Il venditore di ghiaccio
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Da bambino cresce in un paese dell’entroterra pugliese, arcaico e contadino che troppo velocemente si converte alla modernità. A fare da contrasto ai suoi sogni, prendono forma nella realtà incubi come quello della grande acciaieria, il “drago sputafuoco”, che inizia ad inghiottire vite.
Alla fine degli anni ’60, ormai ragazzo, è l’ultimo venditore di ghiaccio di quel paese, un mestiere destinato presto a scomparire con l’avvento dell’elettricità e degli elettrodomestici.
Cerca un altro lavoro Nicola e si ritrova lungo quella stessa strada che in tanti percorrono verso un mondo pensato migliore. Non importa se ci sia un treno o una barca a portarti.
Così la vita del venditore di ghiaccio incrocia destini e storie più grandi, per tanti versi a volte drammatici, fino agli anni ’90 del secolo scorso.
Un romanzo che sollecita emozioni e che segna una svolta nella scrittura dell’autore, quella di riuscire a trasformare in prosa la propria capacità poetica.
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Anteprima del libro
Il venditore di ghiaccio - Marcello Loprencipe
Marco.
1
Ottocentosessantasette anni dopo
Il dedalo di vicoli addormentati nella notte era ancora avvolto dal buio quando, quasi correndo, una figura silenziosa prese per l’uscita dal paese. Procedeva a passo veloce in direzione della Contrada Correo.
Mano a mano che le abitazioni si diradavano e la via diventava polverosa, l’uomo avvertiva più forte e vicino il latrare che accompagnava il rumore dei suoi passi, svelti e solitari. Si teneva al centro della strada per evitare i traìni che erano addossati alle pareti delle case, mentre il candore di quelle mura sfumava nell’oscurità, al pari di macchie lattiginose.
Notò con un certo stupore come i cani non lo avessero riconosciuto e pensò che fosse a causa della sua urgenza. Ma lui non aveva alternative quella notte, doveva fare in fretta.
Era uscito precipitosamente di casa e così, indossati i pantaloni ancora nel buio della stanza dove stava dormendo, aveva finito di abbottonarli lungo la strada.
Appena lasciate alle spalle le ultime case, sentì su di sé il peso della solitudine e della notte, una strana sorta di timore che si palesò in un brivido sceso lungo la schiena, ma non a causa dei due grossi cani che gli si erano parati innanzi. Al contrario, una volta che li ebbe raggiunti, questi smisero di abbaiare, scodinzolando poi al suo fianco. Non era neppure il buio della campagna in una notte priva di luna a turbarlo, ma l’idea stessa di incontrare una persona la cui semplice vista lo intimoriva. Se soltanto fosse successo di giorno, pensò!
Braccia scheletriche sbucavano all’improvviso dalle tenebre circostanti, come per andargli incontro e afferrarlo. Erano i rami degli olivi, ma in quel momento a Vito tornavano alla mente le parole che tante volte i suoi genitori e i nonni gli avevano ripetuto: non si deve mai andare per le campagne nelle notti senza luna.
Avendo l’impressione di essere spiato, arrestò i suoi passi, ma fu solo per un attimo, poi riprese spedito il cammino.
La via stretta e polverosa, delimitata dai muretti a secco, aveva lasciato il posto a una sorta di sentiero che anche una sola persona faceva fatica a percorrere, pieno com’era di rovi i cui frutti a breve sarebbero maturati.
I cani che si erano tenuti fin lì al suo fianco improvvisamente si arrestarono. Vito fermò i suoi passi lanciando un breve fischio, poco più di un sibilo, per incoraggiarli a seguirlo, ma i due animali non ne vollero sapere, mettendosi poi a guaire.
C’erano un’infinità di storie sulla donna che da anni viveva sola, in quella zona sperduta, dentro una modesta costruzione fatta di un’unica stanza. Racconti carichi di superstizioni, come spesso accade quando riguardano figure che nel passato esercitavano una qualche forma di scienza: dottori, sciamani o santoni che fossero. Si trattava per lo più di vecchie storie che parlavano di streghe.
Ripensò alla donna che doveva incontrare, all’oscurità, e si rammaricò per il fatto che i due grossi cani non fossero più con lui.
Non c’era famiglia in paese che non avesse avuto a che fare con quella vecchia, che tuttavia si poteva incontrare di rado nel centro abitato e solo quando qualcuno, avendo bisogno della sua opera, la mandava a chiamare. Il resto del tempo quella lo trascorreva lontano da tutti, nelle campagne attorno al suo tugurio, a raccogliere erbe e bacche per le tisane che portava con sé quando era richiesto il suo aiuto.
A pochi passi dalla piccola costruzione notò una debole luce e l’ombra di una figura minuta e curva che si stagliava sulla parete opposta alla finestra. Non fece in tempo a bussare che la porta si aprì.
Ti stavo aspettando
furono le parole che uscirono da quella bocca, appena una fessura aperta su un viso completamente segnato dalle rughe, quasi fosse un campo sul quale era appena passato l’aratro. La donna aveva con sé un recipiente ricavato da una piccola zucca e un canestro coperto da una tovaglia, i cui angoli erano annodati al manico.
Erano da poco passate le cinque del mattino e il cielo andava schiarendo, quando presero spediti la strada per il paese. Il solstizio d’estate era ormai prossimo. A qualche passo di distanza, la vecchia procedeva dietro di lui, senza smettere di pronunciare delle parole, bisbigliate quasi cantando, come fossero una litania o una qualche formula magica. Vito afferrò solo qualcosa di quella cantilena: due città… ossa di un uomo contese… forse un santo…
Era meravigliato da come la donna riuscisse a tenere il suo stesso passo, apparentemente senza fatica alcuna. Doveva tornare a casa il più presto possibile e al tempo stesso voleva liberarsi della vicinanza di quell’essere che lo intimoriva.
Maria lo aveva svegliato durante il sonno più profondo e con un filo di voce a causa dei dolori gli aveva detto che il momento era arrivato. Lui le aveva dato immediatamente ascolto, scappando via nel cuore della notte.
L’anziana levatrice era già intervenuta per far venire al mondo le sue tre figlie e in cuor suo l’uomo sperava che fosse finalmente giunto il turno del tanto desiderato maschio.
A un tratto la vecchia si fermò, costringendolo a fare altrettanto e a voltarsi verso di lei.
Se è una femmina, chiamatela come vi pare. Sennò…
proseguì, puntando l’indice ossuto verso il suo volto, come fosse un’arma: Nicola lo dovete chiamare
.
2
La madre
Maria non aveva ancora ventisette anni quando partorì il quarto figlio. Nicola le sembrò un dono arrivato dal cielo, dopo le tre femmine e il lungo intervallo dall’ultima gravidanza. Era una donna minuta che non riuscì mai ad allattare più a lungo di qualche settimana i propri piccoli. Quel neonato poi, pur succhiando con tutte le sue forze, non tirava via neppure una goccia dai suoi seni minuti. Inutilmente aveva seguito i consigli di altre donne, provando a tenerlo attaccato a sé più a lungo, bevendo latte, mandando giù farinate. Neanche le piccole immagini messe sotto il suo cuscino da Carmela, che a trent’anni aveva già tirato su cinque figli ed ora stava allattando il sesto, avevano funzionato. Questa, appena terminato di spicciare i suoi servizi, andava a casa di Vito e Maria, portandosi dietro l’ultimo nato, per offrire poi il latte in più dei suoi prosperosi seni. Arrivava subito dopo pranzo, qualche volta anche dopo cena e, una volta entrata in casa, andava a sedersi sul letto, per poi attaccare subito il piccolo Nicola al petto. L’altra si metteva accanto a lei, animata da sensazioni contrastanti. Da una parte c’era la gratitudine, dall’altra una forma di gelosia ed impotenza nel vedere il proprio bambino che si nutriva da un corpo che non era il suo. Maria aveva pianto di nascosto.
Superate le prime settimane dal parto, Nicola iniziò a crescere, non tanto di peso però, quanto in altezza. Il piccolo sembrava di una lunghezza superiore a quella di tutti gli altri suoi coetanei.
Già per le tre figlie femmine Maria non aveva avuto latte a sufficienza ed era riuscita a crescerle grazie a quello di capra. Ed ora che finalmente il maschio era arrivato, quel desiderio di sentirlo attaccato al seno la torturava e, di nascosto, quando nessuno la vedeva, accostava il suo piccino al petto, anche se dal capezzolo non usciva nemmeno una goccia di latte. Aveva smesso di sperare che così facendo ne avrebbe stimolata la produzione, solo che le piaceva tanto tenerlo stretto a sé in quel modo, quasi potesse comunque dargli un po’ della sua vita.
Da quando aveva partorito un senso di debolezza la accompagnava lungo l'arco dell’intera giornata. Per questo aveva chiesto consiglio al medico, e lui era venuto fino a casa, anche per constatare le condizioni del piccolo Nicola. Quella visita le era costata un boccione d’olio, messo da parte proprio per i casi di necessità, ma la gioia era stata immensa nel sentire le parole di Don Vincenzo.
Il piccino è forte e cresce bene!
Poi il medico le aveva preso una mano, accogliendola fra le sue, raccomandandole di riposarsi. Già, e come avrebbe potuto? Subito dopo il parto era dimagrita troppo velocemente. All'inizio un po' tutti l’avevano presa in giro.
Ma che ti sei messa in testa, vuoi fare la ballerina?
le ripeteva in continuazione Vito. Guarda che a me le donne senza un po' di carne addosso, non mi sono mai piaciute!
Poi però, vedendola diventare ogni giorno più debole, come ci fosse una forza nascosta che la mangiasse dall’interno, smise di scherzarci sopra e anche lui iniziò a preoccuparsi.
Il medico cominciò a presentarsi regolarmente una volta alla settimana.
Avresti bisogno di riposo e soprattutto di cambiare aria
.
Don Viciè, con tutto il rispetto, voi non mi state proponendo una cura o una medicina, ma una vacanza! Pensate che con un marito, quattro figli e una casa da mandare avanti io posso prendere e andare in villeggiatura?
si scherniva la donna.
Se vuoi continuare a occuparti di loro, devi avere più cura di te, in questo momento
E come faccio, se non ho nemmeno i soldi per pagare lei?
Guarda che non mi devi nulla, queste sono visite di cortesia, lo faccio per sapere come state tutti quanti
mentì l’anziano medico. Tanto a me non costa niente passare di qua prima di tornare a casa
.
Passarono altri mesi e il dottore prese a farsi vedere sempre più assiduamente. Vedeva crescere bene il piccolo Nicola, che ormai camminava da solo, ma era sempre più preoccupato per Maria. Ogni cura sembrava inutile, nonostante le fiale di vitamine e le iniezioni di ferro che a volte lui stesso le faceva. La donna continuava a dimagrire e il suo viso, ormai scavato, era sempre più pallido. Iniziò a non avere più la forza per restare in piedi per più di due o tre ore al giorno.
Un giorno il medico trovò Maria ancora a letto che era quasi mezzogiorno, allora prese Vito da una parte e gli comunicò che era necessario ricoverarla. Lui non poteva fare molto di più in quelle condizioni, mentre in ospedale ci sarebbe stato modo di fare tutte le analisi necessarie. Tornò il giorno dopo e si misero d’accordo: li avrebbe accompagnati con la sua macchina il mattino seguente. Aveva già telefonato a un suo caro collega di Brindisi, primario da parecchi anni, che gli aveva assicurato un letto per la donna.
Maria venne ricoverata nel reparto di medicina generale. Trovò posto in uno stanzone che somigliava molto alla camerata di una caserma, con quei sedici letti addossati alle pareti più lunghe, otto per parte. Don Vincenzo volle restare fino a che non la vide sistemata, poi accompagnò le sue poche parole con un gesto del capo verso Vito:
Io vado alla macchina…
Restò a guardarlo mentre usciva, quindi si chinò sulla moglie che gli aveva fatto segno di avvicinarsi.
Mi raccomando i piccini…
Stai tranquilla, ormai le bambine sono cresciute e a Nicola ci penserà Carmela
.
A Maria si velarono gli occhi di lacrime.
"Eh! Non fare