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Il Pozzo delle anime
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E-book280 pagine4 ore

Il Pozzo delle anime

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Info su questo ebook

Ultimo decennio del secolo scorso, Tuscia sud orientale, giugno. Cinque tombaroli si imbattono in un inquietante segreto tumulato da millenni nella pancia di una montagna di peperino. Un “lavoretto di normale amministrazione” li porta al contrario ad una scoperta dalle implicazioni sconvolgenti per l’intero genere umano.
In bilico tra presente e passato, muovendosi sinuosamente fra storia, fantascienza e letteratura, Il pozzo delle anime ci accompagna in un affascinante viaggio senza tempo, immergendoci nella mente di chi, credendosi ad un passo dalla ricchezza, non esita ad immolare a questo effimero anelito tutta la sua umanità.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2021
ISBN9788830642928
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    Anteprima del libro

    Il Pozzo delle anime - Ardelio Loppi

    cover01.jpg

    Ardelio Loppi

    Il Pozzo delle anime

    © 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-3655-2

    I edizione aprile 2021

    Finito di stampare nel mese di aprile 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Il Pozzo delle anime

    "Sono l’unico uomo sulla Terra

    e forse non c’è Terra né uomo.

    Forse un dio mi inganna.

    Forse un dio mi ha condannato al tempo…

    Quella lunga illusione."

    Jorge Luis Borges

    Al Professore:

    vedrai nei tuoi incubi peggiori ciò che io ti ho taciuto.

    Propaggini del vulcano Cimino, Paleolitico Superiore.

    Una lussureggiante, intricata vegetazione ammanta il tavolato che dalle pendici della montagna declina verso valle. Soltanto ai bordi di profonde voragini essa dirada appena lasciando scoperte vaste zone di nuda roccia grigia. Il vento impetuoso piega le cime degli alberi trascinando mulinelli di foglie impazzite, minacciose nuvole nere oscurano il cielo fin oltre l’orizzonte. Pochi istanti e l’esigua luce del crepuscolo si contrae repentina sul terreno fino a scomparire del tutto.

    Un fulmine squarcia d’improvviso l’aria carica di elettricità statica. La spettrale luminescenza scivola lungo le pareti a perpendicolo di una delle gole rischiarando un folto gruppo di uomini e donne. Sono schierati all’ingresso di una grande caverna, appena sotto al margine della fenditura. Abbigliati con semplici pelli conciate, osservano il cielo in religioso silenzio. In basso un impetuoso corso d’acqua si riversa mugghiante in una cascata. Torna il buio, il rombo del tuono scuote la terra.

    Davanti a tutti, due individui sembrano più assorti dei loro compagni. Il più alto, un vero gigante dallo sguardo risoluto e fiero del capo, muove alcuni passi rivelando di essere claudicante. Indica il cielo preoccupato rivolgendosi all’altro con suoni gutturali. Quello, un vecchio tutto pelle e ossa, si guarda intorno con la tipica fissità dei ciechi: una devastante cataratta ha reso i suoi occhi completamente bianchi. Porge l’orecchio come ad ascoltare qualcosa precluso agli altri. Quindi risponde lapidario nello stesso, incomprensibile idioma.

    Un forte brusìo accoglie quei versi. Le donne fuggono nella caverna in preda ad un profondo terrore. Dagli sguardi spauriti degli uomini si capisce che farebbero volentieri altrettanto, osservano però il possente individuo che ha parlato per primo. Finalmente questi fa un cenno di assenso, soltanto allora indietreggiano sollevati.

    I due rimangono soli. Ora il vento trasporta nitido uno stridulo, inquietante rumore. Il vecchio spalanca le braccia verso il cielo, attacca una sommessa litania, un suono ritmico che accompagna con una danza sincopata. I suoi movimenti lo portano a ridosso del compagno, solleva le mani tastando l’aria fino ad appoggiarle sul suo torace. D’improvviso interrompe il canto con un sospiro profondo, tocca un bulino che l’altro porta appeso al collo con dei legacci di cuoio e borbotta qualcosa in tono grave.

    Il gigante scuote la testa infastidito, lo spinge via con gesto perentorio. Il cieco scuote la testa rassegnato e raggiunge lentamente gli altri all’interno della caverna. L’altro lo accompagna con lo sguardo, dalla sua espressione traspare un profondo disagio.

    Si volta di nuovo a scrutare il cielo, come per darsi coraggio stringe in una mano il bulino. Muove alcuni passi titubanti, quindi prende ad inerpicarsi verso l’alto con passo deciso. Nonostante la gamba malata, la sinistra, in breve raggiunge il pianoro superiore.

    La sua attenzione si fissa sulla cima della montagna: un bagliore innaturale ne delinea nettamente i contorni. Poco dopo la luminescenza cresce d’intensità scavalcando la cresta, l’uomo è costretto a ripararsi gli occhi abbacinati con le mani. Il rumore, un sibilo intermittente, cresce sempre più. Questo non gli impedisce di percepire un fruscio alle sue spalle.

    Estrae fulmineo una pietra scheggiata dal perizoma e scarta di lato pronto a colpire. I versi striduli del vecchio cieco lo fermano appena in tempo. Il gigante gli urla qualcosa infastidito, poi lo abbraccia con trasporto. Il vecchio lo scansa però allarmato annusando l’aria. Mormora qualcosa intimorito. L’altro torna a brandire la sua arma.

    Da un basso cespuglio sbucano due energumeni irsuti, impugnano delle mazze. Dai tratti fortemente marcati, quello che più li caratterizza sono però le spropositate arcate sopraccigliari. Si fanno avanti minacciosi sino a fronteggiarli, lo scontro sembra ormai inevitabile.

    Un fischio prolungato costringe però tutti a voltarsi con apprensione. Il vecchio sgrana gli occhi nel vano tentativo di vedere qualcosa, gli altri spalancano la bocca per lo stupore.

    Una gigantesca forma scura, molto simile ad un insetto, sbuca dalla luminescenza ed inizia a planare nella loro direzione. La precede un vento torrido che piega gli alberi come al passaggio di un ciclone. Il frastuono costringe gli spauriti individui a mollare le armi e a comprimersi le orecchie con le mani. Un improvviso reticolo di luci azzurrognole prende a vorticare sul terreno. L’apparizione tocca il suolo sollevando alte nuvole di polvere e vomitando lapilli.

    Quasi immediatamente il chiarore si attenua, ogni rumore cessa come d’incanto e il vento si placa. Inizia però a piovere, grosse gocce che producono tonfi ovattati. Il gigante zoppo e gli altri due, immobili, con le mani ancora premute sulle orecchie, contemplano la visione con le mascelle pendule. Il vecchio continua a sgranare gli occhi. La pioggia si infittisce.

    Dal ventre di quella cosa prodigiosa si spalanca un’apertura, ne trapela un fitto velo come di vapore che lascia appena intravedere delle sagome goffe, una rampa si allunga verso terra. Come aspirata dalla notte, la coltre fluttuante si dirada presto rivelando alcuni esseri dai contorni antropomorfi appesantiti da corazze bianco-latte. Percorrono la rampa schierandosi circospetti in semicerchio, imbracciano dei corti bastoni rilucenti che brandiscono come a volersi difendere. Dall’imboccatura si affaccia poi una figura dallo scafandro rosso scarlatto, gli altri chinano la testa con deferenza.

    A quella vista il gigante esclama qualcosa con voce roca lasciandosi cadere in ginocchio, i due energumeni lo imitano. Il vecchio cieco inizia a piagnucolare.

    Buio. Un fruscio appena percettibile. Poi un altro, accompagnato da gemiti. Versi interrogativi, una lunga pausa. Un grido allarmato, l’impatto di un corpo contro qualcosa. Respiro affannoso, passi malfermi. Tonfo di una caduta, respiro affannoso, versi di raccapriccio. Leggeri colpi contro qualcosa, forse una parete rocciosa. I colpi aumentano di intensità fino a diventare forsennati. Pausa, il respiro si trasforma in rantolo.

    Infine in un lungo urlo straziante.

    Tuscia sud orientale, giugno 1995.

    Fu mentre osservavo il sorgere del sole dalla sommità della grande spaccatura, che realizzai appieno l’enorme fardello rappresentato dalla nostra scoperta. In basso, il rombo della cascata sembrava volermi intimorire ancor più. Cosa dovevamo fare, adesso?

    Il rauco verso del falco echeggiò improvviso. Mi sporsi sul baratro ben conscio che difficilmente avrei mai più assistito ad una cosa del genere. Come una freccia esso saettò infatti verso il bersaglio e, pochi istanti dopo, cento metri più in basso polvere mista a penne e ciuffi d’erba esplosero come d’incanto intorno alla scena. Poi giunse il rumore, uno squittio prolungato seguito dai colpi sordi del becco sulla preda. Il turbinìo sollevato dall’attacco cessò quasi immediatamente, ma ai miei occhi tutto si era svolto come nelle immagini rallentate di un sogno. L’implacabile predatore si alzò poi in volo, tra gli artigli stringeva qualcosa di informe.

    - Un topo? -

    Mi voltai, era Belzoni.

    - Troppo grosso, una lepre forse. -

    L’uccello passò alto sulle nostre teste dirigendosi verso est, lo osservammo finché non scomparve ingoiato dal sole nascente.

    Il mio amico si avvicinò sornione: - Cos’è sta’ faccia? Siamo ricchi ormai! -

    - Non ne sarei così sicuro al tuo posto. -

    Non rispose, si irrigidì, invece, osservando il cielo. Il martellare ritmico di un elicottero ci costrinse a nasconderci precipitosamente.

    - Gli sbirri - commentò Belzoni riparandosi gli occhi dal sole, - la solita visita di routine. -

    L’ombra dell’insetto metallico ci strusciò sopra veloce.

    - È inutile continuare a tergiversare. - Mormorai.

    Si accese una delle sue pestilenziali sigarette: - Era ora che ti decidessi, dimmi tutto. -

    - Quello che ho visto là sotto è pazzesco. -

    - Posso immaginarlo... dimmi tutto. -

    Il momento tanto temuto era infine giunto.

    Questo non mi impedì tuttavia di tenere duro: - Non intendo questo. -

    Sghignazzò: - Ma davvero? E quando pensi di dirmi cos’hai visto là sotto? -

    - Mi dispiace non posso. -

    Strabuzzò gli occhi: - E pretendi che faccia finta di niente? -

    Già, come dargli torto? Ma lo stesso, irrefrenabile impulso che aveva guidato i miei gesti fino ad allora non voleva saperne.

    Sospirai, poi: - Fidati, ti ho mai deluso finora? -

    - No, anzi... - sarcastico, - vuoi iniziare proprio adesso? -

    - So bene quanto ti costa ma ti chiedo un ultimo sforzo... non complicarmi le cose. -

    Indicò un punto imprecisato sotto i nostri piedi: - ‘Fanculo! Ho sputato sangue laggiù! - Gettò lontano il mozzicone della Gauloises, - Avevo ancora qualche dubbio ma va a finire che ha ragione il Professore! -

    - Che vuoi dire? -

    - Che sei completamente pazzo! - I suoi occhi saettarono intorno tutta la sua frustrazione.

    Calò un silenzio pesante, uno di quei momenti in cui si decidono le sorti di un rapporto. D’altronde avevo già fatto la mia scelta, di per sé così drastica da aver messo in conto ben più della fine della nostra amicizia. La posta in gioco era davvero enorme, non lo avrei biasimato se non mi avesse più guardato in faccia ma non potevo correre il minimo rischio.

    Dopo un po’ si limitò ad annuire sconsolato: - Va bene, ormai ti conosco, se hai deciso di non parlarne piuttosto che ripensarci ti faresti ammazzare. Ma forse è meglio così… - Si accese nervosamente un’altra sigaretta, - Però adesso che facciamo? -

    Scrollai le spalle: - Ecco, era questo che intendevo dire… i gemelli cosa dicono? -

    - Non aprono bocca da quando siamo risaliti, ma credo che ormai accetteranno qualsiasi tua decisione. - Abbozzò un sorriso, - Questo vale anche per me. -

    Mi scappò una risata strozzata: - Anche se sono pazzo? -

    - Magari... - si allontanò a testa bassa, - magari tu lo fossi davvero. -

    Tornai a fissare l’abisso. Una parte di me, quella romantica ed avventurosa voleva gridare al mondo ciò che i miei occhi avevano visto. Ma l’altra, razionale quanto codarda rabbrividiva all’idea.

    Maggio di un anno prima.

    Quando il Professore mi parlò per la prima volta della Selva, del tesoro storico e ambientale che rappresentava, manifestai subito il desiderio di visitarla. D’altro canto mi parve entusiasta di condurci qualcuno che potesse capire ed apprezzare le sue notevoli conoscenze archeologiche. Viveva quasi come un eremita, non amando particolarmente altro che i suoi anfratti sperduti in luoghi praticamente inaccessibili, o le antiche vestigia di cui il nostro territorio è disseminato.

    Non molto alto ma robusto, a caratterizzare il Professore era quel suo abbigliamento da bohèmien fin de siècle. Sempre impeccabilmente rasato, non di rado capitava tuttavia di incontrarlo con scarpe di diverso colore oppure con la patta sbottonata, come se avesse la testa da un’altra parte. Possedeva un guardaroba che era stato di prima qualità, eppure le sue giacche erano tutte rattoppate sotto al gomito e le variopinte camicie stropicciate o lise all’inverosimile. Lunghi capelli bianchi gli conferivano poi quell’aura di trasandata saggezza tipica dei disadattati per scelta. Ostentava la prestanza di un sessantenne piuttosto in forma, ma in realtà non ho mai saputo quanti anni avesse.

    Una volta un aristocratico inglese in visita da queste parti, vedendolo seduto sui gradini della cattedrale gli allungò una manciata di spiccioli. Lui si era ficcato i soldi in tasca senza scomporsi. Cosa ti fa pensare che io sia un mendicante? Gli chiese appena dopo con perfetta padronanza della lingua. L’altro aveva sgranato gli occhi imbarazzato senza sapere cosa rispondere, e lui: Non importa, grazie lo stesso… ma adesso come diceva Diogene: scansati dal sole che mi fai ombra!

    Questo era il Professore, un uomo strano e misterioso che un giorno di parecchi anni prima era giunto in città come piovuto dal cielo, e seppure mi avesse detto di essere sempre stato un globetrotter da allora non se ne era più andato. Incredibile a dirsi, la nostra amicizia era nata attraverso una reciproca capocciata mentre strisciavamo, ignari della presenza l’un dell’altro, nei meandri di una necropoli etrusca. Un lungo, imbarazzato silenzio, poi come due Golem rincoglioniti partoriti dai vapori demenziali di Mell Brook ci eravamo stretti la mano. A posteriori devo dire che potevamo incontrarci soltanto così, e magari fu proprio quella grottesca situazione a cementare tanto la nostra amicizia.

    La prima impressione che ebbi della Selva fu quella di un pezzo, miracolosamente ancora intatto, del turbolento passato geologico di questa terra. In quella zona i contrafforti del Monte Cimino declinano nella piana alluvionale del Tevere, dando vita ad un paesaggio molto simile a quello di certi vecchi film americani. Profonde gole spaccano il pianoro superiore come ferite mai rimarginate di sconvolgimenti tettonici ed eruzioni di portata inimmaginabile. Enormi massi monolitici e minacciosi pinnacoli di quarzite, simili a guglie aliene che catturano lo spirito come al cospetto dell’opera di una divinità impazzita, svettano un po’ ovunque in un caos primordiale di sapore iperboreo. Il tutto soffocato da una folta macchia mediterranea ammantata da rovi di dimensioni che nulla hanno da invidiare a quelli di una giungla tropicale. Non mi sarei stupito più di tanto, insomma, se da quell’intrigo fosse sbucato d’improvviso un gorilla di montagna.

    - Che posto incredibile. - Fu infatti la prima cosa che mi scappò detta.

    - Bello vero? - Il Professore si beava di avermi provocato una simile emozione a così poca distanza da casa, - Ora capisci perché sostengo che è inutile farsi migliaia di chilometri se prima non si impara a conoscere la propria terra? Questa è stata una delle ultime roccaforti degli Etruschi dopo la battaglia del Lago Vadimóne: i romani li spazzarono via intorno al trecentonove avanti Cristo. Dione Cassio ha scritto che nell’Urbe capirono di aver vinto la battaglia dal numero dei cadaveri nemici trascinati fin lì dal Tevere. -

    Mi ero guardato intorno: - Dove si trova il lago? -

    Alzò un braccio in direzione sud-est: - A qualche chilometro da quella parte. -

    - Qui intorno c’era quindi una cittadella? - Chiesi con interesse.

    - È lì che stiamo andando. -

    - Non finirai mai di stupirmi. -

    Mi osservò perplesso: - Per quale motivo? -

    - Conosci i posti più impensati! Questo, ad esempio, come lo hai scoperto? -

    Si fermò: - Lo conosco da sempre. -

    - Qualcuno te lo avrà pur mostrato... -

    Una smorfia serafica gli increspò le labbra: - Non ricordo.-

    Però rammentava avvenimenti molto più remoti e indiretti. Lasciai cadere la cosa, quando si manteneva sul vago era inutile insistere.

    Raggiungemmo uno sperone di peperino affacciato su un profondo canalone, sulla destra si apriva la Valle del Tevere. Il vasto banco di roccia era pressoché privo di vegetazione e potevo vedere gli antichi vasconi per la raccolta delle acque piovane, i fori di sostegno dei pali delle abitazioni e quelli, proprio ai margini del dirupo, che avevano forse sostenuto una piattaforma per calarsi in una grande grotta sottostante.

    - Ci siamo. - Disse.

    - Chi ha costruito questa roccaforte se ne intendeva di ingegneria militare. - Commentai ammirato.

    - Già, era stata concepita per poter essere difesa da pochi uomini. - Indicò un punto alle nostre spalle, - Laggiù, da dove siamo venuti esisteva un muro alto almeno sette metri e largo tre dove potevano attestarsi la maggior parte dei combattenti, qui ne bastava una decina per controllare tutto il fronte del precipizio. -

    Guardai di sotto: - Saranno cento metri. -

    - Più o meno. -

    Cercai di immaginare l’ultimo, feroce attacco delle legioni rese idrofobe dal lungo assedio: - I Romani non sopportavano l’idea di essere tenuti in scacco proprio in casa loro, alla fine li avranno massacrati come pecore. -

    Sorrise: - Allora, come sempre, la vita umana era ritenuta sacra solo dai poeti. -

    - Secondo te per quale motivo l’uomo sembra aver bisogno del sangue come dell’acqua o del cibo? -

    - Il sangue degli altri è un inno alla nostra stessa vita, non hai idea di quanta gente si compiaccia delle disgrazie altrui. In ogni caso credo che sia il quotidiano a renderci idrofobi. -

    - La noia? -

    Scrollò le spalle: - Intere civiltà si sono sgretolate per noia, i matrimoni implodono per noia e pure le amicizie si logorano per noia. -

    - Trovo incredibile la nostra capacità di adattarci praticamente a tutto, senza tuttavia riuscire a trarre insegnamento dalle vicende passate. -

    Fissò lo sguardo su un punto alle mie spalle: - Il fatto è che non ce ne frega un cazzo. -

    - La risposta non può essere così semplice. -

    - Tu dici? Vedi, il nostro più grande problema è che prima o poi dobbiamo morire, e questo ci sgrava da ogni responsabilità diretta nei confronti di un futuro dove non ci saremo più. -

    - E i nostri figli? - Obiettai.

    Continuava ad osservare con interesse l’opposta parete del canalone: - Sappiamo che anche loro diverranno cibo per vermi e che il lasso di tempo che divide le generazioni è assolutamente irrilevante dal punto di vista del tempo geologico, quello vero, per intenderci. Ecco allora che concentriamo i nostri sforzi all’indirizzo del quanto prima. Anche la pazienza è decantata soltanto dai poeti. -

    - E secondo te questo è sufficiente a spiegare le nostre amnesie storiche? -

    Si sedette su un masso: - Ma certo: se qualche stronzo si dimostra irremovibile su una questione che consideri prioritaria nella realizzazione delle tue ambizioni, che fai, aspetti venti o più anni che cambi idea? No, si tratta di un lusso che solo un immortale potrebbe permettersi. O Dio, vedi tu. Ai comuni mortali non resta che spianarsi la strada in qualsiasi altro modo, omicidio incluso. - Strinse le palpebre come per mettere a fuoco qualcosa, - Ecco quindi che le situazioni sono destinate a ripetersi incessantemente trascinandosi dietro la solita orgia di faide, lacrime e sangue. I moniti del passato? Chi se ne frega... è passato, appunto. -

    Mi grattai la testa divertito: - E insomma, dovremmo rassegnarci a questa logica mostruosa e sperare soltanto in un futuro benevolo? Sempre che, ovviamente, nel frattempo qualcuno non ci consideri gli stronzi di turno e decida di spararci in bocca! -

    Si limitò a ridacchiare come se la cosa non lo riguardasse più di tanto. A volte il suo cinismo aveva la capacità di darmi sui nervi. Chissà, magari si trattava invece di un personalissimo antidoto contro la vita?

    Imbracciai la macchina fotografica che mi ero portato dietro zoomando nella direzione in cui aveva fissato lo sguardo con tanto interesse. Il sole stava tramontando ed ora illuminava perfettamente la maestosa muraglia di peperino. Grazie al potente Nikor80/300 potevo distinguere anche le più piccole crepe. Improvvisamente la mia attenzione fu attratta da qualcosa. Ebbi l’immediata sensazione che non eravamo lì per caso.

    L’inconfondibile formicolio dell’adrenalina mi pervase in pochi istanti: - Ti decidi a dirmi il vero motivo per cui mi hai portato qui? - Chiesi.

    Seguì un lungo momento di silenzio, poi: - Potrei dirti che mi sei simpatico e che ho voluto farti un regalo. -

    Lo sentivo contratto: - Potresti, certo, ma non è così vero? -

    Si schiarì la voce come faceva soltanto nelle grandi occasioni: - Sei una delle poche persone di cui mi fidi, ho bisogno di te. -

    Continuavo ad osservare l’imponente composizione geologica: - Parla. -

    - Anni fa, mentre camminavo da queste parti con un binocolo mi capitò di vedere qualcosa di molto strano. A circa tre quarti della parete che stai osservando... -

    - Notasti una fessura circolare praticamente invisibile ad occhio nudo, una specie di tappo incastrato nella roccia. - Abbassai la macchina fotografica.

    Annuì in direzione di ciò che avevo appena visto.

    - Siete pronti? - Il Professore si calò gli occhiali sul naso apprestandosi a spuntare la lista del materiale che aveva in mano, eravamo in un garage della città vecchia. I gemelli, Belzoni ed io avremmo poi caricato il tutto sopra uno sgangherato Bedford affittato per l’occasione.

    Achille e Stallone, sulla trentina, erano due energumeni di quasi due metri. Li distingueva soltanto il diverso taglio di capelli. Quelli di Stallone erano raccolti in una lunga coda, il fratello aveva optato per una spettacolare acconciatura rasta. Entrambi culturisti ad alto livello, qualche anno prima un brutto episodio li aveva però costretti al ritiro: pestarono la giuria dei campionati europei in diretta televisiva. Da allora stazionavano nell’orbita intrigata dei mercanti d’arte.

    Belzoni, una cinquantina d’anni ben portati, era il più geniale ed esperto tombarolo sulla piazza. D’altro canto doveva proprio a questo il suo soprannome, mutuato da quel Giovan Battista Belzoni entrato nella storia dell’archeologia per essere stato il primo ad entrare nella piramide di Chefren. Piuttosto alto, ma così magro da sembrare davvero inadeguato per un’attività come la sua, racchiudeva in realtà un concentrato di nervi e muscoli dalla forza fuori dal comune. Fino

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