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Oltre la notte (eLit): eLit
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E-book341 pagine4 ore

Oltre la notte (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Wings in the night 15

Utanapishtim, il primo degli Immortali, ha pagato un prezzo altissimo per aver creato i vampiri. E da quando James Willem Poe lo ha risvegliato dalla morte vivente a cui era stato condannato ha un solo obiettivo in mente: ripulire il mondo dalla razza che lui stesso ha generato. L'unica che può fermarlo è Brigit la gemella di James, la sola a possedere poteri di distruzione simili ai suoi. Ma quando si ritrovano faccia a faccia, guerrieri invincibili e ugualmente determinati, la passione che esplode tra loro li pone di fronte a una verità sorprendente, che sovverte ogni loro convinzione. E a una battaglia che sembra destinata a distruggerli entrambi.
LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2018
ISBN9788858993248
Oltre la notte (eLit): eLit
Autore

Maggie Shayne

RITA Award winning, New York Times bestselling author Maggie Shayne has published over 50 novels, including mini-series Wings in the Night (vampires), Secrets of Shadow Falls (suspense) and The Portal (witchcraft). A Wiccan High Priestess, tarot reader, advice columnist and former soap opera writer, Maggie lives in Cortland County, NY, with soulmate Lance and their furry family.

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    Anteprima del libro

    Oltre la notte (eLit) - Maggie Shayne

    1

    Costa del Maine

    Era la notte più nera e piovosa che quel cimitero dimenticato e invaso dalle erbacce avesse visto da secoli. Antiche lapidi pendevano come ubriache sotto alberi scheletriti che sembravano morti, e i cui rami contorti parevano rabbrividire nel freddo. Le artritiche dita di un arbusto graffiavano il più alto degli antichi monumenti di pietra come vecchie unghie gialle su pietra di lavagna.

    I vampiri sopravvissuti si erano raccolti attorno a una tomba aperta, fangosa. Brigit Poe sembrava abbigliata più per una battaglia che per un funerale. Era solo una coincidenza che vestisse completamente di nero. Il tessuto tecnico ipertraspirante della T-shirt le copriva il corpo dalle spalle alla vita come un guanto chirurgico. Sotto indossava un paio di leggings e ai piedi stivali neri con fibbie che salivano fino alle ginocchia e robusti tacchi alti che le avrebbero dato un notevole vantaggio in battaglia, e il cui peso avrebbe aggiunto maggiore potenza a un eventuale calcio. L’impermeabile nero sembrava preso direttamente dalle spalle di un attore di un vecchio film western: lungo e pesante, con spalle a mantellina, era confezionato con un tessuto pesante che oltre a proteggerla dalla pioggia sarebbe stato in grado anche di deflettere una lama.

    Brigit avrebbe desiderato che avesse un cappuccio. Avrebbe desiderato un sacco di cose, in realtà, prima fra tutte che il compito che le stava davanti toccasse a chiunque altro tranne che a lei. Ma quello non sarebbe potuto succedere.

    Mentre se ne stava lì in piedi, osservando i vampiri farsi avanti uno alla volta per gettare un pugno di ceneri dentro il buco fangoso, il suo gemello la raggiunse e le calcò un cappello da cowboy nero sui riccioli biondi bagnati e gocciolanti. Le avevano detto spesso che aveva i capelli come Riccioli d’Oro, il viso di un angelo, il cuore di un demonio... e il potere di Satana in persona.

    Cappello nero, pensò. Ci stava. Nello spaghetti western che aveva immaginato, di certo avrebbe indossato uno Stetson nero. Suo fratello invece ne avrebbe indossato uno bianco: lui era il buono. L’eroe.

    Non lei.

    «Non sarà facile» le disse. «Dargli la caccia. Ucciderlo.»

    «Già. Lui ha cinquemila anni ed è più potente di chiunque di noi.»

    «Non è esattamente quello che intendevo dire, sorellina» ribatté lui. James, che lei chiamava J.W. malgrado le sue continue proteste, la guardò dritto negli occhi. Brigit finse di non sapere che cosa stesse cercando, anche se in realtà era evidente. Decenza. Moralità. Qualche segno che lei stesse lottando contro l’etica della decisione che era stata presa, e cioè trovare e giustiziare l’Antico che aveva dato inizio alla razza dei vampiri.

    Solo pochi giorni prima, suo fratello aveva rintracciato e resuscitato il primo degli Immortali, l’antico re sumero noto come il Sopravvissuto al Diluvio. Lui era il Noè originario, l’eroe di una narrazione molto più antica della versione biblica. In antico sumero il suo nome era Ziasudra, Utanapishtim in babilonese.

    Una profezia, la stessa che aveva predetto la guerra che ora infuriava tra i vampiri e gli umani, i quali avevano infine appreso della loro esistenza, aveva anche annunciato che l’Antico, il primo immortale, l’uomo da cui era discesa l’intera razza dei vampiri, era la loro unica speranza di sopravvivenza.

    O almeno, questo era ciò che avevano pensato significasse. Invece era saltato fuori che il loro antenato era in realtà colui che li avrebbe eliminati dalla faccia della terra. Convinto che l’Antico fosse la loro salvezza, J.W. aveva usato il proprio potere di guarigione per resuscitarlo. Ma Utanapishtim era tornato in vita con la mente corrotta da migliaia di anni trascorsi intrappolato ma cosciente in una statuetta di pietra, l’anima legata alle sue ceneri.

    Credendo di essere stato maledetto dagli dei per aver condiviso il dono dell’immortalità e aver creato senza volerlo la razza dei vampiri, lui aveva deciso di distruggerli tutti. Gli bastava uno sguardo per incenerirli, e ne aveva già uccisi molti.

    Le ronde organizzate dagli umani ne avevano uccisi molti di più.

    Al punto che la fine della loro razza sembrava ormai prossima.

    A meno che lei non riuscisse a fermare Utana, a impedirgli di compiere la missione che si era assunto.

    «Quello che volevo dire» proseguì suo fratello, «era che uccidere qualcuno che non può realmente morire, sapendo che tutto ciò che stai facendo in realtà è condannarlo a passare l’eternità praticamente sepolto vivo...»

    «Stai cercando di farmi rimordere la coscienza, J.W.?» chiese lei, irritata. «Ebbene, non funzionerà. Non ne ho una. Mai avuta. Quel bastardo ha ucciso centinaia dei miei simili. I nostri simili. Non ho alcun problema a toglierlo di mezzo prima che riesca a eliminarci tutti. Nessunissimo problema.»

    Qualcuno si schiarì la gola, e lei guardò di nuovo verso la tomba aperta. Tredici dei sopravvissuti avevano raccolto le ceneri dei propri cari morti e ne avevano portato i resti in quel cimitero abbandonato e da tempo dimenticato nelle lande selvagge del Maine.

    Tra coloro che si erano radunati lì c’erano dieci vampiri – Eric e Tamara, Rhiannon e Roland, Jameson e Angelica, Edge e Amber Lily, Sarafina e l’appena trasformata Lucy – il compagno mortale di Sarafina, Willem Stone, e infine lei e suo fratello J.W., che erano per metà umani e per metà vampiri. Li chiamavano gemelli ibridi, figli del destino, ed erano la supposta unica speranza per la metà oscura della loro famiglia.

    Rhiannon, con il lungo abito dallo spacco fino alla coscia che strisciava nel fango per via dei piedi insolitamente nudi, versò nel buco l’ultima urna di ceneri, poi rovesciò la testa all’indietro e aprì le braccia ai cieli. La pioggia si riversava sulla pelle pallida dei suoi seni, quasi del tutto esposti dalla scollatura del suo abito rosso sangue. I lunghi capelli neri spiovevano in matasse bagnate, e l’eyeliner le stava colando giù per le guance, misto a pioggia e lacrime. Non era la solita Rhiannon, l’altera principessa egizia, figlia di un sommo sacerdote.

    «So che potete udirmi, amici miei. Familiari miei.» La voce le si spezzò, ma Roland avanzò dietro di lei e posò le mani forti sulle sue spalle nude. Poi lentamente le fece scivolare in fuori, seguendo le braccia protese della sua compagna, e il suo mantello nero si aprì, riparandola dalla pioggia. Le strinse le mani tra le proprie, le braccia aperte ai cieli proprio come le sue.

    Era un’immagine bellissima. E al tempo stesso da spezzare il cuore.

    «So che potete udirmi» ripeté Rhiannon. «E confido abbiate scoperto che anche noi entriamo in Paradiso quando lasciamo questa vita. Anche noi siamo degni del cielo. Abbiamo anime... anime che sentono, che amano, che vivono, con un’intensità infinitamente maggiore rispetto a quelle dei mortali che ci chiamano mostri senz’anima.» Chiuse gli occhi, prese un respiro. «State bene, lassù nella luce, miei amati. State bene, e non temete. Poiché coloro che vi siete lasciati alle spalle sopravvivranno.» Aprì gli occhi, ed erano freddi e scuri, più terrificanti che mai, orlati di nero com’erano. «E giuro per Iside stessa che sarete vendicati.»

    Abbassò lentamente le braccia, ma Roland non lasciò andare le sue mani e gliele avvolse attorno alla vita, avvolgendo Rhiannon nel proprio mantello e nelle proprie braccia come se fossero una cosa sola.

    «È fatta, amor mio. Ora vieni, dobbiamo istruire la nostra piccola guerriera prima di mandarla in battaglia.»

    Rhiannon si voltò, incontrando gli occhi di Brigit, catturandoli. C’era così tanto nel suo sguardo, pensò lei fissando la sua maestra, la donna che più ammirava, a cui più desiderava assomigliare e la cui approvazione maggiormente bramava. E che in verità non le era mai stata negata. C’era amore in quegli occhi cerchiati di scuro. Amore e dolore e paura. Tanta paura.

    Era un’emozione che non compariva quasi mai negli occhi di Rhiannon e che proprio per questo turbò moltissimo Brigit.

    J.W. le posò una mano sulla spalla. «Andrà tutto bene, sorellina.»

    «Facile per te dirlo. Il tuo lavoro era resuscitare il nostro antenato non-morto. Io sono quella che deve vedersela con lui adesso che è vivo e scatenato.»

    «Andiamo» disse Eric. «Torniamo al maniero. Non è sicuro stare a lungo fuori all’aperto, perfino qui.»

    Sfilarono a coppie fuori dal cimitero, imboccando un sentiero fradicio di pioggia che seguendo un percorso stretto e tortuoso portava fino alla torreggiante struttura che si ergeva solitaria su una rupe a strapiombo sul mare. L’oceano quella notte era inquieto come i cieli, mentre i vampiri e i loro familiari salivano sempre più in alto. I venti li sferzavano, ululando e gemendo come se anch’essi fossero in lutto.

    Brigit camminava da sola. Normalmente lei e J.W. sarebbero stati l’uno di fianco all’altra, visto che erano gli unici due del loro genere pur essendo l’esatto contrario sotto ogni aspetto. Ma adesso lui aveva la sua compagna, la bellissima, brillante Lucy, da poco diventata vampira. Mentre lei... be’, lei era sola, e di fronte alla più grande sfida della sua intera esistenza. Una sfida che non voleva affrontare e che non era sicura di poter vincere.

    Anche se era ormai in partenza. I bagagli erano pronti al maniero. Era rimasta solo per aspettare che i riti funebri si concludessero.

    Poco più avanti, Rhiannon – in testa al gruppo, ovviamente – raggiunse la porta del maniero e si fermò a tenerla aperta mentre gli altri entravano nel rudere.

    Brigit era l’ultima della fila, e quando passò lei le posò una mano sul braccio. «Dobbiamo parlare prima che tu parta» le sussurrò. «Aspettami in biblioteca.»

    Grandioso, pensò Brigit. Un altro rinvio, ed era inevitabile tanto quanto sarebbe stato spiacevole. Probabilmente gli anziani volevano istruirla prima che partisse per quella che era senza dubbio una missione suicida. Proprio quello che le occorreva. Una predica prima di morire.

    Periferia di Bangor, Maine

    L’essere più vecchio del pianeta, il primo immortale, l’originario Noè, stava in piedi sotto la pioggia scrosciante su un marciapiede. Indossava un lenzuolo fradicio e gocciolante, che aveva avvolto attorno al corpo come una tunica antica, fermandolo su una sola spalla. Aveva rifiutato con arroganza di indossare l’abbigliamento che gli era stato offerto quando era appena stato resuscitato. Il genere di abbigliamento che, ora se ne rendeva conto, era necessario se sperava di confondersi con l’umanità di quella strana nuova era. La gente lo guardava sconcertata, comuni umani, mortali, che lo superavano in velocità sui loro strani mezzi meccanici mentre sfrecciavano verso i piccoli e miseramente disegnati edifici che fiancheggiavano le strade. Correvano dentro e fuori, come se la pioggia potesse farli sciogliere. Rotolavano su e giù per le strade in quei macchinari che chiamavano automobili.

    Voleva sapere come funzionavano. Ma più avanti. Prima voleva diventare invisibile. Avrebbe preferito essere morto, ma la morte non era un’opzione possibile, al momento.

    In quel momento in effetti aveva ben poche alternative. Ma aveva delle necessità, e quelle più immediate erano abbastanza urgenti da distrarlo dal problema di attirare troppa attenzione. Quello sarebbe venuto dopo che i suoi bisogni primari fossero stati soddisfatti. Aveva bisogno di calore, e di ripararsi dall’implacabile, gelida pioggia. Così tanta pioggia.

    Sarebbe stata una benedizione, ai suoi tempi... a patto che non andasse avanti per troppo tempo. Si chiese brevemente se quella pioggia fosse normale nell’attuale civiltà, o se gli dei, gli Anunnaki, avessero una volta ancora decretato che l’umanità dovesse essere messa in ginocchio.

    Utana si scrollò via il brivido d’ansia che quel pensiero aveva evocato e cercò ancora una volta di mantenere la concentrazione sulle proprie necessità immediate. Aveva bisogno di cibo, in grande quantità. Il suo ventre stava borbottando, torcendosi e mordendolo, esigendo sostentamento. E acqua... gli serviva acqua dolce da bere. Quelle cose erano fondamentali. Tutto il resto – gli indumenti per confondersi con i volgari popolani, numerosi come mosche su un cane del deserto, la conoscenza che tanto bramava e doveva acquisire così da potersi muovere in quel mondo, la missione che doveva compiere per avere la possibilità di strappare il perdono agli dei – poteva aspettare.

    Cibo. Acqua. Riparo.

    Quelle erano le cose che gli servivano subito.

    Osservò gli edifici che lo circondavano: costruzioni di mattoni rossi o di legno, senza alcuna bellezza o arte, con ampie aperture nelle pareti che apparivano vuote ma che in realtà, aveva scoperto, non lo erano. Nella pioggia era più facile vedere le goccioline sulle due pareti trasparenti. Quando erano asciutte, quelle cose – finestre, le chiamavano, fatte di un materiale conosciuto come vetro – erano quasi invisibili.

    E tuttavia, non del tutto.

    Si avvicinò a una di esse, attratto dall’odore di cibo, solo per fermarsi quando fissò l’immagine che vi scorse. Era un uomo, vestito come lui e che si muoveva esattamente come lui. Chiaramente un riflesso, pensò, sollevando la mano, e osservando l’immagine fare lo stesso. Molto simile a quella che si vedeva guardando nell’acqua.

    Inclinò lievemente la testa e studiò il proprio riflesso nel vetro. Non c’era da stupirsi, pensò, che i mortali fossero turbati da lui. Appariva minaccioso. Selvaggio. Ritto sotto la pioggia che gli scrosciava addosso, mentre tutti correvano al riparo. Le aveva permesso di inzuppargli i capelli, l’abito, la pelle. Ed era più grande della maggior parte di loro, anche. Più alto, più imponente. Gli era cresciuta la barba in quei giorni, scura e folta, mentre la maggior parte degli uomini che incontrava aveva il viso perfettamente rasato. E i pochi che avevano la barba la tenevano accuratamente regolata, sotto controllo e in ordine.

    Si passò una mano tra i lunghi capelli neri come l’onice, spingendo indietro le ciocche gocciolanti. Poi riportò l’attenzione alla finestra, e alle persone che poteva vedere oltre i vetri. Sedevano a dei tavoli, godendosi cibo in abbondanza che veniva portato loro da servitori sorridenti che parevano contenti della propria sorte.

    Finalmente qualcosa che aveva senso, pensò.

    Li osservò per un po’ prima di avvicinarsi alla porta attraverso cui entravano e uscivano gli altri. Non appena fece per aprirla, però, comparve un uomo che si piazzò lì, bloccandola. Era molto magro, ma abbastanza alto, e sorridente anche se gli occhi mostravano paura.

    «Sono spiacente, signore, ma siamo al completo stasera. Lei ha una prenotazione?»

    Utana spostò lo sguardo dalla testa dell’uomo alle scarpe e ritorno. «Conosco no... prenotazione» disse. «Voglio cibo.»

    «Ecco, ehm, giusto. Ma come ho detto, siamo al completo stasera.» Alzò una mano, in un gesto di impotenza. «Niente posto.»

    «Porta cibo qui, allora. Io aspetto.» Utana incrociò le braccia sul petto.

    «Ehm, io... Lei è straniero, vero?»

    Utana si limitò a grugnire, non più interessato a conversare con quell’uomo. Il silenzio avrebbe comunicato nel modo migliore che il dialogo era concluso.

    «Sì, capisco. Ecco, il fatto è che non funziona in questo modo, qui. Ho un suggerimento per lei, comunque.»

    «Conosco no suggerimento. Porta cibo. Aspetto.»

    «Perché non prova alla mensa dei poveri? Là in fondo alla strada, dove c’è la chiesa metodista, vede? Si scorge la guglia da qui.»

    Stava indicando qualcosa in lontananza mentre parlava, ma Utana riuscì a capire solo una parola qua e là. Benché stesse imparando in fretta la lingua del posto, interpretare le parole che le persone pronunciavano velocemente gli riusciva ancora difficile. Seguì con lo sguardo l’indice dell’uomo e scorse la guglia puntata verso il cielo. «Ah, sì, chiesa. Conosco chiesa. Casa di vostro dio solitario.»

    «Sì. Sì, è quella. Vada alla chiesa. Là avranno cibo per lei, e anche un posto per dormire, se gliene serve uno.»

    Utana annuì, ma era più allettato dagli aromi provenienti dall’interno di quella casa, e spazientito con quell’uomo, che stava chiaramente cercando di mandarlo via senza un pasto. Era una buona notizia, certo, che ci sarebbe stato un letto per lui alla casa del singolare dio dei mortali, ma c’era del cibo lì, in quel momento, e lui non sarebbe andato via senza averne avuto una parte.

    Così semplicemente spinse da parte l’uomo ossuto e continuò ad aprire la porta. Mentre stava per entrare, un altro uomo li raggiunse di corsa e spinse contro la porta dall’interno. Ma Utana spinse più forte, e l’uomo volò all’indietro, andando a cozzare contro la parete, alla quale si appoggiò con una mano mentre con l’altra si massaggiava la nuca.

    Utana entrò nel luogo del cibo.

    Lo accolsero il sommesso brusio della gente che chiacchierava e il rumore dei loro ridicoli utensili e piatti per mangiare. Ma non appena i loro occhi si posarono su di lui, tutti smisero di mangiare e parlare, e un silenzio di tomba calò sulla sala.

    Utana lanciò una rapida occhiata ai tavoli, al cibo, agli sguardi fissi dei commensali attoniti – senza dubbio sorpresi dall’apparizione di un uomo bagnato e gocciolante, vestito di una cosa che secondo James dei Vahmpeer era destinata a essere usata come biancheria da letto – ma non gli importò. Era concentrato soltanto sul cibo, sul sostentamento. Le sue narici si dilatarono quando colse il delizioso profumo della carne di manzo, e il suo sguardo scattò verso la fonte.

    Un uomo con un bizzarro cappello bianco stava uscendo da una porta girevole sul fondo della stanza, portando sulle braccia un vassoio così carico di leccornie che riusciva a reggerlo a stento. Ciascun piatto era chiuso da un coperchio di lucido argento, e tuttavia gli aromi ne sfuggivano, e lo stomaco di Utana si rimescolò per il desiderio.

    Non esitò. Andò a grandi passi verso l’ometto che portava il cibo, e che nel vederlo si bloccò. I suoi occhi spaventati dardeggiarono a destra e a sinistra mentre si chiedeva se restare dov’era o battere in ritirata. In tre falcate, Utana lo raggiunse e prese il vassoio. Poi si voltò e tornò indietro attraverso la sala. La gente si alzò dai tavoli, arretrando dal suo percorso. Due persone invece si fecero avanti e cercarono di sbarrargli il passo, ma lui li spinse da parte con un semplice gesto del braccio possente, mandandoli a ruzzolare contro un tavolo vicino. Il tavolo si ruppe, e quello che sosteneva si rovesciò in grembo ai commensali che sedevano lì, prima che avessero il tempo di scappare. Una donna strillò.

    Utana passò oltre il trambusto, diretto alla porta. Dei servitori gli urlarono dietro, chiedendo che cosa credesse di fare, ma lui li ignorò, portando il suo bottino in strada e attraverso la pioggia battente, in cerca di un luogo riparato dove sedersi.

    In un batter d’occhio individuò uno dei macchinari a ruote degli umani, uno grosso, con un dorso simile a una gigantesca cassa e un paio di porte sul retro che se ne stavano spalancate.

    Marciò dritto verso il veicolo e salì con facilità nel cassone. Posò il bottino sul pavimento e chiuse i battenti dietro di sé. Mettendosi comodo, o meglio comodo quanto poteva esserlo mentre era ancora bagnato e gelato, sollevò uno per uno i coperchi luccicanti, chinandosi ad annusare. Non aveva idea di cosa contenesse la maggior parte dei piatti, a parte quello con il grosso taglio di manzo di cui aveva sentito l’odore. Era ancora caldo, marrone all’esterno e sugoso. Lo raccolse e lo addentò, e i sapori gli esplosero in bocca. Tenera e succulenta, rosea al centro, la carne era il pasto più raffinato che avesse avuto da quando si era ridestato alla vita. Si appoggiò con la schiena contro la parete metallica del cassone, masticò e deglutì, sospirando di sollievo. Almeno uno dei suoi bisogni era stato soddisfatto.

    Washington, D.C.

    «Congratulazioni, Senatore MacBride» disse il capo della maggioranza in Senato.

    Era appena entrato nella stanza in cui lei era rimasta in attesa per oltre un’ora, la mano tesa mentre l’attraversava diretto verso di lei.

    Alzandosi, la senatrice accettò la stretta di mano. L’uomo esibiva un enorme sorriso... uno di quei sorrisi zannuti da coccodrillo che lei aveva imparato a riconoscere entro la prima settimana in ufficio. Così si preparò alla grandinata di cazzate che era sicura sarebbe seguita.

    «Grazie, Senatore Polenski. Ma posso chiedere a cosa sono dovute le congratulazioni?»

    Il senatore si limitò ad agitare in aria una mano. «Il suo nuovo incarico. Ma prego, si sieda. Si rilassi. Farò portare qualcosa da bere e le dirò tutto sulla questione.» Avvicinandosi alla scrivania, tese la mano verso l’interfono. «Che cosa gradirebbe? Caffè? Magari qualcosa di un tantino più forte, per festeggiare?»

    «Preferirei davvero sapere che cosa sto festeggiando, prima, Senatore.»

    Lui posò il telefono e si sedette in bilico sull’orlo della scrivania. La senatrice era ancora in piedi davanti a lui, tra le due poltrone imbottite, su un tappeto così fitto che i suoi prudenti tacchi da cinque centimetri quasi diventavano piatti.

    Polenski la guardò negli occhi. «Lei è stata nominata capo del Comitato per le Relazioni Stati Uniti - Vampiri.»

    La donna chinò il capo, ridendo sottovoce. «Benissimo. Benissimo, prenderò del caffè. Potrà raccontarmi tutto mentre lo sorseggiamo.»

    Lui rimase muto come un pesce finché lei non ebbe smesso di ridere. Marlene MacBride soppesò la tensione nella stanza e si rese conto che il collega non aveva fatto una battuta. Alzando lentamente la testa, lo guardò negli occhi, minuscoli pezzi di marmo azzurro sotto una testa di folti capelli bianchi che sembravano sempre scompigliati dal vento. «Andiamo, Senatore Polenski, non può dire sul serio.»

    «Sono assolutamente serio, invece. La notizia che quelle creature esistono davvero è dilagata, grazie a quell’idiota d’un ex agente della CIA e al suo libro di rivelazioni. La maggior parte di loro – insieme a un discreto numero di comuni esseri umani, anche – è stata spazzata via da ronde di vigilantes, a questo punto, ma le nostre agenzie informative ritengono che ce ne sia ancora una manciata. Di certo lei ha seguito l’evolversi della situazione attraverso i notiziari...»

    «Io... non pensavo fosse... reale.» Crollò in una delle poltrone, senza fiato. «Credevo che la posizione ufficiale del governo sul conto del defunto Lester Folsom fosse che era mentalmente disturbato e che soffrisse di fissazioni.»

    «Quella era, infatti. Disgraziatamente, nessuno l’ha bevuta. Così adesso siamo costretti ad ammettere. Loro esistono. È reale. Il pubblico è terrorizzato, e i cittadini spaventati sono cittadini pericolosi, MacBride. Ci serve qualcuno che prenda in mano la cosa. Che tranquillizzi la gente. Che provveda affinché queste... creature vengano contenute, monitorate e gestite.»

    La donna dovette tradire la propria reazione viscerale alle sue parole, perché lui distolse lo sguardo e aggiunse: «Nel modo più giusto e umano possibile, è ovvio».

    «Ovvio» ripeté lei.

    Lui annuì. «Lei fungerà da collegamento tra la CIA e il Senato. Raccoglierà tutte le informazioni disponibili e gestirà l’uomo incaricato di risolvere questo casino, Nash Gravenham-Bail. Bell’affare! Non accetterà facilmente il suo coinvolgimento, questo è certo. Dovrà farlo galoppare, indagare per conto proprio, capire quando le sta nascondendo qualcosa e quanto, e incalzarlo per avere di più.»

    «Indurlo a dirmi tutto. Capisco.»

    Rafe Polenski scosse il capo. «Gravenham-Bail non le dirà mai tutto. Ma cerchi di ottenere tutto ciò che può. Faccia filare tutti noi, metta assieme i membri del suo comitato e insieme a loro elabori un piano d’azione su cui farci meditare.»

    Lei batté le palpebre tre volte, scosse la testa e distolse lo sguardo.

    «Ebbene? Che cos’ha da dire?»

    Marlene MacBride trasse un profondo respiro, aprì la bocca, la richiuse e ne prese un altro, frugandosi nella mente in cerca di una risposta mentre il suo cervello si intasava di domande. Chiaramente nessuno sano di mente avrebbe voluto assumersi quell’onere. Questo, pensò, era l’equivalente moderno dell’Ufficio degli Affari Indiani, e Dio solo sapeva che non era andata molto bene. Per gli indiani, quantomeno.

    Vampiri. Buon Dio. Vampiri.

    Stavano appioppando quell’incarico a un senatore novellino del Midwest. Qualcuno che pensavano fosse troppo ingenuo per esserne avvertito. Qualcuno che fosse facilmente manipolabile, facilmente controllabile. Lei non era nessuna di quelle cose. Ma non era in carica da abbastanza tempo perché loro se ne fossero accorti. Lei sapeva esattamente che cosa stava accadendo lì. Sarebbe stata una catastrofe, e qualcuno avrebbe dovuto beccarsi la sventagliata quando la merda fosse caduta sul ventilatore. E avevano deciso che sarebbe stata lei.

    Sapeva tutto questo perfettamente.

    E sapeva anche che non poteva rifiutare l’incarico. Non si contrariava il Senatore Rafe Polenski. Quell’uomo era una leggenda.

    «Ebbene?» domandò lui, in attesa, già conoscendo la sua inevitabile risposta.

    Gli occhi di Marlene MacBride incrociarono quelli calcolatori di lui, e capì di essere in trappola. Ma forse sapere che cosa c’era in ballo le avrebbe dato un vantaggio, si disse. Forse avrebbe potuto superare in astuzia la volpe delle nevi in persona, e sopravvivere per raccontarlo. Forse lei era un po’ più sveglia di quanto sapesse quell’antiquato membro di vecchia scuola del Congresso.

    «La sua decisione, Senatore MacBride?» incalzò Polenski esplicitamente.

    «Lasci perdere il caffè» rispose lei. «Prenderò della vodka.»

    Mount Bliss, Virginia

    Jane Hubbard scese dal taxi e rimase a guardare la facciata di un massiccio e bellissimo edificio.

    Angeli di pietra fiancheggiavano l’alta cancellata in ferro battuto che si era aperta per lasciar entrare il taxi, che poi aveva proseguito lungo un viale circolare fino a una gigantesca fontana, dove la statua della bellissima Santa Dymphna – che sembrava una creatura uscita dritta dritta da una fiaba – reggeva in una mano una lampada a olio in cui ardeva una fiamma vera e una spada nell’altra. La lama era puntata verso il basso, la punta che trafiggeva un drago che si contorceva i suoi

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