Innovazione tecnologica
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Info su questo ebook
Nell’arco di una sola terribile giornata, le vite dei protagonisti si intrecciano e si scontrano fra di loro. Chiamati in causa uno per uno, costretti a mettere in dubbio le proprie sicurezze e a prendere l’iniziativa, con conseguenze imprevedibili. Forse solo la loro capacità di reagire potrà dare una nuova dimensione a quello che accade, trasformando la crisi in un’occasione di svolta.
Modanese riesce a sfumare, in una narrazione a tratti onirica, le caratteristiche tipiche del genere giallo e a ricomporlo in una riflessione su un tema prioritario: la libertà di scelta.
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Anteprima del libro
Innovazione tecnologica - Tobia Modanese
1
Dave
Doveva essere un incubo, solo un incubo. Sentiva l’oscurità strisciare sui suoi occhi, densa come il sonno che lo istupidiva. Rumore di rantoli, dolore alla testa, freddo. Solo un altro incubo. Eppure, sentiva ancora quelle parole intorno a sé, riecheggiavano fin dentro la sua testa: Ben svegliato, signor Morricone!
Ben svegliato… Ben svegliato, signor Morricone!
Svegliato? Signor Morricone. Ben svegliato, signor Morricone!
Sveglio. Sveglio . Sveglio, era sveglio! Cercò di balzare in piedi, di fuggire, ma sentiva i lacci ai polsi, alle caviglie: tentò di strapparli. Resistevano. Sentiva i ricordi tornare, come un’onda di piena; non ricordare, non ricordare . Non voleva ricordare. Lo travolsero: ricordava tutto, fino a due giorni prima, fino al laboratorio, alla cabina, al lungo buio. Lungo come le notti che passava sveglio, per non addormentarsi, per non sognare, per non dimenticare, per non dover poi ricordare di nuovo. Si abbandonò alle memorie che gli straziavano il petto, ansimando. Avvertì una fitta alla testa quando la voce ritornò: Mantenga la calma, per favore, si sforzi di non muoversi. È tutto sotto controllo. Respiri lentamente e non si muova. È tutto sotto controllo. La tireremo fuori in pochi minuti
.
La cabina si schiuse con un lieve schiocco e un raggio di luce bianca scivolò all’interno, conficcandosi nei suoi occhi come un tizzone ardente. Spalancò la bocca, alla ricerca d’aria; il ronzio del macchinario copriva il suo respiro affannato. Un improvviso tepore penetrò le sue membra gelide. Eccolo qua, il potere dei fondi statali. Mosse le dita, aprendole e intrecciandole con movimenti pesanti. Era sveglio. Non gli piaceva svegliarsi.
Chissà chi lo stava aspettando, fuori nel laboratorio. Probabilmente alcuni tecnici, curvi sugli schermi, parlottando tra loro a voce bassa, scrutando indicatori tubiformi e schermi rettangolari con linee colorate. Anche un assessore, magari. Cercò di immaginarselo: statuario, in uno scuro e prepotente abito su misura, annuiva impercettibilmente con i piccoli occhi socchiusi. Poi naturalmente suo fratello Paolo, vestito della sua fama di geniale direttore dell’ APSA, impegnato a dilungarsi in spiegazioni e provocazioni. E alla fine il politico avrebbe rovesciato la testa indietro, spalancando le braccia e la bocca in un’esclamazione che rimbombasse in tutta la stanza, qualcosa tipo sì! I miei complimenti, signori! Avete tradotto in realtà il sogno futuristico del secolo, trasformato l’oggi nel domani! La medicina! I viaggi spaziali! Quante porte apre al progresso!
O forse invece stava in silenzio, appollaiato in preda a rapidi calcoli, contraendo le labbra in una smorfia e concedendo solo qualche amaro commento ci tengo a sottolineare, dottore, che il successo dell’esperimento non fornisce alcuna attenuante alla sua decisione di nascondermi i dettagli dei suoi studi!
O forse ancora gli stava davanti, controluce, in modo che il neon illuminasse la sua figura salvifica; una volta sicuro che Paolo non sostenesse troppo a lungo il suo sguardo, gli avrebbe stretto la mano:
il suo lavoro sarà tenuto nella giusta considerazione, egregio, sono sicuro che sarà l’inizio di una brillante carriera e di una proficua collaborazione tra di noi…
Sì, questo era quello giusto! Se lo riusciva a immaginare nei dettagli, questo assessore! Un tremito gli attraversava le spalle, quasi fosse intimorito dalla sua stessa autorevolezza. La faccia tradiva una quantità confusa di sentimenti, incontrollabili perfino per le affinate capacità politiche dell’assessore. Mi dica, dottor Morricone, qualora i risultati si rivelino positivi in quanto sarebbe possibile mettere la macchina sul mercato?
Beh… Lei mi capirà assessore, naturalmente non possiamo dare il via libera senza l’assoluta certezza del funzionamento ineccepibile della macchina e della totale sicurezza dei soggetti. Occorreranno altri test, accertamenti a lungo termine… Questa frase sembrava molto adatta a suo fratello.
…E altro tempo, e altro personale, e altri fondi… Ho già sentito questa filastrocca fin troppe volte, dottore; non mi consideri uno sciocco! Se le prospettive saranno chiare e promettenti, non avrete più di queste preoccupazioni; se le prospettive saranno chiare e promettenti… Gli passò la voglia di inventarsi tutto il discorso e zittì l’assessore, immaginando semplicemente che gli si arrotolasse la lingua beh, sprlò dicrt valtta sls slls sr beh!
Aprì gli occhi. A pochi centimetri dal suo naso, catturando la poca luce, riuscì lentamente a mettere a fuoco una scritta. La riconobbe. Era la targa di colei che si assicurava che il presente continuasse a marciare avanti, la celeberrima, l’Associazione: APSA. Corrugò la fronte. Ma che diamine vuol dire APSA, poi? A quanto ricordava la scritta campeggiava da almeno quarant’anni sulla facciata dell’edificio, imponendosi agli sguardi come un freddo imperativo: cubica, risaltava con fermezza sulla grande ellissi argentea che le faceva da base, opponendosi con violenza alla liquidità delle sue forme. L’edificio era bello, molto moderno: grandi vetrate, struttura ad anello; all’interno, separato da un cortile, c’era un tozzo palazzo cilindrico. Come l’atomo, no? Come il tipo azzurro di Watchmen . Faceva una figura piuttosto misera, però, perché tutto intorno troneggiavano grattacieli. Si allungavano imperterriti per raggiungere un cielo ancora troppo alto; fissavano da novecento, da millenovecento metri l’asfalto fumante, così nero che guidando l’impressione era di correre, sempre più a fondo, nelle viscere della notte. Grandi anelli panoramici, in lenta rotazione intorno al corpo dei grattacieli, accoglievano dietro le loro vetrate brulicanti folle di giacche nere e abiti da sera. Appoggiate all’esterno, accanto agli ascensori a pagamento, interminabili scale a chiocciola si sforzavano lentamente di scalare la nebbia, goffe come i pochi passanti che vi si inerpicavano. Portavano su, al centro cittadino, sospeso a chissà quanti metri d’altezza: un sistema di immense piattaforme, tese tra i grattacieli come amache di titani. Parchi curati, hotel, musei, teatri, negozi… Crescendo al di là di quel confine d’eccellenza, la città si trasformava, come stoffa tra le esperte mani di un sarto. I centri commerciali sbocciavano in boutique all’ultimo grido, le fabbriche in casinò spensierati, i palazzi di uffici e scartoffie nelle eleganti sedi dei politici. Persino i marciapiedi si snodavano delicatamente, come se fossero sostenuti solo dal vento e dallo smog, tracciando sottilissime ombre sulle strade, sotto, al piano terra. Quelle strade che invece, dal canto loro, si incuneavano e si affossavano tra le radici dei palazzi, brulicanti delle vecchie automobili che correvano e parcheggiavano ovunque senza criterio. Sopra di loro, enormi droni da trasporto ondeggiavano come ubriachi sotto il peso dei container. Stavano in fila, sputando