può più essere disfatto, lo capisco, ma questo non significa che io non desideri comunque lottare con tutte le mie forze per cercare di rimediare all’errore che ho commesso!»

    «Dovevi pensarci prima!» gli gridò in faccia, senza più riuscire a reprimere il proprio rabbioso rancore. «Prima di tradirmi con quella puttana! Prima di umiliarmi di fronte a tutti! Prima di fare a pezzi il mio cuore e gettarlo in pasto ai cani!»

    Non aveva più senso mentire ancora a se stessa, negare ciò che provava. Amava ancora Trevorn, lo amava con ogni stilla del proprio essere, ma al tempo stesso non poteva fare a meno di odiarlo: lo odiava per averla tradita, per averla ferita, per averla umiliata. E, soprattutto, ed era questo che non riusciva in alcun modo a perdonarsi, lo odiava perché quel tradimento le aveva finalmente fatto comprendere quanto in realtà fosse diventata dipendente da lui, quanto l’amore che provava nei suoi confronti l’avesse avviluppata con lacci invisibili dai quali sentiva di non avere ormai la forza di liberarsi. Lei, sempre così capace di badare a se stessa, sempre così indipendente, tremava al pensiero di aver permesso ad un uomo di farla così totalmente propria, anche se quell’uomo era un individuo eccezionale ed unico come Trevorn.

    "Io non ho bisogno di nessuno!"

    Eppure sapeva che anche quel pensiero era soltanto un altro puerile tentativo di ingannare se stessa, l’ennesima menzogna raccontata senza convinzione al proprio cuore.

    «Mi dispiace, non volevo» sussurrò Trevorn, con un filo di voce, avvicinandosi a lei. «Non era mia intenzione ferirti…»

    A quelle parole, odio e rancore presero infine il sopravvento: il pugno che sferrò colpì Trevorn in piena faccia, anche se così facendo riuscì forse a causare più dolore al proprio animo che non a lui.

    «Non azzardarti a prendermi in giro! Certo che era tua intenzione ferirmi!»

    «No, non lo era» ripeté lui con rinnovata convinzione, per niente scosso o intimorito dal pugno ricevuto.

    Lo colpì allora di nuovo, più forte di prima, e stavolta con il deliberato intento di fargli del male. Quando Trevorn, ripresosi dal colpo, tornò a guardarla, la sua bocca era sporca di sangue. Anche se gli aveva appena spaccato un labbro, lui comunque non sembrava affatto in collera con lei.

    «Ripetilo, se hai il coraggio!» gli ringhiò contro, le dita serrate a pugno e lo sguardo incendiato dall’ira.

    «Su Avanna, ti giuro che non era mia intenzione ferirti.»

    "Io invece ne ho tutte le intenzioni" pensò mentre sferrava un terzo pugno diretto, come i due precedenti, al volto dell’amato. Stavolta però, Trevorn non restò a guardare: anticipando la sua mossa, schivò da un lato con la testa e al tempo stesso con il proprio braccio intrappolò il suo. Poi, con sorprendente rapidità, si portò dietro di lei, torcendole il braccio destro e afferrando contemporaneamente il sinistro.

    «Se mi spezzi la mascella non sarò più in grado di parlare e non potrò scusarmi con te» le disse, avvicinando la propria bocca dietro il suo orecchio, mentre con le braccia la teneva immobilizzata.

    «L’idea era quella!» ribatté lei, tentando inutilmente di divincolarsi dalla ferrea morsa nella quale la teneva prigioniera. Era furiosa sia con lui, che con se stessa, per essersi fatta bloccare così ingenuamente. Ciononostante, una parte di lei non poteva fare a meno di essere percorsa da brividi di eccitazione per il semplice fatto che i loro due corpi si trovassero così vicini l’uno all’altro; brividi da troppo tempo non assaporati e che adesso, senza che se ne rendesse pienamente conto, stavano già cominciando a minare le fondamenta del rancore che provava nei suoi confronti.

    Trevorn, intanto, continuava a parlarle nell’orecchio, il tono calmo e la voce appena più alta di un sussurro, quasi che la foresta avesse orecchie proprie e lui non volesse condividere con essa l’importanza delle proprie parole. «Tutti i pugni che deciderai di darmi non potranno mai farmi provare il medesimo dolore che io ho inflitto a te.»

    «Questo è vero, però magari riuscirebbero a farmi stare meglio!» gli rispose, facendo di tutto per non cedere alle sensazioni che sentiva avvampare dentro sé. Perché bastava il caldo alito della sua bocca sul collo, per farla tremare di piacere? Come faceva la sua sola presenza ad avere sempre quell’effetto debilitante su di lei?

    «Forse potresti sentirti meglio adesso» le concesse, «ma tra qualche ciclo davvero vorrai che siano questi gli ultimi ricordi che serbi di quello che c’è stato tra noi? Io non credo, e sono certo che non lo vuoi neppure tu.»

    «Ti sbagli!» gridò con rabbia. Detestava il fatto che avesse così dannatamente ragione, specie in quel frangente.

    «No, non credo di sbagliarmi, almeno non stavolta. È stato uno sbaglio il modo in cui mi sono comportato nei tuoi confronti, è stato uno sbaglio andarmene da Lungofiume, è stato uno sbaglio ubriacarmi e finire tra le braccia di Serina...»

    Serina. Era la prima volta che udiva Trevorn pronunciare quel nome e, sebbene la sua voce risuonasse calda e affettuosa come un’assolata giornata di primavera, l’effetto che quelle parole ebbero su di lei fu simile a quello di piombo incandescente versatole direttamente sul cuore. Anche soltanto pronunciare il nome di quella sgualdrina di fronte a lei voleva dire offendere tutto ciò che il loro amore aveva significato, voleva dire rinnegare ogni attimo di pura felicità vissuto e condiviso insieme.

    «... ma non è stato uno sbaglio tornare qua oggi» proseguì Trevorn. «Perché so di amarti, lo so con una certezza assoluta che mai altre volte ho avuto in vita mia. E voglio credere, nonostante il tuo giusto rancore, che anche tu, ancora, mi ami.»

    Avrebbe di nuovo voluto rispondergli che si sbagliava. Avrebbe voluto ferirlo mentendogli, affermando di non amarlo più, di non provare più niente per lui. Ma non vi riuscì. Il nodo che le chiudeva la gola era così stretto da impedirle quasi di respirare. Un laccio che, di minuto in minuto, si faceva sempre più serrato, soffocando ogni suo pensiero.

    Così, dopo qualche attimo di teso silenzio, fu sempre lui a continuare: «Tu mi ami, Kayra, lo sento, non puoi negare ciò che prova il tuo cuore. Però al tempo stesso so per certo che hai del rancore nei miei confronti; lo so perché anch’io mi odio per quello che ti ho fatto, forse più di quanto tu non riesca ad immaginare.» Si fermò un istante, come per soppesare bene le parole, e nel mentre allentò la morsa che aveva serrato sulle sue braccia, lasciandola libera. Lei però non si mosse, preferendo continuare a dargli le spalle e ad ascoltare quanto aveva da dire senza essere costretta a guardarlo negli occhi.

    Il silenzio si protrasse più di quanto si era attesa e, quando infine Trevorn riprese a parlare, si rese conto che la sua voce era adesso velata da un’evidente e profonda tristezza che poche altre volte aveva scorto in lui. «Tu hai conosciuto appena i miei genitori, eri piccola quando morì mia madre, e mio padre fu accolto tra le braccia di Avanna pochi cicli dopo di lei» le disse. «A quell’epoca avevo quindici anni ed ero già, consentimi di dire, un promettente spadaccino. Mettevo tutto me stesso nello studio della spada, anima e corpo, dall’alba al tramonto, senza mollare mai, quali che fossero i sacrifici… proprio come fai tu adesso. In molti pensavano lo facessi per compiacere mio padre, per compiacere il fiero Ross Salt, capitano dei ranger, ma non era così.

    Io, triste a dirsi, odiavo mio padre, lo odiavo dal profondo del cuore. Lo odiavo per tutto ciò che di male aveva fatto a mia madre, e non solo per averla tradita, ma, soprattutto, per averla ignorata e fatta soffrire ogni giorno della sua vita. Mia madre era una donna stupenda, bellissima, ma aveva un animo fragile e delicato, e mio padre mal sopportava questo aspetto del suo carattere; lui cercava emozioni forti, quasi violente oserei dire, e mia madre, dopo la mia nascita, non era più in grado di soddisfare i suoi desideri, almeno non nel modo in cui lui avrebbe voluto. Così, a poco a poco, lui l’ha abbandonata, l’ha tagliata fuori dalla propria vita, relegandola al ruolo di regina di un vuoto castello. Io la scorgevo spesso piangere, di nascosto, negli angoli bui della nostra grande casa, quando pensava che nessuno la potesse vedere, e ho sofferto assieme a lei: ho sofferto per il trattamento che lui le riservava e ancor di più ho sofferto perché capivo di non poter far nulla per alleviare le sue pene. Più di sempre però, ho sofferto al suo funerale, e non tanto per il dolore della perdita, giacché già da tempo la malattia l’affliggeva, bensì perché è stato soltanto allora che mi sono reso pienamente conto di che razza d’uomo fosse veramente mio padre. Non una lacrima versò quel giorno, non una sola lacrima solcò le sue guance quando Avanna infine chiamò a sé la donna che per quasi vent’anni era stata sua moglie…»

    L’aspro richiamo di un astore si levò lontano, verso nord, nell’aria scura della notte, e Trevorn interruppe per qualche breve secondo la narrazione. Doveva costargli un grave tormento rievocare quelle immagini dal proprio passato e lei, nonostante tutto, non poté fare a meno di provare compassione per l’uomo che le stava accanto. Sapeva, per averlo sentito da sua madre, che il rapporto tra Trevorn e il padre era stato difficile, ma mai prima di allora aveva intuito fino a che punto. Lui non gliene aveva mai fatto parola.

    «Il giorno dell’addio a mia madre» proseguì, «poco dopo la funzione del Maestro, andai a cercare mio padre: lo trovai nel cortile degli addestramenti, seduto su una panca, intento, come ogni qualsiasi altro giorno dell’anno, a prendersi cura di Artiglio dell’Aquila. Sembrava tranquillo, quasi rilassato, come se il funerale di sua moglie non fosse stato altro che un evento di poco conto, una fastidiosa ma necessaria formalità che aveva sottratto qualche preziosa ora ai suoi doveri di ranger.

    Mi sedetti accanto a lui e, almeno all’inizio, rimasi in silenzio. Avrei voluto che fosse lui a parlarmi, a esprimermi il suo cordoglio, a farsi carico di parte del dolore che opprimeva il mio cuore. Ma così non fu. Continuò a sfregare la cote sulla lama, passata dopo passata, senza degnarmi neppure di uno sguardo, come se io non fossi lì. E allora, per la prima volta in vita mia, sotto la spinta di un’angoscia che rischiava di strangolarmi, ebbi finalmente il coraggio di affrontarlo a viso aperto: mi alzai in piedi di fronte a lui e gli urlai in faccia tutto il mio dolore, tutto il mio rancore, tutta la mia rabbia… e alla fine, fissandolo in quei suoi occhi di ghiaccio che sempre mi avevano messo soggezione, gli dissi che lo odiavo.

    Capisci? Dissi a mio padre che l’odiavo.

    Pensavo si sarebbe infuriato per la scenata che gli avevo fatto, per come avevo avuto l’ardire di mancargli di rispetto, e invece lo sai cosa mi rispose? Assolutamente niente. Restò impassibile finché non me ne andai, guardandomi appena e continuando ad affilare Artiglio dell’Aquila, come se niente fosse accaduto.

    Ricordo che ci evitammo per oltre dieci giorni, senza scambiarci neppure una parola. Alla fine fu lui a scegliere per primo di rompere il silenzio: volle che ci incontrassimo proprio qui, dove ci troviamo adesso tu ed io, perché da sempre questo colle rappresenta un luogo molto importante per la mia famiglia. E quel giorno, nonostante i miei sentimenti nei suoi confronti non fossero cambiati, conobbi un lato di mio padre che mai, prima di allora, avevo neppure intravisto. Un lato che, suppongo, aveva sempre tenuto nascosto agli occhi di tutti; anche, e soprattutto, a quelli di mia madre.» Indugiò un attimo soltanto, appena una breve esitazione, come per trovare le parole più appropriate, ma a lei fu sufficiente per capire che quello che stava per dirle doveva rappresentare un argomento di estrema importanza e delicatezza. «Per lunghi anni ho portato le parole di mio padre sepolte dentro di me, proprio come ha fatto lui, e come ha fatto suo padre e il padre di suo padre prima di lui. Proprio come hanno dovuto fare tutti i primogeniti della mia famiglia dall’alba dei tempi. È un fardello, Kayra, un oneroso fardello che ognuno di noi ha sperato, e al tempo stesso temuto, di poter un giorno condividere con la donna amata.»

    Quando, mentre ancora parlava, con la propria mano Trevorn sfiorò la sua, un brivido rapido e violento come una saetta le attraversò il corpo, ma non si ritrasse da quel contatto. Lui allora le accarezzò il palmo con i polpastrelli, quindi, con dolcezza, glielo strinse tra le dita. E lei, pur non ricambiando la stretta, lo lasciò fare.

    «Mio padre amava mia madre, me lo giurò su quanto aveva di più caro. Ma mia madre non era la donna che lui aveva sperato, non era la donna che da secoli la mia famiglia sta inutilmente cercando. E questa consapevolezza alla fine lo distrusse, distrusse il loro amore e quanto di bello avevano creato insieme, lasciando soltanto un rapporto sterile fatto di risentimento e odio.

    Io però non permetterò che accada lo stesso a noi due. Non ho alcuna intenzione di perderti o lasciarti andare, perché sono convinto che sia tu la donna che da sempre sto cercando, la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1