La zona grigia: Cronaca di un sequestro di persona
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E ancora: qual è il filo sottile che lega tutti i personaggi?
Questa è la cronaca di un sequestro di persona molto brutto, accaduto alla fine del 1978 in Sardegna e oggi completamente dimenticato.
La vittima, un ingegnere della Ferrari, viene rapito nella zona di Villasimius, lontano dai clamori della Costa Smeralda, dove avvenivano, in quel momento, quasi tutti i sequestri.
L’ingegnere Bussi non verrà mai rilasciato e il suo corpo non verrà ritrovato.
Una storia maledetta dove un pentito si pente di essersi pentito, un latitante incontra personaggi improbabili, testimoni che si inventano piccole storie, giudici che suggeriscono ai testimoni, imputati che suggeriscono ai giudici e, soprattutto e sopra tutti, il giudice considerato in quegli anni “lo Sceriffo”: Luigi Lombardini.
Un giallo molto cupo, che non è un giallo, ma solo cronaca e che oggi è diventata la ricerca di un’altra verità.
La seconda edizione si arricchisce di due interviste: la prima alla figlia di Agostino Mallocci, condannato per il sequestro Bussi ed oggi deceduto; la seconda a Egidio Carcangiu, condannato anche lui per il sequestro ed oggi un uomo libero. All’interno di queste due nuove storie si giunge a un interessante ma conturbante epilogo: la verità che arretra e si scompone, la verità che paradossalmente aggiunge altri occhi e altre interessanti letture. La verità che, sciogliendosi, rivela “nuove” verità.
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Anteprima del libro
La zona grigia - Cassitta Giampaolo
Giampaolo Cassitta
La zona grigia
Cronaca di un sequestro di persona
ISBN 978-88-7356-791-2
logo_fmtCondaghes
Indice
Premessa alla seconda edizione
Introduzione. Uno sceriffo in Barbagia
I. Nascita di un sequestro di persona
II. Una piccola storia apparentemente
normale
III L’esame di un imputato
IV. Il gioco delle verità
V. Un sequestro tragicamente anomalo
VI. Il sequestro, Bussi e la Ferrari
VII. Gli strani comunicati
e il pasto delle murene
VIII. Il contatto mancato e il fucile nell’ovile
IX. I primi arresti e i primi errori: due banditi con lo stesso ruolo
X. Il processo del secolo
XI. La sentenza
XII. Il finale
Appendice. Storia di un calvario giudiziario
Epilogo
L'Autore
La collana Pósidos
Colophon
Premessa alla seconda edizione
Quando uscì, nel 2005 il libro la zona grigia
, non pensavo che mi sarei dovuto occupare di una seconda edizione. Un po’ perché non era propriamente un romanzo e un po’ perché l’argomento era difficile, complesso contorto e ormai superato
. Di sequestri, per fortuna, in questa terra non ce ne sono più stati e questa è una splendida notizia. Eppure, molti che mi incontrano o che mi scrivono chiedono sempre se questa storia è proprio vera, oppure è un saggio romanzato.
La storia è dichiaratamente vera ma è la verità che ha diverse facce e quindi questa è, come dire la verità processuale. Al libro, tutto sommato mancava qualcosa. La voce dei protagonisti. Quando l’editore mi ha proposto una nuova edizione ho subito accettato perché mi dava l’occasione per dare voce a chi, all’interno di questo processo non aveva avuto molta risonanza, nonostante fosse l’imputato e quindi, a buon diritto il protagonista.
Sono arrivato tardi. Purtroppo Efisio Mallocci è morto lo scorso anno e, nonostante le promesse di una intervista da uomo finalmente libero
non ci siamo riusciti. Il destino ha disegnato altre contorte strade. Ma sul cammino ho comunque incontrato due protagonisti: la figlia di Mallocci, Monica e un altro imputato innocente
, Egidio Carcangiu. Li ho sentiti, ci siamo parlati e ci siamo osservati a lungo. Ho deciso con loro, insieme a loro, di aggiungere un epilogo a questa storia. Un epilogo che non regala troppa allegria ma ci porta, probabilmente ad una strana conclusione: dietro le sentenze, nelle pieghe delle verità o nelle zone grigie
– anche le più atroci – sono nascoste piccole vite che pulsano e che hanno diritto di essere radiografate. Non ci sono nei processi o negli articoli di giornale. Non ci sono nei riflettori dei media. Ma esistono. Ringrazio Monica Mallocci per il suo coraggio e Egidio Carcangiu per la serena solidità dei ricordi e ringrazio Maria Antonietta Dessì, Giuseppina Nonnis e Pietro Serrau che non si fermano alle semplici apparenze.
Giampaolo Cassitta
Cagliari, maggio 2010.
Introduzione
Uno sceriffo in Barbagia
Perché ci occupiamo di questa storia, dove ormai tutti i protagonisti sono defilati, alcuni scomparsi, altri rientrati nelle proprie famiglie dopo aver scontato una pena, altri ancora con pochi spiccioli di una condanna da espiare e con ricordi ormai assottigliati?
Ce ne occupiamo perché ai suoi tempi fu una storia importante, che permise alla giustizia di capire alcuni meccanismi che si innescavano nel ventre di un sequestro di persona; che permise di scardinare dei progetti da attuare o crimini già consumati, che diede la possibilità di assicurare molti sequestratori alla giustizia, che partorì piccoli dissapori, minuscole incongruenze nell’autostrada della memoria, dando, probabilmente, un peso eccessivo alla spettacolarizzazione, dimenticando – come spesso accade – il risvolto umano, il minimalismo storico degli eventi, le piccole cose, divorate dentro la costruzione di un maxi processo. Un processo che la stampa nel 1982 definì il processo del secolo
.
Un processo che comincia il 10 febbraio del 1982 e viene celebrato in una palestra, chiamata appunto palestra bunker: quella di Monte Mixi, a Cagliari.
Questa originale aula di giustizia vedrà sfilare novantatre imputati. Di questi, sessantasette sono detenuti, ventiquattro a piede libero e due sono latitanti. I testimoni saranno circa un migliaio e la sentenza di rinvio a giudizio del giudice istruttore Luigi Lombardini è di 1.174 pagine.
Un processo che raccoglie otto sequestri di persona: quello di Luca Locci, Puppo Troffa, Pietrino Cicalò, Giampiero Arba, la famiglia Schild, (Annabelle, Daphne e Rolf Schild) Giancarlo Bussi, Pasqualba Rosas e i fratelli Marina e Giorgio Casana. Nomi divenuti, loro malgrado, famosi negli anni a cavallo tra il 1978 e il 1979.
Un processo fortemente voluto da un Giudice che ha avuto mille definizioni, mille collocazioni e che ha costruito mille zone d’ombra. Amato ed odiato, inviso e idolatrato, sempre dentro le architetture dei sequestri di persona, sempre dentro i ricordi di molti sequestratori, di indagati, di colpevoli e di innocenti.
Nel mezzo di queste storie Luigi Lombardini si colloca come protagonista, incurante degli attacchi dei nemici che covavano anche all’interno della magistratura, indifferente alle accuse dei giornalisti, di alcuni storici, sociologi.
Strano personaggio Lombardini.
Vecchio modo di condurre le indagini.
Sempre inquisitorie, intrise di minacce, arresti velocissimi, accuse enormi, massiccio uso della restrizione della libertà, utilizzazione sproporzionata dell’isolamento giudiziario, interrogatori ad orari impossibili, a volte senza neppure il cancelliere. Si recava in carcere per interrogare anche alle tre del mattino, raccontano molti imputati, ma non verbalizzava.
Curioso personaggio Lombardini.
Da molti definito un eroe, da altri un semplice sceriffo. Per ventidue anni si occupa di sequestri di persona. Sino al 1989, quando l’entrata in vigore del codice Vassalli
– che abolisce la figura del Giudice Istruttore – lo relega ad una semplice comparsa. Sarà il suo problema principale: uno sceriffo non poteva sopportare questo nuovo ruolo.
Non lo poteva sopportare e probabilmente non lo sopportò.
Curioso e potente ma anche credibile.
Riesce ad imbastire una tela gigantesca partendo da piccole e astute considerazioni.
Non ama il dialogo. Preferisce il monologo, l’avanzare incessante delle domande, lo sfaldarsi delle risposte, la disintegrazione degli alibi.
Non ama le giustificazioni. Se per lui un imputato è colpevole straccia qualsiasi possibilità di difesa, perché potrebbe distruggere il suo castello. Se un imputato non parla nascono le minacce, promette nuovi arresti tra i fratelli, i genitori.
Un duro.
Oppure un folle. Lucido. Si racconta che aveva il gusto dell’avventura e che si divertiva con il paracadutismo.
Un giorno, giurano in molti, si stava buttando per un lancio, senza paracadute. Lo presero in tempo. Non si scompose, aggiunse soltanto: «Ma che mi poteva succedere? Io sono Dio»¹.
Un Giudice Istruttore duro. Come ce ne sono pochi a quei tempi.
Ottiene risultati.
È quello che conta.
Quello che la gente chiede. Quello che lo Stato vuole.
Un giudice sceriffo Luigi Lombardini, che sarà schiacciato dagli eventi, dal nuovo corso della giustizia, dal modo diverso di condurre indagini. Non si troverà dentro queste nuove garanzie. Non riuscirà ad essere il Giudice unico per tutti i sequestri di persona che avvengono in Sardegna.
Non lo sopporterà. Vagherà dentro colori non definiti e non definibili.
Un non colore soprattutto: né rosso né nero, ma grigio.
Probabilmente grigio.
Il grigio è un colore amorfo, usato prevalentemente per smorzare, nascondere, attutire, regalare scenari velati, senza contorni.
Il grigio, nella letteratura di tipo criminologico, ha un significato metaforico, intermedio: è lo spazio che intercorre tra il chiaro e l’oscuro, tra la verità e la menzogna; è, per così dire, un mondo di confine, una terra di nessuno popolata da strani individui, senza un numero preciso, senza un apparente obiettivo, se non quello di miscelare tutti i colori forti ed arrivare ad ottenere un non colore: il grigio appunto.
Dentro questo colore il nostro Giudice si interessa del sequestro di Silvia Melis. Si interessa ma non se ne dovrebbe occupare. Se ne occupa invece regalando consigli, non intraprende nessuna iniziativa, non rilascia alcuna intervista, si muove dentro una zona grigia
, quasi solitario.
Sarà Niki Grauso, in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera a parlare di un interessamento, seppure marginale, del giudice Lombardini.
Un giudice curioso Luigi Lombardini.
Di una curiosità vivace, perentoria. Qualcuno gli parla del sequestro Melis. Quel qualcuno sa benissimo che non è lui il Giudice che si occupa del rapimento, ma gli chiede consigli, gli domanda cosa ne pensa, come dovrebbero essere svolte le indagini, quali sono le mosse che lui avrebbe eseguito.
Lui, da ottimo intenditore di sequestri, chiacchiera, solo amichevolmente però; ritiene che l’ostaggio possa essere stato nascosto nella zona di Tertenia. Deduzioni dunque, semplici deduzioni di un cittadino attento, ma che, almeno ufficialmente, rimangono deduzioni.
Eppure, dopo aver abbandonato le indagini, Lombardini continua ad interessarsi di sequestri. Per curiosità?
Forse.
Qualcuno parla di una rete: «Diceva di avere una vasta rete di informatori e che gli costavano moltissimo. Parlava di informatori»².
Una rete che gli costava moltissimo. Perché?
Non lo sappiamo.
Anche questa storia sembra essere avvolta dentro un manto grigio.
Un Giudice solitario, indagatore di razza, uno sceriffo ormai senza stella, che sembra non dover regalare più sussulti dentro questa terra.
Così sembrerebbe.
Sino all’epilogo finale.
Il dott. Luigi Lombardini, nel 1988 è incriminato per omessa informativa alle autorità competenti su circostanze rilevanti in tema di sequestri di persona – un reato previsto dall’art. 3 della legge 82/91 sul blocco dei beni –, ma questa accusa non nasce dalle rivelazioni di Niki Grauso rilasciate al Corriere della Sera, bensì, a quanto pare, da un’attività di intercettazione delle sue comunicazioni che partiva da molto più lontano. In particolare, la Procura di Palermo aveva avviato indagini su Lombardini fin dal marzo 1997, perché il sostituto procuratore Paolo De Angelis, facendo compiere un’attività di intercettazione su altre persone, si trova davanti il suo nome nelle telefonate tese a sapere dove fosse tenuta prigioniera Silvia Melis.
L’originaria imputazione fu ben presto mutata, nei confronti di Lombardini, in quella di favoreggiamento, un reato sicuramente più grave. Perché la Procura di Palermo formula questa nuova accusa?
Perché probabilmente vi era il convincimento, da parte dei magistrati che Lombardini, circa il sequestro Melis, non solo fosse in possesso di informazioni che aveva omesso di trasmettere all’autorità competente, ossia la Divisione Distrettuale Antimafia cagliaritana, bensì avesse compiuto anche attività direttamente funzionali a far conseguire ai banditi il riscatto.
Un fatto grave.
Gravissimo per un Giudice.
Ma avviene un altro fatto.
Clamoroso.
I giudici di Palermo, nel luglio del 1998 modificano l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Lombardini e lo accusano, insieme a Niki Grauso e l’avvocato Antonio Piras di estorsione.
L’epilogo tragico avviene il giorno 11 agosto 1998 quando, quasi davanti ai cinque Pubblici Ministeri insieme all’allora procuratore capo Giancarlo Caselli, giunti da Palermo per interrogarlo, Lombardini chiede un attimo di pausa e, giunto nell’anticamera del suo ufficio, si chiude fulmineamente a chiave e si spara un colpo di pistola in bocca.
Un colpo.
Secco.
Unico.
In bocca.
Magnum 357.
Come un vero sceriffo.
Ma ci sono altre verità in questo epilogo.
Sembrerebbe in realtà, che egli dovesse essere arrestato subito dopo l’adempimento. Da dove vengono queste indiscrezioni? Chi ce le racconta?
Nessuno. Ma nella zona grigia di questo epilogo saltano fuori i servizi segreti che (pare) eseguirono un attento monitoraggio attraverso delle microspie disseminate nei corridoi e negli uffici del giudice Lombardini.
Lombardini ne era a conoscenza? Sembrerebbe di sì.
Sembrerebbe.
Cosa sentono le microspie?
In particolare, le microspie captano una voce che, a seguito di un’accesa discussione tra Lombardini e uno dei Giudici di Palermo (discussione tecnico giuridica, che riguardava qualcosa sulla data del decreto di perquisizione) afferma, in maniera decisa: «Adesso ti facciamo la perquisizione, poi ti mettiamo le manette».
Le manette.
Ad un Giudice, da parte di un altro Giudice.
Le manette.
Ad un Giudice come Luigi Lombardini, che le manette le guardava sempre dalla parte delle chiavi.
Un giudice solitario Luigi Lombardini.
Anche nella scelta di mettersi da parte.
Strano comunque, per un Giudice forte e deciso come lui.
Era davvero un favoreggiatore?
Non lo sappiamo.
Difficile saperlo.
Difficile conoscere la verità quando si indaga dentro un manto completamente grigio.
Ma la sua storia ci interessa solo in parte. Pur essendo il Giudice Istruttore del maxi-processo all’anonima gallurese, in questa storia resterà in ombra, volutamente.
Analizzeremo i fatti da dietro la macchina da presa: Luigi Lombardini ha scritto un romanzo, noi lo interpreteremo, così come i giudici che il 20 dicembre 1982 emisero la loro sentenza sul racconto scritto da Luigi Lombardini.
Su quel racconto i giudici interpretarono, analizzarono, si sforzarono di capire il grande intreccio, il grande scenario e, nel nome del popolo italiano pronunciarono la sentenza.
Sono passati molti anni e alcuni vecchi attori sono scomparsi o esercitano un altro mestiere. Dalla sentenza, solo dalla lettura di quella sentenza di 1.072 pagine e con novantatre imputati, cercheremo di capire le ragioni delle decisioni, il perché di alcune omissioni e, soprattutto, le motivazioni che hanno portato la Corte ad assumere quelle decisioni: quelle e non altre, nonostante ci fossero mille svincoli dentro l’autostrada del grande processo.
Ma di quella sentenza analizzeremo un sequestro in particolare, un sequestro misterioso, con mille punti oscuri, con soluzioni originali, con interpretazioni azzardate che il giudice Lombardini scrisse e che la Corte giudicò in parte attendibili, senza troppe prove.
1) L’episodio è citato nel libro di
Pino Scaccia
, Sequestro di persona, Il caso Lombardini e la zona grigia
dei rapimenti in Italia, Editori Riuniti, Roma 2000, pag. 20.
2) Così afferma Iosefine Gallistru, ex poliziotta amica di Lombardini e sua compagna per dieci anni, dal 1988 al 1997. Le sue dichiarazioni sono riportate nel libro di
Pino Scaccia
, op. cit., pagg. 21-23.
I
Nascita di un sequestro di persona
La fase dell’organizzazione di un sequestro è quella più difficile. Perché occorrono nervi saldi, attenzione ai particolari, organizzazione specialistica.
Un sequestro non si inventa.
Occorre effettuare la scelta della vittima che deve essere sana, capace di sopportare la lunga prigionia. In questa fase a volte sono scartate le persone anziane o ammalate, che hanno necessità di medicine particolari.
Il sequestrato è un bene prezioso. Non si sceglie un bene rotto. Possibilmente deve essere integro e disposto ad ascoltare.
Quando si effettua una scelta si controllano i beni immobili, si ha notizia dei conti in banca, della vita che uno conduce. Non esistono sequestri inutili e difficilmente si compie quello che tutti chiamano scambio di persona
.
Un sequestro è difficile, gonfio di adrenalina quotidiana: non si commettono certi errori.
Quasi mai.
Quando si è pianificato il piano occorre agire e difficilmente si opera allo sbaraglio: si contano le persone, si distribuiscono gli incarichi, si organizzano le staffette.
Per l’azione materiale del sequestro – quella più difficile – bastano quattro persone; danno meno nell’occhio e si è più veloci e silenziosi. Agire con troppa gente può risultare un danno: si può essere riconosciuti, si possono commettere troppi errori.
Un sequestro è una storia asciutta, senza fronzoli, senza pentimenti, senza troppe scanalature. Non si ha il tempo di riflettere ai contraccolpi, alle possibili negative conseguenze. Si pensa l’esatto contrario: è difficile essere scoperti ed è difficile farsi scoprire.
Tutto il resto non conta.
I tempi.
I tempi nel sequestro sono importanti. Occorre osare e attendere. A volte per mesi, molti mesi. Qualcosa si muoverà. Nella solitudine atavica tipica dei pastori barbaricini (solu che fera) l’attesa è un paradossale passatempo. Custodire un sequestrato è come custodire un gregge, senza neppure doverlo mungere quotidianamente e poi, come dicono in tanti ormai, nascondere un uomo è più facile che nascondere un gregge: i sequestrati non belano.
Perché si arriva al sequestro? Perché si decide questo assurdo salto nel buio? Molti dicono per avidità, per cultura, per un affronto a chi ha più possibilità. Altri affermano che è una sorta di riscatto sociale, un urlo che si getta ai potenti, un modo come un altro per esserci, per contare, per esistere.
Forse.
Un sequestro è molto più semplice di quanto si immagina e molto più difficile di quanto si crede. Ci vuole coraggio, cattiveria, occorre non avere un’etica o averne una diametralmente opposta da quella dominante; ci vuole crudeltà nel respingere le lacrime, le preghiere, gli appelli, le lenzuola bianche che sventolano nei paesi grigi e oscuri.
Un sequestro è un’operazione assurda che ha piccole connotazioni ma, per quanto insensato possa apparire, si sequestra per soldi. Tanti soldi da riempirsi le tasche senza riuscire neppure a contarli, tanti da poter poi dividere con non troppe persone. Ma si sequestra perché è difficile, tremendamente difficile per la Giustizia, arrivare ai colpevoli. Infatti, solo nel 41% dei sequestri o tentati sequestri effettuati negli anni che vanno dal 1971 al 1996 sono stati individuati i colpevoli. Quasi il 60% è rimasto impunito, senza nessun volto da consegnare alla giustizia³.
L’organizzazione dei sequestri, nel corso degli anni ha avuto una svolta che possiamo definire industriale
: finito un sequestro se ne commette un altro. I rapitori sono quasi sempre gli stessi, forti dell’impunità acquisita, convinti che l’osare e attendere porterà dei frutti dentro una terra marcia, sola, ingoiata da questa cultura inossidabile.
Dentro questa bulimica necessità si muovono le indagini.
Difficili, tremendamente difficili, sostanzialmente impossibili quando non ci sono squarci di parole.
Dentro questa trama, lentamente crescono gli eventi, si costruiscono le accuse, si ricercano le prove, si controllano gli alibi di gente tutta apparentemente innocente, tutta probabilmente colpevole, tutta con schegge di verità che non formano un quadro, tutta abbondantemente intrisa nella cultura del sequestro, ma che non necessariamente lo ha commesso o