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L'infermiera: Uno dei casi più sensazionali della storia criminale scandinava
L'infermiera: Uno dei casi più sensazionali della storia criminale scandinava
L'infermiera: Uno dei casi più sensazionali della storia criminale scandinava
E-book340 pagine4 ore

L'infermiera: Uno dei casi più sensazionali della storia criminale scandinava

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Info su questo ebook

Il libro dietro la serie Netflix L'infermiera.
Nelle prime ore di un mattino di marzo 2015, la polizia danese riceve una chiamata inquietante: un'infermiera di un ospedale della Danimarca meridionale sospetta che una sua collega uccida deliberatamente i propri pazienti e teme che l'abbia appena fatto di nuovo. Nei giorni seguenti, altri testimoni che lavorano all'ospedale raccontano di aver nutrito simili sospetti sulla propria collega, a prima vista una professionista impeccabile. Alcuni dicono addirittura di averlo sospettato per anni. Perché nessuno ha detto niente? E come provare la colpevolezza dell'infermiera una volta che i corpi dei pazienti sono stati cremati?
In questo avvincente best-seller, Kristian Corfixen ricostruisce il fatidico turno di notte del marzo 2015 in cui ben tre pazienti persero la vita in circostanze misteriose. Il caso divenne uno dei processi penali più sensazionali della storia della Danimarca. Basandosi su un'ampia documentazione—tra cui cartelle cliniche, rapporti autoptici, lettere, e-mail e rapporti di polizia—Corfixen racconta in modo appassionante gli eventi che hanno portato alla condanna della famigerata infermiera scandinava.
Il libro raccoglie le testimonianze di tutti i protagonisti del caso, inclusa l'infermiera condannata e la testimone chiave che per la prima volta parlano pubblicamente della propria esperienza. Ancora oggi, l'infermiera si proclama innocente.
È questa storia un classico esempio di pettegolezzi di provincia sfuggiti di mano o un sinistro caso di lesioni inferte ai pazienti per guadagnarsi l'attenzione e la lode di colleghi e superiori?
LinguaItaliano
Data di uscita22 ott 2021
ISBN9788726813395
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    Anteprima del libro

    L'infermiera - Kristian Corfixen

    L’infermiera

    Translated by Bruno Berni

    Original title: Sygeplejersken - En af Danmarkshistoriens mest spektakulære drabssager

    Original language: Danish

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 2021 Kristian Corfixen and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788726813395

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Introduzione

    Personalmente non ho mai lavorato con Christina Aistrup Hansen. Non c’ero, quando prestava servizio come infermiera nell’ospedale di Nykøbing Falster.

    Mi permetto però di descrivere nel dettaglio una serie di avvenimenti che si sono verificati negli anni da lei trascorsi nell’ospedale, basandomi su oltre 3.000 pagine di documenti che trattano del suo caso. Sono documenti cui ho avuto accesso tramite i pubblici registri o che mi sono procurato in altri modi: cartelle cliniche dei pazienti, referti autoptici, relazioni dei medici legali, corrispondenza via mail e SMS , pareri di esperti, verbali di udienze, liste di medicinali, screenshot del sistema informatico dell’ospedale, fotografie, verbali degli interrogatori e rapporti della polizia che – almeno per quanto riguarda la maggior parte del materiale – in precedenza non erano accessibili se non alle forze dell’ordine, ai tribunali e alle parti in causa.

    Per la ricostruzione degli eventi a Nykøbing Falster sono stati importanti soprattutto i verbali degli interrogatori della polizia. Ne ho potuto leggere oltre cento, con dichiarazioni, soprattutto da parte dei dipendenti dell’ospedale, che in un modo o nell’altro contribuirono, come tessere di un mosaico, alle indagini che si sarebbero concluse con un processo a carico di Christina Aistrup Hansen. In tribunale testimoniarono oltre settanta persone e i relativi verbali hanno rappresentato la base per alcune delle descrizioni presenti in questo libro, che attinge i suoi contenuti anche da conversazioni con più di cinquanta persone che ho intervistato e, in molti casi, ho incontrato più volte. Tra queste figurano infermieri, medici, esperti, avvocati, agenti di polizia, familiari e conoscenti delle persone coinvolte, e infine parenti delle vittime. Poi una serie di protagonisti del caso, che cito e di cui faccio i nomi completi. Innanzitutto Christina Aistrup Hansen, alla quale ho fatto visita più volte in prigione. E la testimone chiave del processo, l’infermiera Pernille Kurzmann Larsen, che ha condotto la polizia a indagare sulle morti sospette all’ospedale di Nykøbing Falster e ha rivestito un ruolo decisivo nella condanna definitiva della collega per tentato omicidio dei pazienti.

    Praticamente tutte le infermiere dell’ospedale di Nykøbing Falster che ho contattato mi hanno chiesto inizialmente e con chiare riserve: da che punto di vista intendi descrivere il caso?

    Ogni volta ho risposto: da entrambi i punti di vista.

    Perché ci sono due punti di vista. Due schieramenti, se vogliamo. In uno c’è chi ancora oggi crede che Christina Aistrup Hansen sia stata condannata ingiustamente da due tribunali e sia stata vittima di pettegolezzi nell’ospedale provinciale. Nell’altro ci sono quelli che non hanno dubbi sul fatto che lei abbia deliberatamente tentato di uccidere alcuni pazienti durante i suoi turni, forse anche più dei quattro per i quali l’infermiera sta attualmente scontando una pena detentiva.

    È importante sottolineare che né Christina Aistrup Hansen né Pernille Kurzmann Larsen − né altri del resto − hanno avuto voce in capitolo sul modo in cui ho scelto di descrivere o enfatizzare gli episodi di questo libro. Per esempio, a nessuno ho offerto un compenso o il diritto di modificare i contenuti in cambio della collaborazione.

    Il libro si fonda su un metodo giornalistico comune. Per quanto possibile ho cercato di verificare i fatti ed eseguire controlli incrociati di quanto riferito dalle mie fonti. Se mi sono imbattuto in affermazioni che sono state contraddette o erano in contrasto con le informazioni nei documenti o altro materiale, le ho omesse se non erano rilevanti, altrimenti ho chiarito che, sotto quell’aspetto, qualcosa potrebbe non corrispondere a verità. Allo stesso modo indico chiaramente al lettore le accuse che la polizia, nonostante le indagini altrimenti molto estese, non è mai stata in grado di comprovare o confutare.

    Detto questo, so che alcuni lettori avranno una visione diversa di una o più delle cose descritte. Molte persone si sono fatte un’opinione sul caso dell’infermiera. Nonostante le sentenze di due tribunali, ancora oggi il caso è avvolto da molte teorie raffazzonate. Nel mio lavoro ho incontrato tanta gente che ha basato la propria opinione su una percezione distorta dei fatti, forse perché ha letto solo i titoli o due o tre delle migliaia di articoli scritti sul caso, e da allora si è limitata a discuterne con altri, oppure perché ha sentito qualcosa da qualcuno che conosceva qualcuno che l’aveva sentito da qualcun altro. Spero che questo libro possa contribuire a un resoconto generale, oggettivo e più completo, di uno dei casi di omicidio più spettacolari della storia danese.

    Il caso dell’infermiera ha avuto vaste conseguenze e non ha riguardato solo i quattro pazienti per i quali Christina Aistrup Hansen è stata giudicata colpevole di tentato omicidio. Ci sono i colleghi dell’ospedale di Nykøbing Falster che stanno ancora lottando con il senso di colpa per non aver reagito prima ai loro sospetti. Ci sono le famiglie dei pazienti, coinvolti in un caso di omicidio mentre inermi giacevano in un letto di ospedale, dove generalmente ci sentiamo in mani sicure. Ci sono due genitori che ancora per diversi anni dovranno andare a trovare la figlia in prigione, e una ragazzina di soli undici anni che ha perduto la quotidianità con la madre.

    Il caso dell’infermiera è tragico da ogni punto di vista. Lo è diventato ancora di più perché si protrasse per così tanto tempo prima che qualcuno si decidesse a reagire. Spero che questo libro contribuisca a non dimenticarlo, e che questa storia c’insegni qualcosa.

    Kristian Corfixen

    Copenaghen, gennaio 2019

    1

    Il centralino ricevette la chiamata quattro minuti prima della mezzanotte. Al telefono c’era una dottoressa dell’ospedale di Nykøbing Falster, che voleva segnalare un decesso a prima vista inspiegabile. La procedura era del tutto comune. Secondo la legge, i medici devono sempre notificare alle autorità il decesso improvviso di un paziente, qualora la cartella clinica a un primo sguardo non fornisca una spiegazione plausibile.

    Era questo il caso di Arne Herskov, il paziente del quale era stata dichiarata la morte poco più di due ore prima, disse la dottoressa al telefono.

    L’agente annotò la data – 4 marzo 2012 – e le informazioni elencate dalla dottoressa:

    «Arne Herskov, 72 anni. Domicilio: Falkevej 78, Idestrup. Divorziato. Ultima volta in cui è stato cosciente, oggi tra le 7.00 e le 9.39. Poi attaccato al respiratore dopo un arresto cardiaco. Morto questa sera. Il fratello Kenny è il parente più prossimo».

    Poco dopo, un’auto di pattuglia con due agenti si diresse nella notte verso la periferia nord della città di Nykøbing Falster. Alle ore 1.20 annunciarono il loro arrivo al reparto di terapia intensiva. La polizia trovò un’infermiera e un medico in grado di riferire chi si era occupato del paziente durante il giorno e la sera, e gli agenti annotarono sul taccuino alcuni nomi e numeri di telefono, prima di essere accompagnati nella stanza dove Arne era ancora disteso sul letto. Potenzialmente poteva anche trattarsi di una scena del crimine, ma quando aprirono la porta videro che non era intatta. Arne giaceva supino con i suoi blue jeans e un cardigan a scacchi con le maniche nere. Gli erano stati rimessi i suoi vestiti perché non volevano che i parenti, per l’ultimo saluto, lo trovassero in pigiama. Lo avevano anche liberato da tutti i tubi di plastica.

    «Il corpo è stato preparato perché, alla constatazione del decesso, non si credeva di dover avvertire la polizia», annotarono gli agenti nel rapporto. Poi salirono al reparto di medicina generale M130.

    La polizia appurò che nei giorni precedenti Arne era stato ricoverato in quel reparto. Era lì che quella mattina l’avevano trovato in stato d’incoscienza nel suo letto e il personale aveva cercato di praticargli un massaggio cardiaco prima di portarlo in terapia intensiva. Le infermiere in servizio in quel momento erano andate a casa da un pezzo. Ora c’erano, tra gli altri, l’infermiera Ida e l’operatrice socio-sanitaria Nina, che andavano su e giù per il corridoio, mentre i pazienti dormivano.

    Era la loro seconda notte consecutiva, le due colleghe erano rimaste sorprese quando, entrate in servizio alle 23, avevano saputo che l’anziano nella stanza 134 era spirato all’improvviso. Ancora la mattina precedente erano andate entrambe a controllare Arne prima di affidare lui e gli altri pazienti al turno successivo e tornare a casa a dormire. Ida gli aveva parlato. Da quando era stato ricoverato, in genere era stato difficile riuscire a fargli mangiare qualcosa, ma quella mattina Arne si era svegliato presto e aveva persino chiesto un gelato proteico. Non era mai accaduto prima. «Come è rifiorito» aveva pensato Ida mentre lasciava la stanza dove quell’uomo magro si era persino permesso una sfacciataggine nei suoi confronti. Per lei, era un segno di buona salute. Arne aveva cominciato a stare meglio.

    Quando l’aveva visto barcollare fuori dalla stanza diretto verso il bagno, sul lato opposto del corridoio, Nina l’aveva salutato con la mano. Ora Arne era morto, avevano detto i colleghi agli infermieri del turno di notte che dovevano essere informati sui pazienti. Era difficile dare un senso a quell’informazione.

    Ida e Nina non sapevano che il decesso era poi stato notificato alla polizia, ed era stato spiacevole veder entrare i due agenti dalla porta del reparto. Erano gentili, ma era anche singolare che iniziassero subito a fare domande sul paziente della stanza 134. Nina raccontò alla polizia del saluto in corridoio e di aver pensato che Arne stesse migliorando. Ida riferì di avergli dato un gelato, aggiungendo che nel complesso Arne sembrava avere più appetito.

    «Il defunto, che di solito era molto depresso, pareva rifiorito», annotò uno degli agenti nel taccuino. Questo fu tutto per quella notte. Dopo meno di un’ora in ospedale, i due agenti erano tornati nel parcheggio ed erano saliti di nuovo sull’auto di pattuglia. Il caso non sembrava così urgente da non poter continuare le indagini la mattina successiva.

    Quando se ne furono andati, Ida scoppiò a piangere. Quella notte disse a Nina qualcosa cui stava pensando da un po’ di tempo. Erano tanti i pazienti ad aggravarsi improvvisamente nel reparto M130. Naturalmente erano malati, era per questo che erano stati ricoverati. Tuttavia, le ricadute erano strane. Come nel caso di Arne, accadevano spesso dopo il passaggio delle consegne. Stranamente, c’era una collega in particolare che si trovava sempre nelle vicinanze, ed era lei a scoprire i pazienti privi di conoscenza nelle stanze e a lanciare l’allarme.

    Ida e Nina andarono a cercare il registro dei decessi. Quel fascicolo morbido che si trovava nell’ufficio degli infermieri, all’apparenza un normale quaderno di scuola, veniva utilizzato per annotare i nomi dei pazienti deceduti nel reparto. A margine delle pagine a righe, accanto a ogni paziente, c’era una firma. Era stata apposta da uno degli infermieri o operatori socio-sanitari – tipicamente due – che avevano «preparato» il paziente, come si dice quando un defunto dev’essere sistemato prima che i parenti vengano a salutarlo. Al termine dell’operazione si appone la firma nel fascicolo.

    Ida e Nina contarono i decessi.

    Uno, due, tre, quattro, cinque.

    Non tutti i pazienti che avevano un arresto cardiaco nel reparto M130 venivano inseriti nel registro. In genere, molti venivano portati in altri reparti nel momento in cui si aggravavano. Come Arne, che era stato trasferito all’unità di terapia intensiva. Quelli deceduti nel reparto M130, invece, erano in quelle pagine.

    Sei, sette, otto, nove, dieci.

    Ida e Nina contarono quante volte appariva lo stesso nome.

    Undici, dodici, tredici.

    Saltava agli occhi che c’era la sua firma accanto alla maggior parte dei nomi.

    Quattordici, quindici.

    E questo nonostante fosse un’infermiera. Molto spesso erano gli operatori socio-sanitari a preparare i defunti. Almeno nei turni di giorno, quando gli infermieri erano per lo più impegnati con tutto il resto.

    Sedici, diciassette, diciotto, diciannove.

    Una follia, pensò Ida.

    Venti, ventuno. Ventidue.

    Ventidue.

    Ventidue.

    La loro collega, l’infermiera Christina, aveva scritto il proprio nome accanto a ventidue pazienti dichiarati morti nel reparto M130 nell’ultimo anno e mezzo. Nessuno degli altri operatori del reparto aveva registrato così tante morti. Nessun altro si avvicinava anche lontanamente a ventidue. E Christina non lavorava nemmeno a tempo pieno.

    Quella notte, Ida lo disse finalmente ad alta voce a un altro essere umano, quando confidò a Nina i suoi sospetti: che Christina uccidesse deliberatamente i pazienti.

    2

    L’ospedale provinciale sorge nella periferia settentrionale della città di Nykøbing Falster, a circa un quarto d’ora a piedi dalla fine della via pedonale, con i suoi parcheggi e i suoi mattoni rossi tra siepi di ligustro, ville, case a schiera e condomini bassi.

    Quaggiù il traffico non crea code agli incroci, a meno che non sia l’ora del cambio di turno. Da queste parti c’era spazio per costruire fino al mare, quando negli anni Cinquanta fu inaugurato l’ospedale sull’isola di Falster, che da allora attraverso i suoi sei piani di finestre dal telaio bianco guarda in prima fila lo stretto di Guldborg. Può anche essere che sia piccolo ma, come si dice tutte le volte e ci si conferma a vicenda quando si è stati ricoverati, si è andati in visita o si è pranzato nella mensa del personale al terzo piano, la vista dall’ospedale di Nykøbing Falster è magnifica.

    Se come paziente si è abbastanza fortunati da essere ricoverati sul lato giusto del corridoio, nell’alto corpo principale, alzando lo schienale del letto si gode la vista sullo stretto. Aprendo la finestra si può sentire il vento che prende velocità dal mare, proprio sull’altro lato della strada asfaltata. Da qui si può vedere l’isola di Lolland, sull’altra sponda dello stretto, verde e così vicina da scomparire solo nelle giornate di nebbia fitta. I pazienti provengono da laggiù, come pure da oltre i ponti, dall’isola di Møn e dalla parte più meridionale della Selandia. Circa 26.000 volte all’anno accade che un abitante dell’isola di Falster o di una di quelle circostanti abbia bisogno di essere ricoverato. Ad Arne Herskov era accaduto il 17 febbraio 2012.

    Era stato il fratello minore Kenny a chiamare l’ambulanza. Quel giorno, Arne doveva aver registrato il suono della Peugeot beige di Kenny che entrava nel vialetto. In realtà il fratello aveva pensato di rimanere un po’ seduto in macchina ad ascoltare la radio, dove poco dopo mezzogiorno trasmettevano la partita di calcio del venerdì. Voleva solo ascoltare le ultime battute dal sedile prima di aprire la portiera, uscire nel freddo di febbraio, calpestare l’erba ed entrare dalla porta principale per far visita ad Arne. Quando spense il motore, però, Kenny sentì chiaramente Arne che gridava aiuto dall’interno della casa.

    Lo trovò caduto sul pavimento del bagno. Era stordito e confuso, incapace di spiegare da quanto tempo era sdraiato sulle mattonelle senza riuscire a rialzarsi. Il corpo era freddo. Kenny chiamò subito il 112. I soccorritori arrivarono rapidamente e la Peugeot era ancora calda quando, poco dopo, infilò la chiave d’accensione e seguì la sirena che correva verso ovest, costeggiando i campi dell’isola di Falster. Il giorno in cui l’ambulanza portò via Arne, nessuno immaginava che non sarebbe mai più tornato nella casetta dietro il boschetto sulla Falkevej.

    Arrivò in ospedale nel pomeriggio. Con i suoi 61 chili, il paziente schiacciava a malapena il tessuto bianco sul materasso, quando lo misero a letto nel reparto di terapia intensiva. Arne era sottopeso. «Magro» annotò il dottore nella cartella clinica. Nelle carte del paziente, il personale scrisse anche che soffriva di disidratazione e pressione bassa. I dati indicavano che probabilmente aveva anche una polmonite. Il medico decise che Arne avrebbe dovuto assumere antibiotici tre volte al giorno, per ridurre gli alti valori dell’infezione. Come il personale raccontò poi a Kenny e agli altri tre fratelli, inoltre, la terapia era semplice: il paziente doveva prendere diversi chili. «Terapia nutrizionale» era il piano dichiarato e inserito nella cartella clinica. Allo stesso tempo, le infermiere dovevano provvedere a fargli assumere molti liquidi.

    Arne aveva l’abitudine di consumarne parecchi, ma non di quelli appesi in una sacca accanto al letto in ospedale. Gli era sempre piaciuta la birra. La portava a casa, nel cestino da bicicletta agganciato allo scooter a tre ruote, dopo essere passato dalla macelleria Schous di Marielyst per comprare piatti già pronti da riscaldare in forno. D’estate, quando sedeva davanti alla tavola calda di Sildestrup Strand, le bottiglie verdi stavano lì aperte accanto a lui. Sempre Carlsberg in bottiglia, ricorda la proprietaria del chiosco accanto alla panchina dove Arne poteva trascorrere ore, mentre il sole tramontava tra i suoi capelli fulvi. Ancora oggi le manca quel cliente che non diceva mai sciocchezze, per quante birre avesse bevuto. Molti ricordano Arne per tutte le birre. Chiedendo a sua sorella maggiore Birthe se fosse alcolizzato, tuttavia, lei risponde di no.

    «Mai» dice. «Si godeva la vita».

    I medici dell’ospedale se ne resero conto quando arrivarono le risposte dei primi esami. Il corpo del paziente era segnato. Soprattutto dall’alcol, che aveva lasciato tracce sul fegato, ormai indebolito. Poi c’erano le sigarette. Un giorno Arne disse a un medico che probabilmente ne fumava 30-40 al giorno da quando aveva 15 anni. Anche questo fu annotato nella cartella clinica. Come la tosse. La tosse che sulla Falkevej poteva far esclamare ai vicini di fronte, seduti a prendere il caffè della sera: «Be’, Arne è tornato a casa».

    Tra villette per le vacanze e abitazioni di legno dipinte di fresco, Arne viveva all’angolo della strada dove svettano alcuni degli alberi più selvatici del quartiere. La sua casa in origine era una rimessa, dalla quale però molti anni prima era germogliata un’addizione di calcestruzzo aerato dove c’era spazio per una stufa a legna che, attraverso il piccolo camino sul tetto, mandava sempre un fumo nero oltre le chiome non appena l’aria si faceva fredda. La porta di casa distava dalla spiaggia solo un paio di centinaia di metri, ma Arne rimaneva per lo più in casa, a meno che non fosse in giro con lo scooter. Era in quei momenti che i vicini lo vedevano, nel vialetto, quando usciva o rientrava. Dopo averlo salutato come si deve – per i nuovi arrivati potevano passare un paio d’anni prima che si presentasse l’opportunità – si scopriva che in realtà l’eremita era piuttosto loquace.

    Aveva atteggiamenti un po’ scostanti. Si faceva serio quando parlava delle case di riposo e del modo in cui la società tratta gli anziani. Non pochi in famiglia avevano sentito la sua opinione sulle droghe, che Arne aveva maledetto per tutta la vita. Non aveva mai capito perché qualcuno se ne lasciasse catturare. Invece, Arne raccontava con pacatezza della gioventù, di quando si era imbarcato come marinaio sulle navi con il logo Maersk per vedere il mondo, di quando assieme ai fratelli cresceva nei fumosi locali di Nørrebro e di quando, prima di fare il netturbino, vendeva fiori e ortaggi a Grønttorvet. Proprio a Copenaghen, in un’osteria, aveva incontrato la futura moglie.

    Era d’indole gioviale, come un’osteria un paio d’ore prima della chiusura. Amava le feste ed era conosciuto come quello cui poteva venire in mente di mettersi a cantare canzoni da marinaio. Sembrava sempre allegro, anche quando era da solo a casa sua, e uno dei fratelli, andato a trovarlo senza preavviso, lo trovava impegnato a gustare il suo piatto preferito, una bella porzione di spezzatino comprato pronto dal macellaio. Ultimamente, però, non era così. Arne era infelice.

    Si dice che una delle cose più orribili che possano capitare sia perdere un figlio. Arne conosceva quell’esperienza. Pochi mesi prima di cadere sul pavimento del bagno, aveva avuto la notizia che Jimmy, il suo unico figlio, era morto.

    La perdita di Jimmy era stata la tragedia più grande. Gli aveva lasciato un vuoto nella vita da pensionato, un nodo alla gola che Arne non riusciva a mandare giù, per quante birre trangugiasse a quello scopo.

    Negli ultimi tempi non aveva nascosto ai fratelli di aver gettato la spugna. Si era intristito. Era stanco di essere solo, diceva. Per quanta legna i due fratelli gli portassero d’inverno in quella casa fredda, Arne trovava a fatica qualcosa di buono con cui scaldarsi l’animo. Non aveva nemmeno più voglia di riscaldare i piatti pronti, praticamente mandava giù solo birra. L’umore sprofondava. Alla fine i fratelli pensarono che fosse difficile occuparsi di lui, perciò si sentirono sollevati nel vederlo in ospedale, accudito da professionisti.

    Quando era stato ricoverato, Arne tremava ed era pallido. Aveva tanto freddo, continuava a dire alle infermiere. Fu presto chiaro che non stava morendo.

    «Penso che il problema maggiore sia che il paziente non mangia da un mese» aveva annotato un primario nella sua cartella clinica, dopo tre giorni nel reparto di terapia intensiva. Il quarto giorno le sue condizioni non erano più critiche, perciò l’avevano trasferito al reparto di medicina generale M130, dove il personale doveva assicurarsi che mettesse su qualche chilo.

    Il reparto M130 accoglie alcuni dei pazienti più gravi dell’ospedale di Nykøbing Falster, soprattutto persone con malattie gastrointestinali. Tra loro ci sono parecchi malati di cancro, ma vengono portati lì anche alcolizzati e tossicodipendenti, quelli che hanno il fegato in cattive condizioni, quelli da disintossicare, quelli che in genere lottano con altre cose nella vita, oltre che con la diagnosi che li ha portati al ricovero. In reparto, questi pazienti sono la «clientela più difficile», come dicono le infermiere. Non è strano che tornino per un secondo o un decimo ricovero, perciò parecchi di loro diventano volti familiari. Di solito rimangono più a lungo delle persone ricoverate negli altri reparti. Non è strano che un paziente dell’M130 resti per diverse settimane.

    Ci sono due corridoi – il corridoio 30 e il corridoio 50 – perpendicolari tra loro e con le stanze su entrambi i lati. Arne era stato sistemato in una stanza nel 30, proprio di fronte al bagno. All’inizio il personale aveva percepito il nuovo paziente come un tipo tranquillo, che preferiva starsene sdraiato a dormire e non aveva né voglia né forza di fare altro, ma col passare dei giorni molti notarono che stava iniziando a riprendersi.

    «Oggi sono stati riscontrati nel paziente maggiore gestualità ed eloquio spontaneo» si legge nella sua cartella quattro giorni dopo l’arrivo in ospedale. Lo stesso giorno, un’infermiera del reparto aggiunse:

    «Si mette a sedere sul letto autonomamente e mangia ciò che gli viene portato».

    Arne aveva ancora la tosse, spesso gli girava la testa ed era necessario continuare a dargli ossigeno e alimentarlo con una sonda. Tuttavia, era più facile convincerlo a mangiare qualcosa.

    «Ricomincia ad avere appetito e ad assumere più cibo» e ancora «oggi ha chiesto lui stesso del cibo», annotò il personale nei giorni successivi.

    Anche l’operatrice socio-sanitaria Louise aveva visto che l’umore di Arne migliorava gradualmente, e il paziente iniziava a prendere un po’ di peso. Quando l’aveva incontrato per la prima volta nella stanza 134, le aveva parlato della morte di Jimmy, confidandole che non sapeva se aveva ancora voglia di vivere. Quando medici e infermieri andavano a visitarlo, Arne raccontava spesso della sua tragedia e, perciò, molti nella sua cartella clinica scrivevano che appariva depresso. Eppure, un giorno disse a Louise che in realtà aveva iniziato a desiderare di tornare a casa. Era in ospedale da quasi due settimane, e in quei giorni molti nel reparto notarono che ad Arne stava davvero accadendo qualcosa. Sembrava nel complesso più contento.

    Parlava di più. Era più vigile. Alla fine le sue condizioni fisiche erano così buone che in prossimità del week-end il personale iniziò a fare ipotesi sulla data di dimissione.

    Giovedì 1 marzo 2012, tredici giorni dopo il suo arrivo in ospedale, un’infermiera annotò nella sua cartella:

    «Si prevede che il paziente possa essere dimesso all’inizio della prossima settimana».

    Quando Kenny andò in visita nel corridoio 30 quel venerdì, vide che le terapie parevano avere effetto. Arne era ancora lievemente confuso, ma aveva recuperato un po’ di peso. Anche la nipote Marie-Louise notò che era più contento. Lo zio era allegro, sorridente e scherzava, era pure in vena di raccontare una delle sue storie inventate.

    Gli altri due fratelli, Birthe e Vagn, gli fecero visita il sabato, il suo sedicesimo giorno all’ospedale di Nykøbing Falster. Quando si sedettero accanto al letto, gli dissero che la casa sulla Falkevej era stata preparata per il suo ritorno: la cognata aveva lavato le lenzuola, le tende e tutto il resto. Era tutto in ordine.

    Tuttavia, Arne era ancora troppo magro. In corridoio, un’infermiera raccomandò a Birthe di portare il fratello in una struttura dove l’avrebbero nutrito a sufficienza. Una casa di cura o qualche altra clinica. Magari solo per qualche giorno, poi sarebbe potuto tornare a casa. Seduto dall’altra

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